(foto LaPresse)

Assalto al premier

Perché anche il Pd non vede più Conte come un affetto troppo stabile

David Allegranti

O decreto aprile (ormai maggio) o fine politica del premier, dicono ora nel Pd. Le mosse possibili e tutti gli ostacoli

Roma. Nel Pd adesso la domanda si fa concreta: per quanto ancora Sergio Mattarella proteggerà il presidente del Consiglio Giuseppe Conte? Anche perché, come sintetizza una fonte del Foglio, “il timer è partito”. Ieri sui giornali, via interviste, c’era un trittico in azione: la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, il capo della task force per la fase 2 Vittorio Colao e il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio. Più o meno, il bersaglio era Palazzo Chigi. E più o meno, il Pd ha deciso di concedere ancora un po' di tempo a Conte, ma già si interroga sugli spazi per cambiare il governo. Il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, per dire, si è preso tre settimane di tempo prima di valutare, ma prima o poi – più prima che poi, se le cose non prenderanno la piega giusta con il decreto Aprile – la domanda fatidica arriverà: non è che Conte sta per diventare per il Pd un ex affetto stabile?

 

“Io ho sempre personalmente applicato un sano e prudente distanziamento sociale”, dice al Foglio scherzando Matteo Orfini, già presidente del Pd. Ma quindi si sta entrando in una fase 2 anche per Conte e il governo? “Tornando seri, sì, lo spero. Nel senso che spero si torni a una discussione vera e democratica. Fin qui dpcm e decreti blindati. Zero discussione politica anche nei partiti. Era comprensibile e accettabile nell’emergenza. Ma progettare come ripartire è appunto un progetto. E si fa con gli strumenti della democrazia, non con le task force. E senza deleghe in bianco a nessuno”, dice Orfini al Foglio. L’impressione, dunque, è che il Pd voglia – dopo aver concesso una cambiale in bianco a Conte – riprendersi i suoi spazi.
Dice Andrea Romano, portavoce di Base Riformista: “Conte va aiutato dalla politica ad affrontare le fasi 2, 3, 4 dell’emergenza Covid. Non è solo questione di ‘capacità tecnica’ nello scrivere i vari provvedimenti – di cui si occuperà la macchina amministrativa di Palazzo Chigi e dei vari ministeri – ma proprio di condivisione dell’onere di accompagnare l’Italia in quella che si annuncia come una delle fasi più impegnative della sua storia recente”.

 

Questo peso “non può essere sostenuto dalle spalle di una sola persona o del suo staff (soprattutto se quella persona e il suo staff nascono al di fuori della politica) ma dev’essere distribuito e dunque condiviso sulle spalle di partiti che sono luoghi articolati di competenze, rappresentanti territoriali, classi dirigenti. E’ prima di tutto nell’interesse dell’Italia che questo accada, e poi anche nell’interesse di Conte, perché solo questa condivisione permetterà di adottare misure di gestione dell’emergenza e di rilancio dell’economia che da una parte siano espressione dei bisogni più autentici del paese e dall’altra vengano accolti dal paese con favore e comprensione”. In questa fase insomma, il Pd vuole fare il tagliando a Conte, come si capisce anche dalle parole del deputato Antonello Giacomelli, già braccio destro di Dario Franceschini: “La nostra bussola deve essere il principio di realismo, mentre invece vedo fantasticherie su formule nuove per nuovi governi: non credo che ci sia alcuna condizione per alimentare questa discussione adesso, sarebbe una follia. E sempre secondo il principio di realismo, mi pare auspicabile che il parlamento migliori il decreto liquidità inserendo elementi di attenzione in più: se il governo ritiene che la fase 2, o meglio 1 e mezzo, necessiti di maggiore cautela allora è evidente che più resta il blocco più cresce l’esigenza di risorse pubbliche a fondo perduto per attività economiche, famiglie e imprese. Quindi il decreto aprile deve dare risposte forti in questo senso”. E sempre secondo il principio di realismo, dice Giacomelli, “credo che ci siano modelli comunicativi migliori di quelli che vediamo. Io direi di razionalizzare la comunicazione. Non è possibile che ogni consulente del governo faccia una sua conferenza stampa per annunciare la sua visione del mondo al paese. Ci sono già le conferenze stampa del presidente del consiglio, che peraltro andrebbero sempre dosate con misura, non aggiungerei altri annunci e altre questioni. Così come ho trovato irrituale, per così dire, che alle osservazioni della Cei, condivisibili o meno, abbia risposto con una agenzia il comitato tecnico-scientifico. E’ il governo, casomai, è il presidente del consiglio, insomma, che deve rispondere, non i consulenti del governo. Su questo aspetto ci dovrebbe essere lo stesso rigore che si usa per tenere bloccato il paese. Se la Cei pone un problema, sul quale non entro nel merito, non è che rispondono i tecnici. E’ il governo che deve valutare nella sua responsabilità”. E’ anche opportuno, dice Giacomelli, che il governo non consenta “alle burocrazie dei ministeri di frenare lo slancio, perché la politica deve prevalere sulla burocrazia. Già abbiamo esposto il presidente Mattarella a irrituali richieste e sollecitazioni nei confronti dell’Unione Europea. La Bce ha concesso un trilione alle banche purché sia finalizzato alle imprese, è stato sospeso il patto di stabilità, ci sono pure i 36 miliardi del nuovo Mes. Cos’altro serve? E’ opportuno che il governo si concentri su scelte rapide, con una visione. La prudenza può essere giusta, ma più aumenta la prudenza nella ripartenza, più è necessaria maggiore forza nel sostegno al paese”. 

 

O decreto aprile (ma ormai maggio) o morte politica, quindi. Lo dice anche il deputato Alfredo Bazoli, “penso che Conte sia passato indenne, anzi in piedi, e in modo dignitoso, attraverso la crisi più drammatica e repentina della storia della Repubblica. Ha retto il timone con serietà e senno. Insomma, per me è stato bravo, tenuto conto del contesto spaventoso. Ma la crisi non è ancora finita, e come si esce avrà una importanza ancora maggiore. La cautela nelle riaperture è giusta, però manca ancora una strategia chiara dal punto di vista del contenimento e delle misure sanitarie per gestire adeguatamente l’epidemia a paese aperto, e manca anche una strategia chiara su come usare le enormi risorse che arriveranno dall’Europa, e che dovranno essere destinate alla crescita economica, unica condizione che ci consentirà di gestire il mostruoso debito pubblico che avremo. Su questi due aspetti siamo un po’ in ritardo, occorre darsi una mossa. Dopodiché sul piano politico io non credo esistano maggioranze politiche alternative all’attuale. O meglio, non credo esistano maggioranze più solide, o meno fragili di questa”. L’alternativa, insomma, è il voto. Ma chi ci crede?

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.