(Foto LaPresse)

Questo matrimonio non s'ha da fare. O forse sì

Guido Vitiello

I promessi gestori dell'ex Ilva si ritrovano alle prese con una magistratura che da un lato gli chiede di bloccare gli impianti, dall’altro minaccia di incriminarli se li bloccano

Don Rodrigo ordina che Renzo e Lucia non si sposino, né domani né mai, e la cosa è già abbastanza incresciosa da scatenare centinaia di pagine di peripezie romanzesche. Ma immaginate se un altro signorotto, da un paese confinante, avesse disposto che il matrimonio s’aveva invece da fare a tutti i costi, altrimenti eran guai. Che storia diversa avremmo letto! Don Abbondio avrebbe dato segni di schizofrenia, cosa che all’epoca richiedeva un bell’esorcismo e i due promessi sposi altro che addio ai monti, sarebbero schizzati via verso un atollo nel Pacifico, foss’anche a nuoto, per poi far la vita dei naturisti polinesiani: un incrocio tra “L’esorcista” e “Laguna blu”.

 

I promessi gestori dell’Ilva si ritrovano alle prese con una magistratura che da un lato chiede di bloccare gli impianti, dall’altro minaccia di incriminarli se li bloccano. Non stupiamoci se, tra il Ducato di Milano e il Principato di Taranto, optano per la fuga. Ha scritto ieri Carlo Nordio che il paradosso della giustizia ha raggiunto qui livelli metafisici. Forse aveva in mente Kafka. Un altro uomo di legge e di lettere, l’avvocato Domenico Marafioti, preferiva ancorarsi a Manzoni. Nel 1983, ne “La repubblica dei procuratori”, avvertì che l’indipendenza dei magistrati si stava spingendo verso l’anarchia e l’atomismo giudiziario, con ricorsi storici che, sotto apparenze moderne, “richiamano le divisioni, i contrasti e le attribuzioni di potere dei secoli passati, come ai tempi delle signorie e dei principati”. Ogni ufficio del pm, profetizzò al vento, diventerà il castello d’un “signorotto dell’azione penale”.

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