Donald Trump (foto LaPresse)

La lingua di Donald Trump

Guido Vitiello

Il presidente americano dice sempre believe me, specie quando mente. Già nel 1960 Elémire Zolla metteva in guardia dai “poteri venefici del verbo credere"

Due ideuzze nate dalla lettura di Bérengère Viennot, la traduttrice francese che dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca si definì “Lost in Trumpslation” e che ora ha raccolto il suo sconcerto nel pamphlet “La lingua di Trump” (Einaudi). Un vocabolario elementare, poche parole enfatiche (great, tremendous, win) che galleggiano come chicchi di caffè nella sambuca di una sintassi sconnessa e ubriaca. Viennot sceglie due termini di paragone lontanissimi – i retori hitleriani e suo figlio dislessico – ma consiglio ai traduttori di Trump di mettersi alla scuola dei loro colleghi che si sono cimentati con Peeperkorn, l’olandese dall’inspiegabile carisma della “Montagna incantata” di Mann, dal cui guazzabuglio di frasi incoerenti affiorano qua e là esclamazioni perentorie (perfetto! chiuso!). La seconda idea: Trump, nota Viennot, dice sempre believe me, specie quando mente. In una sola conferenza stampa, ha usato il verbo credere ventuno volte. Ebbene, il “Breviario di magia nera” di Elémire Zolla metteva in guardia dai “poteri venefici del verbo credere, che bisogna schivare superstiziosamente”, perché “rende allucinato il mondo intero”. Sul soggettivismo stregonesco annidato in quel verbo si formano frasi “che servono a precipitare nel delirio non solo chi le usa ma chi ne è colpito, come una spada fa piombare nel male chi ne è colpito e chi la impugna”, riuscendo a dissolvere insieme, diceva Zolla, la verità oggettiva e quella morale. Era il 1960. Nessuno ancora aveva parlato di post-verità e di fatti alternativi.