(Foto LaPresse)

Uomini e bot

Guido Vitiello

Noi stiamo qui a preoccuparci dei programmi virtuali che si spacciano per umani, quando il problema sono i nostri simili che parlano come agenti artificiali

Uomini e bot. Un Elio Vittorini della resistenza digitale potrebbe farne un romanzo. Spesso i due tipi sono del tutto indistinguibili. Magari il facinoroso in carne e ossa, a differenza del suo omologo robotico, supererebbe il test di Turing, ma c’è da giurare che nessuno dei due passerebbe il test di Tourette, quello della nota sindrome. La coprolalia compulsiva, la riproduzione meccanica di scurrilità, ripicche triviali, calunnie, insulti razzisti e fantasie di stupro, insomma la scorrettezza politica ridotta a tic nervoso accomuna ormai uomini e bot. E io ripenso a una vecchia canzone: “Tanto tempo fa, quand’ero un marmocchio, avevo la fobia delle parolacce, e se pensavo ‘merda’ sottovoce, non lo dicevo; ma oggi, che mi guadagno il pane parlando come uno sporcaccione, non penso più ‘merda’, perbacco – però lo dico”. Così cantava Georges Brassens, “Le pornographe”, che nel ritornello si definiva appunto “il pornografo del fonografo”. Ma era un mezzo di riproduzione rudimentale. La mitraglia dei social network altera le dimensioni del fenomeno fino al punto dialettico in cui la quantità si ribalta in qualità. Non so, ha scritto tempo fa Luigi Manconi, se i “coreuti del Nuovo Conformismo Nazionale siano davvero cattivi, ma so che mostrarsi costantemente tali e parlare e gesticolare in tal modo, condizionando in qualche misura la loro sfera emotiva” è la premessa per la disumanizzazione. E noi stiamo qui a preoccuparci dei bot che si spacciano per umani, quando il problema sono i nostri simili che parlano come agenti artificiali.