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Il bi e il ba

Modificare l'identità sessuale per legge, un'illusione tracotante

Guido Vitiello

Senza avere la forza di affrontare un dibattito pubblico, le autopredicazioni identitarie chiedono di essere riconosciute direttamente in una norma. Rileggere il sociologo Frank Furedi per scoprire il nuovo uomo comune: un malato cronico

È possibile parlare della Ley Trans spagnola (un mezzo pasticcio legislativo andato in porto) e del Gender Recognition Reform Bill scozzese (un mezzo pasticcio che invece è naufragato tra le onde di un pasticcio politico e costituzionale più grande) senza mai fare uso di quelle due parole – trans e gender – che costringono anche il più benintenzionato dei commentatori a camminare sui gusci d’uovo? Sulle prime potrà sembrare un esercizio letterario un po’ ozioso, una contrainte alla maniera dell’OuLiPo (credo, nella fattispecie, che i semiologi la chiamino liponimia, ed è il mio modo pretenziosamente letterario per dire che giocherò a “Taboo”), ma a ben vedere il tentativo non è così stravagante. Perché ciascuno di questi pasticci, proprio come il pasticciaccio di Gadda, è “un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti” (che è poi il mio modo pretenziosamente letterario per dire: una tempesta perfetta). E le cause dei cicloni vengono da lontano, sono al lavoro da ben prima che i meteorologi della World Meteorological Organization abbiano modo di battezzarli con l’uno o l’altro nome. In questo caso, poi, l’astensione dalle parole tabù è specialmente utile: se lo si osserva nel suo schema astratto, infatti, questo ciclone ci indica il luogo in cui si concentrano tutti i fronti temporaleschi della identity politics dell’ultimo decennio e delle lotte per il riconoscimento che ingaggia in vari ambiti. 

 

Ho ripreso in mano un vecchio libro del sociologo Frank Furedi. Oddio, vecchio: ha quasi vent’anni, potrebbe essere mio figlio. Il titolo scelto da Feltrinelli per la traduzione italiana, Il nuovo conformismo, è un po’ fiacco e generico rispetto all’originale, che era Therapeutic culture. Furedi descriveva l’egemonia della cultura terapeutica in pressoché tutti gli ambiti della vita occidentale, e la traduzione in un linguaggio da counseling psicologico di quelle che fino a tempi recenti erano considerate difficoltà ordinarie nella vita di una persona – la paura per l’interrogazione a scuola, una battuta offensiva, un amore finito male, un trasloco – e che oggi sono ridefinite come altrettante forme di stress, ansia, fobia, sindromi dai nomi tecnici pittoreschi e soprattutto traumi. Ogni esperienza spiacevole è traumatica e lascia una cicatrice indelebile. Patologizzare e drammatizzare le reazioni emotive ai fatti della vita, diceva Furedi, è un invito a percepirsi come malati cronici, e questo delirio d’impotenza sta creando un modo nuovo di concepire il funzionamento della soggettività umana. Di questo “sé diminuito”, vulnerabile, insicuro delle proprie forze, che scorge ovunque fonti di minaccia e di pericolo, Furedi captava i primi timidi vagiti dagli anni Ottanta. Per sentirlo strillare a ugola spiegata, tuttavia, avremmo dovuto aspettare gli anni Dieci del Duemila, tra l’impazzimento locale dei campus americani e l’impazzimento planetario dei social network, i due fenomeni a cui Jonathan Haidt e Greg Lukianoff avrebbero poi dedicato un libro, The Coddling of the American Mind, che si può leggere come un’ideale prosecuzione del saggio di Furedi. 

 

E va bene, direte voi, ma tutto questo cosa c’entra con la legge spagnola, la legge scozzese e prima ancora con le parole tabù? C’entra, c’entra, basta pazientare un poco e arrivare in fondo al libro, e precisamente al passo in cui Furedi parla del modo in cui questo diminished self, incerto della propria identità, con un bisogno compulsivo di conferme, abituato a psicologizzare anche i temi collettivi o gli affari di stato e a vederli riflessi narcisisticamente nel proprio specchio interiore, si affaccia alla lotta politica. Ebbene: con queste premesse, “diritto al riconoscimento significa diritto a vedere accettata come valida la propria interpretazione del proprio stato soggettivo. Il rifiuto di mettere in dubbio la lettura che ciascuno dà di se stesso trova riscontro nell’attuale clima di relativismo morale. E in ogni caso la stessa assenza di una grammatica morale comune dà al riconoscimento un carattere superficiale e provvisorio. Il riconoscimento, senza dialogo e senza impegno critico, rappresenta una forma di autoconvalida che rischia di promuovere identità instabili e difensive. In fondo rappresenta una nuova cultura della deferenza. Non deferenza verso un’autorità tradizionale, ma verso l’istituzione che accorda il riconoscimento”, rispetto alla quale l’individuo si pone “in una posizione permanente di questuante, la cui identità dipende da una forma di affermazione burocratica”. 

 

Rileggetelo bene, sillaba per sillaba. Furedi non fa menzione delle mie due parole proibite, che all’epoca non erano ancora in cima ai nostri pensieri, sta solo sistematizzando le implicazioni di uno schema generale. Eppure, credo che non ci sia legenda migliore per la mappa dei nostri due casi recenti e di altri analoghi, che sono una specie di gigantografia di questa stessa logica. Il riconoscimento di un’identità – che in qualunque compagine umana è sempre frutto di un complesso negoziato sociale – è trasformato, in questo più ancora che in altri ambiti, nell’autopredicazione insindacabile di una percezione interiore. E questa affermazione identitaria, non riuscendo a farsi avanti per la via maestra del dibattito pubblico e della persuasione democratica – che anzi sono inibiti e scoraggiati in tutti i modi, dalla prassi del no debate all’intimidazione intellettuale, dall’ostracismo al ricatto emotivo, dalla ripetizione di slogan-mantra all’uso di tautologie incantatorie – sceglie la scorciatoia, in apparenza vincente, del diretto approdo istituzionale e legislativo. Dico in apparenza perché non è così che funziona, e perché non esiste al mondo una legge in grado di modificare in modo profondo, stabile, autentico e condiviso il significato che i membri di una società accordano a un aspetto fondamentale della vita come è la definizione dei sessi, tanto più se questo li costringe ad auto-ridefinirsi e a fare buon viso al cattivo gioco di quella che considerano una falsità. Illudersi che una legge possa far questo significa soccombere a un’illusione molto tracotante o molto ingenua. 

 

Che sia hybris o naïveté, o una miscela delle due, le identità affermate in questo modo sono per natura identità instabili e difensive, come diceva Furedi, e non a caso devono affidarsi deferentemente alla protezione di quelli che Louis Althusser (oggi voglio fare il marxista) chiamava apparati ideologici e apparati repressivi di stato, scuole e tribunali, che devono cooperare nel dare sanzione pubblica a una percezione soggettiva che fatica a tenersi in piedi da sola. Il rischio, facile da prevedere – e di cui negli Stati Uniti già si avvertono robusti presagi – è un contraccolpo da destra che non ci piacerà nemmeno un poco. In Italia è altrettanto facile prevedere che avremo direttamente l’anticiclone orbaniano senza passare per il ciclone californiano, o forse la cosa si risolverà in un fragoroso duello di retoriche caricate a salve: va così più o meno in tutti i campi. Ma faremmo bene a evitare entrambi i rischi. Perché i temi delicatissimi che queste leggi affrontano sono qui per restare, e in assenza di una “grammatica morale comune”, che nessuna legge può fissare o prescrivere, non sarà un tornado della sinistra illiberale a trasportare la fattoria delle nostre società nel regno arcobaleno di Oz e non saranno le scarpette di rubino della Strega dell’est (intesa come Europa dell’est) a ripiantare la piccola Dorothy solidamente nel Kansas. Come poi alcuni dei miei vecchi amici radicali possano vedere in questo stile di militanza settario e intollerante venuto dall’America una continuità con le storiche battaglie libertarie per i diritti civili, con i movimenti grassroots che non puntavano diretti alla stanza dei bottoni senza prima aver coinvolto l’agorà, con il magistero pannelliano del con-vincere (vincere insieme, anche con il tuo nemico), con la disponibilità a dialogare perfino con il “diavolo”, da Almirante a Muccioli, beh, è un mistero che francamente supera le mie modeste capacità di intendimento.

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