Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontra gli operai dell'ex Ilva (foto LaPresse)

S'avanza l'idea di una “mini Ilva” per tenere Arcelor in Italia

Alberto Brambilla

In assenza di miracoli, investitori cinesi e ritorno dello stato circola l’ipotesi di dimezzare l’Ilva. Compromesso industriale

Roma. Durante la sua prima visita a Taranto venerdì scorso, Giuseppe Conte si è sentito chiedere dai cittadini fuori dai cancelli dell’Ilva “cosa farebbe Padre Pio?” perché il premier, come noto, è devoto del santo di Pietrelcina. Mentre ieri la cinese Jingye ha raggiunto un accordo per rilevare l’inglese British Steel finita in bancarotta, qui non si vede nemmeno un interessamento di investitori asiatici (benché la China Communications Construction Company sia impegnata nel porto di Vado Ligure). Sfortunatamente non ci sono soluzioni miracolistiche per rimediare alla crisi del siderurgico motivata dal disimpegno annunciato la settimana scorsa da ArcelorMittal e motivato dalla rottura degli accordi contrattuali con un cambio di legislazione da parte del Parlamento, frutto di una accordo dei partiti di maggioranza Pd e M5s. Il Parlamento ha rimosso la protezione legale necessaria ad Arcelor per continuare a investire a Taranto, il cosiddetto “scudo penale” Lo scudo è una precondizione per operare nello stabilimento sotto parziale sequestro già da prima dell’arrivo della multinazionale nel 2018 . Il governo, con l’ennesima giravolta, ha offerto di ripristinarlo ma senza farlo. Arcelor ha rifiutato l’offerta. Mercoledì scorso Lakshmi e Aditya Mittal hanno comunicato a Conte che sarà necessario tagliare la forza lavoro di almeno 5 mila unità a Taranto su 10.351 lavoratori. Arcelor ha anche discusso della opportunità di mantenere la produzione totale annua a 4 milioni di tonnellate, rispetto alle 6 previste nel suo piano industriale. La prospettiva, tra le righe, è dunque quella di una riduzione delle attività nell’area a caldo, dove si produce l’acciaio, con un taglio conseguente delle maestranze al fine di mantenere una produzione di acciaio da altoforno inferiore alla metà delle 10 milioni di tonnellate annue potenziali, raggiunte solo in epoca Riva. Con una forza lavoro di oltre 10 mila lavoratori e una produzione di 4 milioni di tonnellate Ilva perde 780 milioni l’anno.

 

Per Arcelor è dunque anti economico continuare a gestire il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, che è parzialmente sotto sequestro – uno dei moli di scarico interni delle materie prime è sequestrato per un incidente mortale da luglio, mentre l’altoforno 2 è oggetto di indagini della magistratura da luglio. Per ragioni operative è impossibile superare le 4 milioni di tonnellate annue e fare profitti a parità di forza lavoro – sono attivi solo due piccoli altiforni, con n. 3 fermo, il n. 2 in stand by e il 5 da rifare, quest’ultimo da solo garantisce quasi la metà della capacità installata. L’altro motivo che rende impossibile portare l’Ilva a pieni giri è l’impossibilità di conciliare industria e ambiente: avere una produzione ad alti regimi motiva immediate proteste dalla popolazione locale e, anche se il livello di inquinamento non supera i limiti di legge, subito si innescano rimostranze della cittadinanza, dei gruppi ambientalisti locali e sui media, com’è successo la scorsa primavera. Come si può pensare di risolvere il problema? Dalla settimana scorsa i rifornimenti navali di minerali e di carbone si sono fermati e di conseguenza le linee di agglomerazione sono ferme.

 

Anche le industrie metalmeccaniche del nord sono in allarme per la preoccupazione di non ricevere più forniture e doversi rivolgere all’estero, con oneri maggiori per approvvigionarsi. L’Italia, insomma, pare accorgersi che il 50 per cento dell’acciaio che consuma arriva dall’Ilva. Il governo Conte non sembra avere una soluzione o un piano B, nemmeno il M5s è compatto nel volere rimettere lo “scudo penale”. Ma nell’esecutivo comincia a correre la consapevolezza che parte della soluzione – prima di ipotesi di nazionalizzazione smentite dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (“magica illusione”) e di intervento della Cassa depositi smentito dalla stessa Cdp – passi da una drastica riorganizzazione dell’assetto produttivo dello stabilimento con il personale eventualmente in uscita da sostenere attraverso ammortizzatori sociali. Una riorganizzazione che passa dalla chiusura degli impianti vecchi, antecedenti al raddoppio del siderurgico negli anni 70, magari sostituendoli con forni elettrici, che farebbe dell’Ilva – la fu acciaieria più grande d’Europa – una “mini Ilva”, in grado di marciare alla metà del potenziale. L’Ilva e Taranto conosciuti finora non esisterebbero più.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.