Foto LaPresse

Perché a Taranto la politica ha distrutto un capitale di fiducia

Franco Debenedetti

Se lo stato non fa rispettare i contratti perché mai dovrebbe gestire un’acciaieria che non è il suo mestiere?

L’Ilva, oltre che acciaio, produce dividendi politici. È così fin dalla sua origine, nel 1959, quando Antonio Segni, presidente del Consiglio, per creare posti di lavoro nel Mezzogiorno, e contro il parere dei tecnici dell’Italsider, decide di dare il via a Taranto alla costruzione del quarto centro siderurgico.

   

Sessant’anni dopo sia la decisione di continuare a produrre acciaio, sia quella di chiudere tutto, pagano ciascuna un dividendo politico a una parte di cittadini. Se si fa la scelta di mantenere l’Ilva si incassa il dividendo da chi era favorevole. Ma poiché il grido di chi si oppone è più forte della voce di chi è d’accordo, diventa più forte il dissenso di chi era contrario, e quindi più alto il dividendo politico che si può incassare rovesciando la decisione.

  

Oltre all’asse della scelta “industriale” c’è l’asse della identità politica, possiamo immaginarli ortogonali tra loro. Sia tra i favorevoli sia tra i contrari c’è chi è di destra e chi di sinistra (tralasciando le “sfumature” interne a ciascuna parte): ne risultano quindi quattro constituency, ciascuna con sensibilità e preferenze diverse. Così stando le cose ogni decisione non può che essere dilaniante, sia sull’asse della convivenza sociale sia su quello degli equilibri politici.

  

Eppure qualche punto fermo c’è. Dovrebbe essere acquisito che è possibile produrre a Taranto acciaio da altoforno a coke con livelli di inquinamento accettabili. Infatti chi aveva bloccato la produzione ha dato il suo consenso a riprenderla, limitandone la quantità fino all’esecuzione di ben precise modifiche impiantistiche e operative. Tra quanti sono per la demolizione, accanto a chi positivamente vuole una Disney World al posto della colata dall’altoforno, ci saranno altri che semplicemente non si fidano: e se le opere previste non venissero eseguite? E se non fossero sufficienti a ridurre l’inquinamento ai livelli previsti?

 

Manca la fiducia: dei cittadini che l’impresa faccia quanto stabilito, dell’impresa che non ci siano sorprese. Con quello che è successo nei luoghi della politica e con il clima locale imperante, non si può dire che abbiano tutti i torti. Bisogna ricostituirla.

 

L’inquinamento è un’esternalità negativa: compito del governo è proteggere i cittadini dalle sue conseguenze. Se la gente non si fida, il governo deve fornire la propria garanzia: risponderà lui del fatto che l’azienda esegua quanto pattuito, e pagherà per le ulteriori opere che si dovessero rendere necessarie. Una garanzia diretta, immediatamente efficace, non quella presunta da una partecipazione della Cassa depositi e prestiti, che oltretutto comporterebbe di bloccare danaro proveniente dal risparmio postale.

 

Un altro punto fermo è che produrre acciaio a Taranto, anche con gli adeguamenti tecnici richiesti, può essere profittevole: almeno tale veniva giudicato al momento della gara, vinta da Arcelor in concorrenza con altri due pretendenti. Poi ci sono gli andamenti dei mercati, quantità, qualità e prezzi: ma in questa variabilità consiste il rischio di impresa. Lo stato deve solo garantire, a Taranto come altrove nel paese, che l’azienda possa adeguare la quantità di mano d’opera all’andamento del ciclo, e che i lavoratori interessati possano fruire delle e provvidenze di legge.

 

Qualcuno parla di nazionalizzare lo stabilimento: così dimostra solo quanto il pregiudizio anti-impresa e pro-stato sia radicato e diffuso. E anche insensato: se non si ha fiducia che lo stato sappia fare il suo mestiere, cioè far rispettare i contratti, perché mai dovrebbe fare quello che suo mestiere non è, cioè gestire un’acciaieria? E quanto al rischio di impresa, non c’è ragione di accollarlo tutto intero allo stato. Se sono sopravvenuti fatti eccezionali, o imprevedibili al momento del contratto, il codice civile ha norme per gestire questo tipo di controversie.

 

Ristabilendo la fiducia, si mettono le condizioni perché i dividendi politici si annullino a vicenda, almeno in buona parte. Ci andrà un po’ di tempo: è a distruggerla che si fa in un attimo. Basta un emendamento. Come si è visto.

Di più su questi argomenti: