In primo piano, Giuseppe Pasini, acciaiere, presidente di Confindustria Brescia (foto LaPresse)

“Fidatevi: Mittal non rimarrà neppure con lo scudo penale”

Michele Masneri

Il capo di Confindustria Brescia, acciaiere, spiega cosa rischia l’Italia a giocare con la decrescita e con il falso ambientalismo

La locomotiva d’Italia è in crisi. Nel terzo trimestre dell’anno il manifatturiero bresciano ha registrato un calo del 4,5 per cento sul trimestre precedente e dello 0,9 rispetto allo stesso periodo del 2018. E’ un segnale inquietante. Brescia, già capitale dell’acciaio nel Dopoguerra col famoso tondino, ha saputo ristrutturarsi e negli ultimi anni diventare una specie di Baviera italiana, tornando al manifatturiero e inanellando trimestri tutti col segno positivo. La città col tasso più alto di immigrazione in Italia, 18,5 per cento, ma disoccupazione al 5, metà della media nazionale: un modello che prende origine dalla Dc cara al bresciano Paolo VI. Integrazione più tondino, insomma #orgogliobrescia, come l’hashtag sull’albero della vita, celebrato all’Expo della rinascita milanese (ma costruito con l’acciaio bresciano).

 

Adesso però “è la prima volta dal 2013 che il dato tendenziale segna un calo”, dice al Foglio Giuseppe Pasini, acciaiere sommo, presidente della colossale Feralpi (1,3 miliardi di fatturato, 2,4 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno) e degli industriali bresciani, in corsa anche per Confindustria. “Diciamo che ce lo aspettavamo, perché era un dato previsto. Il problema però non è Brescia: se noi abbiamo fatto meno 0,9, direi che abbiamo resistito in un periodo così. Chissà cosa hanno fatto altri territori, ecco”. Brescia e il suo orgoglio nello specifico sono stati penalizzati dalla congiuntura internazionale.

 

“Tra i comparti più colpiti c’è l’automotive, perché Brescia risente del rallentamento tedesco”, dice Pasini. “La Germania produce 5,5 milioni di auto l’anno, e la frenata del settore è del 15-20 per cento, per cui si capiscono le conseguenze, essendo Brescia il secondo cluster italiano di produzione di componentistica auto dopo Torino”, dice ancora il boss degli imprenditori bresciani. Che però guarda all’intero paese. “Certo potrebbe esserci un recupero, ma non nei prossimi sei mesi, semmai nella seconda parte dell’anno; e certo non grazie alla manovra. Una manovra che non aiuta la crescita”.

 

Pasini di solito è molto esplicito: “Possono dire quello che vogliono ma non è una manovra che porta crescita. E’ stata fatta in buona parte a debito, per 16,6 miliardi. Poi hanno messo un po’ di tasse, sulla plastica e sulle bibite zuccherate, hanno tassato insomma consumi e imprese. Quando bisognerebbe semmai rilanciare le infrastrutture. I cantieri. Secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, ci sono 68 miliardi pronti per opere che possono partire subito”.

 

E poi l’Ilva. “Ecco, in un momento come questo c’è pure l’Ilva”. Da acciaiere, Pasini considera che “ArcelorMittal perde 2 milioni di euro al giorno a Taranto, sessanta al mese, in un momento in cui già c’è un rallentamento globale del siderurgico. Io l’ho già detto, per farli restare bisognerebbe offrire degli strumenti, e non è sufficiente lo scudo penale”. Quindi il vituperato scudo, che tutela la gestione da eventuali reati ereditati da quelle precedenti, e fa impazzire i Cinque stelle, sarebbe da rimettere. “Mi sembra il minimo”, dice l’acciaiere. “Ma lei se fosse un manager andrebbe mai a guidare un’azienda dove poi deve rispondere di reati di quelli che ci sono stati prima di lei? Non ti ci viene nessuno, neanche pagato una fortuna. Anche perché sono reati gravissimi. Ti arriva subito una comunicazione penale”.

 

Il fatto è che lo scudo non basta secondo Pasini. “Chiederanno anche degli ammortizzatori sociali, è chiaro, un po’ di cassa integrazione, si parla di 4/5 mila persone, non è uno scherzo. E’ una situazione che doveva essere gestita meglio dal governo”. Se ArcelorMittal se ne va, “e mi auguro di no, è un fallimento, abbiamo fallito come paese”, dice il presidente degli industriali bresciani. “Stiamo parlando del più grande complesso siderurgico europeo, che produce buona parte dell’acciaio oggi in Italia, secondo paese manifatturiero europeo. Se chiude è un fallimento della nostra politica industriale. Anche perché non è facile trovare qualcuno che li sostituirà”. Un fallimento anche di un certo ecologismo: “Non deve passare l’idea che non si possa conciliare la crescita con l’ambiente. Certo, uno stabilimento come Taranto ha delle complessità ambientali, diverse per esempio dalla nostra. Noi ricicliamo l’acciaio, facciamo economia circolare, mentre a Taranto partono dal minerale ferroso; ma non deve passare il messaggio che lavoro e impresa non vanno d’accordo con l’ambiente. Si può creare lavoro salvaguardando la sostenibilità sociale con quella ambientale”, dice Pasini, coi suoi stabilimenti bresciani all’avanguardia che recuperano il calore dell’altoforno per scaldarci gli edifici pubblici. Ma lei Taranto non se la prenderebbe proprio? “No, grazie”.

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