(foto LaPresse)

Se prima eravamo in ventisette a discutere dei test

Fabio Massa

I medici del comitato scientifico della Regione non sono d’accordo su nulla. Così è dura decidere

Foto di gruppo: l’avvocato Fontana e l’avvocato Gallera. Intorno, uno stuolo di medici. Ventisette, per la precisione, suddivisi in sottogruppi per specializzazione. E’ una fotografia che ricorre spesso, in Regione Lombardia. Forse non sono proprio 27, tutte le volte. Anzi, ultimamente sono meno perché pare che Massimo Galli dell’ospedale Sacco non si presenti da un po'. E’ la foto non tanto della sconfitta dei due politici, quella si certifica solo con le urne, che sono lontane tre anni. E’ piuttosto l’immagine di un caos pandemico (quanto all’esito pratico) dei “tecnici” intesi come categoria superiore, antropologicamente quasi, ai tanto vituperati politici. Tanto che i vari cespugli di sinistra, più o meno evoluti e cresciuti, hanno partorito l’idea di commissariare la Sanità lombarda e dunque Fontana e Gallera. Nessuno si sognerebbe di attaccare ad esempio Massimo Galli, che collabora anche con il sindaco di Milano. Il quale – peraltro – sull’idea di commissariare ha espresso tutte le sue perplessità definendola “un autogol”. Ma torniamo ai 27 tecnici, alla foto di gruppo. Riprendendo le parole dell’antagonista più vicino e coinvolto di Attilio Fontana, ovvero Beppe Sala, che in un video dei suoi su Instagram nell’ormai celebre “Buongiorno, Milano”, ha detto chiaro e tondo che i politici per prendere decisioni hanno bisogno di risposte univoche da parte degli esperti. E invece. 

 

Invece. I test sierologici, ad esempio. Ognuno ha la sua idea. Trovarne due uguali è difficile. Tre giorni fa Fabrizio Pregliasco, virologo in Statale e direttore sanitario del Galeazzi, spiegava all’Ansa: “E’ anche importante che partano i test sierologici perché è fondamentale, ai fini delle decisioni da prendere localmente, poter sapere quale sia la reale diffusione del virus sul territorio. Ma va ribadito che questi test non sono patenti di immunità”. Ma soprattutto, rilevava, “ci vogliono più tamponi mirati e un’organizzazione sul territorio capace di intercettare e isolare i soggetti positivi”. Quindi i test sierologici non sono patenti di immunità. E i test “rapidi”? “Ci sono margini d’errore più evidenti”. Invece Massimo Galli, che collabora con il sindaco Sala alla mappatura dei conducenti Atm: “Avrei pochi dubbi sulla loro utilità per lo scopo che ci prefiggiamo”. E in effetti il protocollo del professore prevede un test rapido, che in caso di positività conduce a un test sierologico e infine a un tampone. Silvio Garattini, presidente del Mario Negri, all’inizio di aprile, è moderatamente ottimista: “In alcune regioni si è cominciato a fare questo tipo di analisi, come in Toscana. Bastano due gocce di sangue e l’analisi è anche relativamente veloce. E’ sicuramente una via percorribile. Abbiamo ancora qualche settimana per uniformare i laboratori con un unico certificato di garanzia per questi test, ma in emergenza si accettano anche le cose che non sono perfette”.

 

Paolo Grossi, infettivologo che fa parte, come Garattini e Galli e Pregliasco, della foto di gruppo, ma nella sezione infettivologi, sui test rapidi deve essere necessariamente ottimista: “Il test rapido è semplice e sicuro da usare – spiega un ricercatore della sua università, che ha sviluppato un progetto con il suo ruolo definito ‘incisivo’ – e consente di fare uno screening immediato di primo livello della popolazione”. Sergio Harari del San Giuseppe, un altro del gruppo tecnico scientifico di Regione (ma tra gli pneumologi, insieme a Pierachille Santus del Sacco), scrive un lungo articolo per il Corriere, cui collabora da anni: “A oggi l’unica ipotesi per fare questo che sembrerebbe percorribile sono i test anticorpali su siero. I punti da chiarire per poterne implementare l’utilizzo su vasta scala sono però ancora molti: non tutti i kit sono di uguale qualità e riproducibilità, l’affidabilità dei risultati non è ancora ottimale, ma, soprattutto, non sappiamo in quanto tempo si sviluppa la risposta anticorpale”. Giuliano Rizzardini del Sacco, anche lui parte del comitato nella sezione infettivologi, la spiega così a fine aprile: “Quello che non sappiamo ancora è se si sono sviluppati anticorpi realmente protettivi, la quantità degli anticorpi stessi, e soprattutto non sappiamo per quanto tempo questi anticorpi sono protettivi o no”. Francesco Castelli, Spedali Civili di Brescia, stesso sottogruppo, invece è pro test: “I test sierologici vanno fatti il più possibile per poter identificare le persone che possono rientrare al lavoro in sicurezza. Ci daranno un valido supporto anche se non è ancora noto quanto duri l’immunità sviluppata”. Fausto Baldanti, che si è dimesso dal comitato (sezione virologi), è finito proprio per i test sierologici in mezzo al fuoco delle polemiche. Secondo le tesi a lui avverse avrebbe “fermato”, grazie proprio al suo ruolo nel comitato, i test rapidi. Ma intanto con il San Matteo di Pavia stava sperimentando un test sierologico “normale” elaborato da Diasorin: conflitto di interessi? Apriti cielo. Il presidente del Policlinico San Matteo, Alessandro Venturi, ribadisce però in lungo e in largo che non solo la validazione del test sierologico ha dimostrato che è uno dei migliori in commercio, tanto che lo stanno comprando a mani basse Stati Uniti, Canada e nel resto del mondo (il titolo di Diasorin avanza a botte di 5 o 6 per cento in Borsa ogni giorno), ma anche che l’accordo con il San Matteo favorisce e molto la ricerca all’interno dell’ospedale. “Per questo è un grande successo del quale andiamo fieri il fatto di aver inserito nel contratto le royalties”, dice. Però indaga la procura, in base a un esposto presentato, e la polemica non ci ha messo molto a divampare. Intanto, l’Emilia Romagna scrive, nero su bianco: “I test rapidi basati sull’identificazione di anticorpi IgM e IgG specifici per la diagnosi di infezione da Sars-CoV-2, non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare”. E li vieta, laddove usati dai privati cittadini. Il modello è veneto è incarnato da Andrea Crisanti, il virologo dell’Università di Padova teorico dei tamponi a tappeto: “Non emergono dati che permettano di collocare i test sierologici in un percorso diagnostico, così si rischia un enorme spreco di risorse”, gela tutti l’esperto caro a Luca Zaia. Lui nella foto di gruppo lombarda non c’è, ma è come se ci fosse, perché nel paragone tra Lombardia e Veneto lui viene sempre tirato in ballo.

 

Poi c’è Alberto Zangrillo, anche lui del gruppo di esperti della Regione, reparto anestesisti rianimatori. Lui rimette in discussione ogni certezza, altro che test sierologici. A Libero spiega: “Non c’è alcuna evidenza scientifica per cui dobbiamo stare distanti, tanto più se questa misura è basata sulla logica del centimetro. E poi: 7 metri quadrati a testa in piscina? Su quale base? Quanto alla mascherina, finché non avremo certezza che la protezione degli anziani e il buon senso vengono applicati, resta una tutela generica”. Nel comitato, sempre anestesisti rianimatori, c’è pure Antonio Pesenti, che gestisce per il Policlinico l’ospedale in Fiera. Di test sierologici non parla, ma spara sull’ospedale che è tenuto a gestire, dicendo che avrebbe chiuso nel giro di un paio di settimane. Smentito dalla Regione, peraltro seccamente, perché l’ospedale del Portello pare proprio che rimarrà in piedi fino alla fine dell’emergenza. Ma tant’è: ormai la vulgata comune è che si siano buttati oltre 20 milioni di euro perché “l’ospedale chiude”, anche se non chiude. Giuseppe Remuzzi, personalità di indubbia fama internazionale, fa parte del comitato ma nella sezione farmacologi insieme a Garattini, mette altra carne sul fuoco delle incertezze della politica: “I malati di adesso sono completamente diversi da quelli di tre o quattro settimane fa – spiega il 9 maggio – continuano a diminuire le terapie intensive e i ricoveri nei reparti normali. Prima arrivavano nei pronto soccorso 80 persone tutte con delle difficoltà respiratorie gravi, oggi ne arrivano dieci e otto le puoi mandare a casa”. Quindi? Quindi boh. Se il cittadino entra in confusione, figurarsi il governatore che in base a questa giungla di opinioni deve prendere decisioni, scrivere ordinanze, fare delibere. Senza contare che ogni intervista, ogni opinione anche personale come quella di Pesenti sulla chiusura o meno di Fiera, crea fibrillazioni e malumori. E’ un marasma di camici ed esperti. Che, secondo Alessia Melegari (super esperta della Bocconi), anche lei nel comitato settore epidemiologia, dovrebbero anche essere di più. Il 30 aprile spiega al Corriere: “Per la fase 2 è importante il supporto delle scienze sociali, oltre le conoscenze mediche. E la collaborazione fra specialisti di discipline diverse sarà strategica”.

 

Stretto nella fotografia tra gli altri 27, Fontana deve poi prendere delle decisioni: e si capisce che non è facile. Quella che ha preso qualche giorno fa è ad esempio frutto di un buon senso mediano, ma si capisce che non è facile nemmeno farla riconoscere come tale. In pratica, anche per tenere a bada una psicosi crescente da “mi faccio il test rapido e non se ne parla più”, il governatore ha personalmente sconsigliato di fare il test, ma i cittadini li potranno fare privatamente e se risultano positivi dovranno poi sottoporsi al tampone. Ma la Lombardia rimborserà solo quelli positivi. Per chiudere sui test sierologici rapidi, c’è una frase di Domenico Arcuri: “Il test sierologico – spiega il commissario al Corriere della Sera – di certo non è una patente di immunità, serve a sapere come si è mosso il virus. E vanno evitati il più possibile i cosiddetti test rapidi”. Questo mette fine alla diatriba? Manco per sogno. In fondo è Arcuri, e non fa neppure parte del comitato della Regione Lombardia.