(foto LaPresse)

La libertà di ricominciare. Le mascherine e il Dna dei lombardi

Maurizio Crippa

L’assessore Cattaneo si è occupato della logistica dei Dpi e spiega un dissidio “culturale” che peserà anche sulla fase 2

Le mascherine sono sicurezza, barriera contro il virus, obbligo che abbiamo imparato ad accettare e condizione per le aziende e gli uffici per poter riaprire. Ma le mascherine sono anche una buona metafora per capire che cosa è accaduto in questi due mesi lombardi e italiani, e anche la radice di uno “scontro tra due visioni della società e della gestione di cosa è pubblico, cioè di tutti e non solo statale” che rimane evidente, irrisolto. Anche dopo l’annuncio della fase 2 da parte del governo, del piano, non proprio sovrapponibile, messo in campo dalla Regione Lombardia e anche dopo la breve visita di Giuseppe Conte nella regione più colpita. Raffaele Cattaneo, in questi due mesi, si è occupato molto di mascherine. Assessore regionale all’Ambiente e Clima, in precedenza assessore alle Infrastrutture e Mobilità e, nella scorsa legislatura, presidente del Consiglio regionale, è uno degli uomini più esperti della giunta di Attilio Fontana. Dna di vecchia scuola formigoniana, e soprattutto il Dna “dei lombardi, che questo gusto per la libertà e la creatività ce l’hanno nel sangue”. Cattaneo è un amministratore pragmatico, e all’inizio della crisi del Covid il presidente Fontana lo ha messo a capo della task force incaricata di reperire e produrre mascherine e Dpi.

 

La storia può cominciare da qui. “All’inizio c’è stata la grave emergenza, nazionale, per i materiali, i camici e i sistemi di protezione. Abbiamo subito individuato aziende del tessile, della moda, o confezionisti e di altri settori che potessero riconvertire la propria produzione. La prima è stata la Fippi di Rho, che produce pannolini. Ci sono state polemiche estetiche, e sono riusciti a migliorare anche su questo, ma dal punto di vista della sicurezza e dei materiali erano idonee. in breve è arrivata a produrne 900 mila al giorno. Ad oggi ne ha consegnate ad Aria, la centrale regionale per gli acquisti, 13 milioni di pezzi. Inoltre abbiamo messo in campo una collaborazione con il Politecnico di Milano, attraverso cui, con regolari bandi e in trasparenza, abbiamo avviato la selezione di aziende che potessero dare una mano in questa emergenza. Su centinaia di aziende e mediatori che si erano resi disponibili, ne abbiamo selezionate trenta. Per dire il rigore. Ma per far partire la produzione occorre ovviamente la certificazione di idoneità da parte dell’Istituto superiore di Sanità e dell’Inail. Ma le prime autorizzazioni, e solo per ora per cinque aziende, sono arrivate dopo quaranta giorni. Al momento, ci sono altre regioni che hanno più aziende autorizzate dall’Iss a produrre questi dispositivi. Il che va benissimo, ovviamente. Ma a cosa è dovuta la lentezza verso la Lombardia, che è anche la Regione con più potenziale necessità?”. Insomma ecco la metafora: c’è la burocrazia e l’inefficienza statale, ma è anche un segno di poca collaborazione istituzionale, sembra di capire. In questa situazione, il via libera a una produzione garantita dal Politecnico di Milano, non un’autocertificazione, e dalla Regione dovrebbe avvenire con una procedura snella. Non è così? “Come dicevo, c’è l’ombra, o più che l’ombra, di un sospetto verso ciò che non è direttamente controllato dallo stato o dalle sue agenzie, ma noi crediamo che la visione giusta – sempre – sia di stabilire alcune regole fondamentali, ma poi lasciare la maggior libertà possibile ai cittadini e alle amministrazioni di operare per il meglio. In base al principio di sussidiarietà, ma prima ancora in base a un concetto di fiducia”.

 

Ora c’è la fase 2, e c’è anche la road map della Regione che – situazione sanitaria permettendo – chiede di fare più cose, e in parte diverse, da quelle indicate dal governo. Qual è la strada secondo lei? “La soluzione passa per la fiducia ai cittadini, non per il sospetto e il controllo. Ad esempio, è ovvio che le aziende hanno già da tempo iniziato a costruire le condizioni di sicurezza per ricominciare a lavorare, senza aspettare le regole dei dcpm. O pensiamo che gli imprenditori vogliano uccidersi, fare strage dei propri lavoratori? Ma le condizioni per ri-costruire vengono dal basso, da chi sul campo conosce le esigenze, si mette in gioco con creatività. Invece, anche in questo momento così grave, la risposta del governo, e delle ‘strutture tecniche’ è stata di sospetto. Non solo per noi Regione ma per tutti i cittadini: fai una cosa e te ne chiedono un’altra. Il caso dell’ospedale di Fiera, guardato subito con sospetto, è evidente. O i giudizi negativi e ingiustificati sulla Sanità privata lombarda, che invece ha collaborato molto bene”.

 

Anche le diverse visioni tra aprire tutto insieme o aprire solo certe zone del paese rientrano in questa tensione che Cattaneo ama definire “culturale”, prima ancora che politica. Posto (ma questo l’assessore non dice) che al momento la regione meno indicata per riaprire dal punto di vista sanitario è proprio la Lombardia. “Noi abbiamo fatto alcune osservazioni e richieste al governo soprattutto intese a snellire le procedure e a mettere in condizione l’iniziativa privata di agire, perché questo è il Dna della Lombardia. Mentre la logica del dpcm e tutto quello che ha messo finora in campo il governo dimostrano una ideologia di controllo statalista, è l’ottica del command and control”. Secondo Cattaneo, la radice è profonda: “L’attacco politico, e mediatico e giudiziario, non dimentichiamo, che la Lombardia ha subito va evidentemente al di là del merito. C’è, da parte di molti, la volontà di mettere sotto accusa un modello che invece ha sempre dimostrato di essere positivo: per la libertà delle persone e dell’impresa, ma anche perché ha dimostrato che ‘pubblico’ e ‘statale’ non sono sinonimi, che può esistere una collaborazione tra pubblico e privato che fa bene a tutti”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"