(foto LaPresse)

Lettera da Brescia. Il dott. Rozzini, il morbo, i suoi vecchi e i canti

Marco Archetti

Dalla lettura di Camus a quelle più tecniche. Il geriatra della Poliambulanza di Brescia ci racconta perché secondo lui "una comunità che abbandona i vecchi è una comunità che fa schifo"

"Albert Camus dice che la peste finisce”. Comincia da un futuro intravisto tra le pagine di un romanzo, il dottor Renzo Rozzini, geriatra della Poliambulanza di Brescia, per raccontarci cosa significhi il presente, questo tempo improvviso che ci sembra non sia mai stato più repentino nel prorompere. Dov’è finito, improvvisamente, il passato? E il futuro? Sarà star chiusi nelle nostre case com’è stato fino ad ora, ciascuno alle prese con le inevitabili bolle da cui, per una superstizione dura a morire, crede di apprendere lo stato reale delle cose? “Premessa: non avrei mai immaginato, a 65 anni, di trovarmi a vivere un’esperienza così complicata. Eppure è accaduto. Quanto a me, io sono dentro, in Ospedale, e non so nulla di quello che sta accadendo fuori. Qui sei assorbito dal senso del dovere, dall’idea di far funzionare la baracca. Ma quelle poche informazioni che intercetto mi restituiscono una certa pochezza di affermazioni. E un sospetto: anche fuori si sa poco di quel che accade dentro”. Ignarità che si guardano, senza parlarsi davvero. E intanto, dentro, ossia negli ospedali, in corsia, nella furiosa fornace, si è assistito al sovvertimento di tutti i paradigmi, si sono smontati reparti e approntate conversioni formative rapide – “smantelli ortopedia e formi l’ortopedico per fronteggiare la situazione” –, ma nel giro di poco ci si è trovati a contare in un mese i morti che si contano in un anno, a fare i conti con l’incertezza prognostica e con dimissioni rare, degenze lunghe e reparti straripanti, e col martello costante delle telefonate dei parenti, che non hanno altro modo per stare vicino ai degenti, i quali nel frattempo possono degenerare in poco tempo, così che un’informazione data oggi potrebbe essere inattendibile nel giro di poche ore.

 

“L’impatto” – racconta il dottor Rozzini al Foglio – “è stato anche culturale, e ha riguardato il rapporto col paziente. Innanzitutto non lo tocchi più. Lui ti vede, ma tu sei blindato nei cosiddetti Dispositivi di Protezione Individuale. Pertanto occhi e udito si sostituiscono a tutto il resto. Lo guardi, ascolti la sua tosse. E lui guarda te. Ma anche tu non vedi lui, vedi solo gli occhi febbricitanti che gli galleggiano sul volto, in gran parte coperto dalla maschera. Ora abbiamo accumulato più conoscenza, ma i primi tempi sono stati complicati. Tra l’altro nessuno di noi ha consuetudine con un tasso così elevato di mortalità… Ieri ho ricevuto due medici di MsF e ho chiesto qual era la loro prospettiva in merito. Mi hanno risposto: ‘Sa in sei mesi quanti bambini muoiono per morbillo in Sierra Leone e Haiti?’. Capisco, e penso che non dobbiamo mai e poi mai dimenticarlo. Però non si può prescindere dal significato che ogni evento ha nella comunità in cui si produce. Quando trent’anni fa ricevetti un luminare ginevrino e lo portai davanti alla stele commemorativa delle vittime di piazza Loggia e gli spiegai che ricordava otto morti caduti per un attentato, lui mi disse che si trattava più o meno di un incidente stradale”.

 

Riflette ad alta voce, Rozzini, e per fare il punto della situazione riparte da Camus. “Non scherzo, è tutto scritto nella Peste. Tornavo a casa e lo leggevo di notte, insieme al New England Journal of Medicine. Vede, l’impatto del Covid, devastante sulle persone fragili, non ha risparmiato nemmeno gli operatori. Un giorno ho trovato una collega seduta a terra che piangeva. Mi fa: in una sola giornata ho constatato sette decessi, uno di un uomo che aveva la stessa età di mio padre… Ho proprio toccato con mano la corruzione del benessere psichico degli operatori. Perché all’inizio devi agire e scoppi di adrenalina. Io stesso sentivo premere l’imperativo a salvare più gente possibile. Poi, quando la stanchezza si fa più sentire, arrivano i dubbi”. A chiedergli di fare dei numeri e il ritratto di questa malattia, ci si sente rispondere: “E’ la malattia delle persone attive. L’abbiamo presa in ragione della nostra vitalità. La malattia in sé è facile da diagnosticare e monitorare, i punti critici sono venuti a galla quando abbiamo dovuto aprire i reparti, tenuto conto che mancavamo di terapie specifiche. Al momento io dirigo cinque reparti Covid, 150 letti. In generale, diciamo che, di tutti i malati, il 20 per cento ha richiesto l’ospedalizzazione, il 5 è andato in rianimazione e il 50 di questi non ce l’ha fatta. Ieri è morto un mio collega di 82 anni. Con una polmonite batterica avrebbe ripreso la sua normale attività nel giro di qualche settimana. In ogni caso – aggiunge – mi faccia dire: una comunità che abbandona i vecchi è una comunità che fa schifo. Se sappiamo che di vecchiaia si muore, dobbiamo pur pensare che di vecchiaia si vive”. Ma in sintesi, a che punto siamo? “Dei dati me ne faccio poco. Le posso dire, però, che ieri ho intravisto una luce. Per la prima volta in vita mia – in quarant’anni non mi era mai successo – ho sentito quattro infermiere che cantavano insieme una canzone. In quel momento ho capito: forse stiamo scollinando”.

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