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Nella scienza non è tutto oro colato

Enrico Bucci

Non è detto che una pubblicazione scientifica rappresenti il meglio della conoscenza cui si sia giunti

Uno dei malintesi che l’epidemia di Covid-19 ha portato alla luce, che interessano la conoscenza scientifica e la sua comunicazione, è legato al fatto che il consenso scientifico si immagina sia rappresentato da ciò che appare pubblicato nelle riviste scientifiche. Non si tratta di un atteggiamento irragionevole: per molto tempo, la pubblicazione di un libro o di un articolo scientifico seguiva approfondite discussioni e valutazioni delle tesi degli autori da parte della comunità scientifica rilevante, in genere sotto forma di discussioni sia epistolari che nelle accademie scientifiche di tutto il mondo.

 

Se si vuole prendere un esempio estremo di questo modo di procedere, basti pensare a Charles Darwin: il grande naturalista impiegò decenni prima di decidersi a dare alle stampe L’origine delle specie, e questi decenni videro la sua continua, ininterrotta discussione con moltissime autorità scientifiche della sua epoca – sostanzialmente videro quindi un grande lavoro di raffinamento e discussione del suo maggiore risultato, prima che questo fosse reso noto al largo pubblico attraverso la pubblicazione scientifica.

 

Tracce di questo tipo di processo di elaborazione del consenso scientifico, in cui la pubblicazione rappresentava il coronamento, si ritrovano anche per altri importantissimi autori, in tutti i settori dello scibile, dalla fisica alla matematica alle scienze naturali. Non che non vi fossero pubblicazioni erronee o polemiche, anche in casi famosi, come in quello delle pubblicazioni fraudolente del grande zoologo tedesco Ernst Haeckel; tuttavia, in tutti i casi la comunità scientifica ben conosceva ciò che sarebbe poi finito in stampa, e dunque non attribuiva alla pubblicazione altra funzione se non quello della disseminazione di idee, dati e risultati che di fatto erano già stati ampiamente vagliati. 

 

Questa è generalmente la visione che il pubblico ha della pubblicazione scientifica, una visione in parte propagandata dagli stessi scienziati: se una cosa è pubblicata in una rivista scientifica, allora essa ha già passato il vaglio della discussione approfondita da parte della comunità scientifica, e dunque, nonostante possa comunque presentare degli errori, generalmente rappresenta il meglio della conoscenza cui si sia giunti. In realtà, le cose non stanno più così almeno dal 1945, da quando cioè una eclettica figura di spia, imprenditore e politico trasformò la pubblicazione scientifica da veicolo di disseminazione della conoscenza accademica e scientifica a business di enorme successo. Questa figura è quella di Robert Maxwell, il quale intravide la possibilità di sfruttare la necessità di apprendere le ultime novità da parte dei gruppi scientifici di tutto il mondo, in competizione per essere i primi a sviluppare nuove idee, come leva commerciale per far decollare riviste in ogni disciplina e settore della conoscenza, le quali quelle novità presentassero, invece di dati, tesi e risultati già ben noti alla comunità scientifica.

 

Dunque oggi nelle riviste scientifiche troviamo le ultime novità, vagliate anonimamente e in segreto da soli 2-3 revisori per cercare di evitare gli errori più grossolani; ed anzi, a noi ricercatori, al momento della sottomissione di un manoscritto per la pubblicazione, è chiesto proprio di garantire la novità del contenuto, attraverso un impegno scritto.

 

Per questa ragione, contrariamente a quello che il pubblico è abituato a pensare, la pubblicazione su una rivista scientifica di un risultato rappresenta l’inizio, non la fine del processo di analisi e autocorrezione della scienza da parte della comunità dei ricercatori; e per questo motivo non la singola pubblicazione, per quanto su giornali prestigiosi, ma il consenso tra più gruppi diversi e la concordanza tra più articoli bisogna attendere, prima di avere una ragionevole sicurezza della solidità di un risultato. Tutto ciò vale in tempi normali; in tempi di Covid-19, con la corsa a pubblicare motivata dalla fame di dati, è ancora più vero, ed ancora di più richiede attenzione e la competente e analitica valutazione di ogni riga pubblicata, prima di lanciarsi in affrettate decantazioni di un risultato. Vale per gli autori, vale per i lettori, vale per i giornali: la pubblicazione scientifica, oggi, rappresenta la primissima fase di valutazione, e come tale deve essere discussa e comunicata.