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L'ottimismo e il virus

Enrico Bucci

La richiesta di un rimedio alla paura è tale che si apre la strada a chi racconta frottole e a chi rivende teorie senza fatti

Nel 1975, un interessante articolo di Gerald Holton, all’epoca professore di Fisica e di Storia della scienza ad Harvard, sulla psicologia degli scienziati – perché anche loro sono oggetto di studio – portava il seguente titolo: “Scientific optimism and societal concerns”. In questo scritto, l’autore si proponeva di mettere a contrasto un atteggiamento che trovava tipicamente negli scienziati con le preoccupazioni della società proprio per ciò che gli scienziati si proponevano di fare.

  

Lo scritto in sé è interessante per il contesto in cui fu prodotto – rappresentava infatti il condensato di un saggio apparso in un volume degli Annals of New York Academy of Sciences dedicato alle considerazioni etiche circa l’applicazione della genetica molecolare agli uomini – ma soprattutto perché pare anticipare certi tratti che emergono oggi nel dibattito pubblico sul Covid-19.

   

Scriveva Holton: “Un pensiero attribuito ad Ann Roe mi torna alla mente: guardando alla sua lunga e distinta carriera nel settore dello studio della psicologia degli scienziati, si dice che ella commentasse una cosa in particolare. Tutte queste persone, molto diverse fra loro, avevano in comune un irragionevole ottimismo riguardo il successo ultimo delle proprie ricerche”.

  

Sembra qui di poter identificare proprio quell’ottimismo, che, al di là delle sue grette riduzioni e strumentalizzazioni per fini politici, di consenso o semplicemente di riconoscimento tribale sui social, intrinseco all’impresa scientifica, e legato al fatto che, delimitando sperimentalmente un determinato problema, se ne possa venire a capo in maniera soddisfacente.

  

Si tratta quindi di un atteggiamento, ben descritto dagli psicologi e dai cognitivisti, che è probabilmente antico quanto l’indagine scientifica: dal positivismo in poi, è una corrente sotterranea la cui vena mai si è esaurita ed è quella che, nonostante tutte le avversità, spinge i ricercatori ad andare avanti.

   

Mentre però nello scienziato questo atteggiamento ha una fonte e una delimitazione ben precise – in fin dei conti, la conoscenza aggiunge possibilità di controllo del futuro, e l’ottimismo è pragmaticamente circoscritto agli esiti di una possibile indagine – la sua riduzione “ad usum plebis” è molto più problematica, perché si confonde rapidamente con un generale atteggiamento o pregiudizio di visione rosea, cioè nella diffusa convinzione che un problema come la pandemia da Sars-CoV-2 sia stato già risolto o che sparirà con sicurezza a breve.

   

Questa convinzione è allettante e facile a credersi per cui finisce poi per essere strumentalizzata da chi è in cerca di consenso politico contro il governo e da chi ha bisogno che torni il sereno, per promuovere l’economia. Nulla ci sarebbe di male nel voler confortare la popolazione spaventata, utilizzando fatti e scoperte scientifiche ben salde; purtroppo, però, la richiesta di un rimedio alla paura è tale che si apre una facile strada a chi racconta invece frottole pure – come avviene con i cospirazionisti, che negano la stessa esistenza del virus – o a chi vende come provate teorie senza fatti.

   

In definitiva, quindi, in tempi di pandemia l’ottimismo dello scienziato, che non vede nel suo laboratorio limiti di principio al conoscibile, e quindi al controllabile e al prevenibile, risulta ben diverso da quello eventualmente impiegato per fini di controllo sociale, comunicando senza filtri e senza poter impedire che un’aspettativa ottimistica si trasformi nella sicurezza che l’ottimo è già accaduto, per cui non sono necessarie ulteriori preoccupazioni o analisi, appare quanto meno imprudente.

   

In campo sociale, il rimedio alla preoccupazione di fronte a un nuovo problema non è l’ottimismo generalizzato, ma l’indagine accurata della realtà e la miglior comunicazione possibile dell’incertezza, come chi studia comunicazione del rischio da sempre sostiene.

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