(foto LaPresse)

E' meglio aspettare prima di dare per vinto il virus

Enrico Bucci

Qualche esempio dagli Stati Uniti per dimostrare che le parole vanno sempre usate con cautela e non devono prevalere sui dati

Alcuni stati degli Usa stanno entrando in una crisi che, da sanitaria, si sta trasformando in politica. Siccome siamo abituati a pensare che il peggio succeda sempre nel nostro paese, proviamo a vedere cosa accade oltreoceano, così da renderci conto che i problemi, anche di gestione, si presentano ovunque nello stesso modo durante una crisi sanitaria, e per ricordarci che il rischio del ritorno del virus è reale anche da noi.

 

Cominciamo dalla Georgia. Il sindaco di Atlanta, Keisha Lance Bottoms, ieri ha dichiarato che, nonostante gli ospedali della città abbiano solo il 13 per cento dei posti in terapia intensiva ancora disponibili a causa dell’aumento vertiginoso dei casi, il governatore Brian Kemp “vuole silenziarla”. Questo dopo che il governatore Kemp ha intentato una causa contro il sindaco e il consiglio comunale per impedire che localmente fosse reso obbligatorio indossare la mascherina; in particolare, il governatore ha ordinato che sebbene sia opportuno che le persone indossino la maschera, il fatto che a suo giudizio alcune autorità locali vadano oltre le indicazioni dello stato, emanando direttive più stringenti, costituisce un danno per l’economia dello stato. La prima udienza di tribunale avrebbe dovuto tenersi in questi giorni, ma uno dei giudici ha ricusato se stesso, di fatto annullando l’udienza; e così, la telenovela politica va avanti, lasciando le persone sbigottite e in balìa di una decisione del tribunale per sapere a quali misure dovranno obbligatoriamente attenersi ai fini di proteggere la propria salute, invece che attenersi a indicazioni univoche date dalla comunità scientifica senza altre interferenze. Intanto il virus in Georgia avanza, e non sembra per il momento che ci siano segni di inversione di tendenza.

 

Ancora peggio va in Florida, in termini di numero di casi, di malati gravi e di morti. A ricordarcelo è la storia di una madre, documentata dai maggiori media nazionali, che ha perso un figlio e una figlia. Dopo un viaggio a Orlando, entrambi si sono ammalati; il primo, un ragazzo di vent’anni, in un sabato della fine di giugno, quando ha cominciato ad avere difficoltà respiratorie. E’ morto lo stesso giorno dopo un arresto cardiaco e insufficienza respiratoria in ospedale. Alcuni giorni dopo, la sorella di 23 anni è entrata in ospedale con mal di testa e febbre. Ha perso un rene, quindi il fegato ha smesso di funzionare. Ed è morta, 11 giorni dopo il fratello.

 

Oggi è difficile spiegare a una madre che però i suoi figli erano obesi, che avevano qualche altro problema di salute, o dirle che i giovani sono meno soggetti ad ammalarsi gravemente, e che quindi si è trattato di un caso sfortunato; immaginate come potrebbe reagire, se le si andasse raccontare che un virus virtualmente identico a quello che ancora circola in Italia (per quel che ne sappiamo) è “clinicamente morto” o a “bassa carica virale”, oppure che di quel virus uno se ne dovrebbe “fare un ciondolo”, perché causa “una banale influenza”. Pensate di andare a dire a questa madre che i suoi ragazzi sono morti “con” il virus, e che sarebbero morti comunque; oppure immaginate di dirle che “il virus ha perso forza, lo dicono anche all’estero”. Ecco perché le parole vanno sempre usate con cautela e non devono prevalere sui dati, che devono essere sempre resi disponibili nel momento in cui si fa una certa affermazione, non dopo; ecco infine perché chi nega la pericolosità del virus e lancia accuse di “comunicazione del terrore” dovrebbe in realtà rifugiarsi in un più dignitoso silenzio, anche ricordando cosa affermava 35.000 morti fa in Italia.