Il virus e il vano inseguimento del rischio zero
Focolai, mascherine, rischio bambini, vacanze. Domande ricorrenti, con risposte non definitive, sul Sars-CoV-2
Sono 138 i nuovi casi positivi di Covid-19 registrati ieri in Italia, dato in calo rispetto ai 208 di lunedì. Aumentano i guariti (+574) e i deceduti (+30). In calo i ricoverati nei reparti ordinari e nelle terapie intensive.
In questi lunghissimi mesi di continuo impegno per cercare di trasmettere quel che la ricerca ha acquisito e quel che non si sa sul Sars-CoV-2, alcune domande mi sono state poste in maniera ricorrente, sia sui social media che in tv. Vale la pena di elencarle insieme e di rispondervi una volta per tutte, per l’utilità di chiunque sia interessato. La prima domanda, quella che dai primi giorni torna sempre: quando potremo dire di esserne fuori? La risposta è: dipende da cosa intendiamo. Se intendiamo fuori dall’incubo che ha causato 35 mila morti nel nostro paese, ne siamo già fuori. Se intendiamo invece quando potremo dimenticarci di questo virus, la risposta non è possibile: come ho già detto, la chimera del contagio zero non deve distrarci dal fatto che questo virus potrebbe continuare a circolare a lungo, con focolai che improvvisamente si riaccendono qua e là. Del resto, accade con altre malattie infettive altrettanto terribili: i focolai di meningite, per esempio, che periodicamente riemergono nel nostro paese. Come teniamo quelli sotto controllo, così speriamo si possa fare anche con il coronavirus, soprattutto se sarà disponibile una cura o un vaccino; ma finché la circolazione, pure a bassi livelli, continua, finché cioè non si tratti di eventi eccezionali come per la meningite, non ne siamo davvero fuori.
La seconda domanda, altrettanto frequente: è vero che il virus si sta adattando a noi, per diventare più benigno? La risposta è semplice: al momento, per quello che ne sappiamo, non è così. Il fatto che vediamo pochi casi e meno ancora casi gravi non deve indurre in errore, come ci ricorda chi ancora in questi giorni finisce in terapia intensiva. Il virus è una macchina: il suo codice genetico, a vedere le sequenze di cui disponiamo, non è cambiato ancora in modo tale da poterci aspettare differenze rispetto agli isolati di febbraio di Codogno, per cui la macchina virale, date condizioni simili (cioè pazienti e condizioni di esposizione simili), si comporta sempre allo stesso modo. Non sono le cartelle cliniche che decidono se un virus è cambiato: casomai, è vero esattamente l’inverso.
La terza domanda: ma le mascherine servono ancora? La risposta è affermativa, anche se con giudizio: è evidente che in assenza di altri umani vicino a noi, le mascherine sono del tutto inutili, ed è altrettanto evidente ormai che le mascherine servono molto più al chiuso che all’aperto, più in ambienti affollati che in presenza scarsa di altre persone. Qualunque sia la distanza di sicurezza che arbitrariamente decidiamo, qualunque siano i tempi di esposizione che adottiamo come soglia, in presenza di altri soggetti le mascherine attenuano il rischio di trasmettere il virus; ma inseguire il rischio zero è da pazzi, come lo sarebbe immaginare di viaggiare in auto a rischio zero, e dunque è inutile chiedere quale sia la distanza, la soglia temporale o il tipo di mascherina che ci danno protezione totale. Semplicemente, non esiste risposta, né potrebbe esistere; e chi fa una simile domanda ha problemi di ipocondria tali, da dubitare che possa uscire di casa.
La quarta domanda: ma i bambini (e quindi le scuole) sono a rischio? Esiste ormai consolidata evidenza che i bambini sono una categoria a rischio basso di infezione e a rischio minore di trasmissione del virus. Questo non vuol dire affatto che i bambini, occasionalmente, non siano stati colpiti anche in forma grave, e inoltre esistono alcune condizioni rare che si stanno verificando più frequentemente nei bambini colpiti da coronavirus; ma rispetto all’enorme danno della chiusura prolungata delle scuole, è evidente che bisogna scegliere di correre un rischio. Bisogna quindi impegnarsi perché insegnanti e bambini siano in sicurezza; il che, ovviamente, va fatto con criterio, senza inventarsi aule di estensione inesistente, distanze inattuabili o altre astruserie inapplicabili. Se pensiamo che i nostri medici, negli ospedali, devono lavorare durante l’emergenza epidemica, non si vede perché non possiamo cercare di tutelare al meglio il personale delle scuole quando siamo lontani dal picco.
La quinta domanda: possiamo andare in vacanza? Oppure al cinema? O in discoteca? O al ristorante? Insomma, possiamo ricominciare con le attività voluttuarie? Anche qui, dipende. Sappiamo molto bene che il contatto prolungato, soprattutto al chiuso, con altre persone è rischioso; ed è per questo che, ad esempio, molti ristoranti e qualche cinema si sono attrezzati per mantenere le distanze. La ressa al chiuso è sempre pericolosa, come hanno dimostrato i recenti cluster da seconda ondata in Corea, nei locali notturni di Seoul; dunque certe attività, purtroppo, non sono ancora sicure, particolarmente perché ormai la circolazione delle persone è ripresa fra tutte le regioni e anche dall’estero. Al contrario, se agiamo con giudizio, il mare è certamente meno rischioso, essendo un ambiente aperto, dove è possibile mantenere le distanze e dove probabilmente la stessa luce solare intensa non è favorevole al virus.
Vi è poi una serie di domande ricorrenti, che cominciano tutte nello stesso modo: “Cosa pensa dell’ultimo studio che…”. Di un singolo studio, specialmente se descrive un risultato davvero nuovo o in contrasto con i precedenti, io ho sempre un’opinione molto prudente, riassumibile con “aspettiamo la verifica dei dati da ulteriori studi di conferma”. Questo perché l’infodemia che ha colpito la pubblicazione scientifica ha fatto già troppi danni; in qualche caso, gli studi sono evidentemente fallati, ma spesso non è possibile fare altro che attendere. Questa mia prudenza fa spesso adirare incauti internauti, che credono che sia paura di sbilanciarsi e volontà di mantenere sospeso il giudizio, per evitare di rassicurare – o spaventare, a seconda dei casi – il pubblico; in realtà, ho scritto molte volte che uno studio significa qualcosa solo dopo che i suoi dati sono stati passati al setaccio e possibilmente ritrovati veri in maniera indipendentemente.
Sono certo di aver lasciato da parte molte altre domande ricorrenti, a causa dello spazio tiranno; tuttavia, spero di aver ricordato almeno le più impellenti, e per le altre vedremo in futuro.