Bruno Contrada in uno scatto del 1995 (foto LaPresse)

I limiti di spazio e tempo valgono per tutti tranne che per l'antimafia

Guido Vitiello

Nessuno più di Bruno Contrada, chiamato in causa da pentiti che riportavano a loro volta le voci di mafiosi morti, lo ha sperimentato sulla sua pelle

Ogni fenomeno terrestre è soggetto ai vincoli dello spazio e del tempo. Ogni fenomeno, eccetto l’antimafia. Una volta acquisito questo preambolo teologico-metafisico, su cui si regge tutta l’opera della nuova Inquisizione, la nostra battaglia sulla prescrizione si rivela per ciò che è, un’impuntatura illogica: la prescrizione è infatti mera apparenza, a fronte dell’estensione illimitata della condanna. Ieri il teologo Gian Carlo Caselli, sul Fatto, si è prodotto in uno dei suoi esercizi scolastici preferiti, il ribaltamento a mezzo stampa dei processi persi. Per anni lo ha fatto con Andreotti, ora è toccato al giudice Carnevale: una pagina intera per dire, in sostanza, che l’accusa pende perennemente sul suo capo, laddove l’annullamento della condanna, dovuto a un’“acrobazia giuridica”, è tutt’al più del tipo che Kafka avrebbe chiamato “assoluzione apparente”. Ma nel girone dei mascariati i supplizi più dolorosi li ha dovuti soffrire il povero Contrada, contro cui Saverio Lodato ha appena riesumato ipotetiche confidenze fattegli da Falcone trent’anni fa. Nessuno più di Contrada, chiamato in causa da pentiti che riportavano a loro volta le voci di mafiosi morti, ha sperimentato il peso di questa condanna impermeabile allo spazio, al tempo e ai funerali. “I morti credibili non parlano, i vivi non credibili parlano, parlano, parlano…”, scrisse dal carcere alla moglie Adriana nel 1993. Perché la differenza tra la Santa Inquisizione e l’antimafia dei maramaldi consiste solo in questo: che la prima mandava al rogo i negromanti, la seconda li usa come fonti di prova.