Capitale inetta, nazione infetta

Salvatore Merlo

Altro che arresti e sospetti di corruzione. Buche, monnezza, ratti, autobus in fiamme: tutto impallidisce di fronte all’inoccultabile sfacelo amministrativo di Roma. I primi due anni di Raggi sindaco, il prequel di cosa significhi avere i grillini al governo. Inchiesta

A un certo punto ad agosto dell’anno scorso Virginia Raggi era sparita, scomparsa dai radar, neanche una parola né una foto. E la sua assenza incombente, quelle sue vacanze silenziose verso un’ignota località, quella sua fuga dai problemi di Roma, dagli autobus in fiamme, dalla monnezza graveolente e dai gabbiani canaglieschi, dai ratti e dagli avvisi di garanzia che già fioccavano, dalle polemiche e dalle troppe dimissioni dei suoi assessori, quella sua eremitica ricerca di sé aveva cominciato ad alimentare battute, ironie, sospetti irridenti. E se la sindaca non tornasse proprio? si chiedevano allora i più fantasiosi, e spiritosi. E se facesse come il Papa nel film di Nanni Moretti, se insomma fuggisse? Ce ne accorgeremmo? A quel tempo, piccola e diafana, al compimento di un anno in Campidoglio, già ripeteva che “stiamo invertendo la rotta”, “in cinque anni cambiamo la città”, “l’onestà è la base dalla quale partire”, “c’è chi dice che l’onestà non basta. Invece paga”. E già allora, figurarsi adesso dopo due anni di questa onestà, osservandola andare a naso alto, mento in fuori, occhi socchiusi, sovraesposta ai beffardi precipizi e alla crudeli voragini che si aprono lungo la strada della realtà, era inevitabile domandarsi a che serve avere una casa di vetro se al di là di quelle limpide pareti sgobba in bella vista una schiera di strani, forse persino pericolosi pasticcioni improvvisati? E d’altra parte ai tangentisti della casta, come dimostrano bene la procura di Roma e il dottor Paolo Ielo, puoi sempre mandare i carabinieri. Lestofanti, ladri, ricottari, corrotti, mariuoli, malversatori… Va bene. Ma con gli incorruttibili incapaci, come si fa?

 

Lestofanti, ladri, ricottari, corrotti, mariuoli, malversatori… Va bene. Ma con gli incorruttibili incapaci, come si fa?

Uno vorrebbe pensare ad altro, ma pensa ai due anni di Virginia Raggi e subito pensa alle buche stradali. Quello che dovrebbe essere lo zero amministrativo, il minimo del minimo nell’azione di governo, il corrispettivo, trovandosi in un qualsiasi ufficio, del far le fotocopie, cioè asfaltare le strade, a Roma diventa il punto più alto e denso di aspettative dell’attività di governo (che trattandosi di buche, cioè di qualcosa che sta al di sotto del livello della superficie terrestre, è un ossimoro). Mercoledì scorso, a Tor Bella Monaca, estremo lembo della periferia romana, una piccola folla di residenti osservava la sindaca, accigliata e compunta, inaugurare un cantiere. “Abbiamo fatto una gara, un anno fa. E ieri sono iniziati i lavori lungo la strada”, diceva lei. E in effetti si potevano osservare quattro operai in pettorina arancione impegnati a stendere un velo di asfalto, circondati da giornalisti con telecamere e macchine fotografiche al seguito. “Anvedi!”. A Dubai fanno le conferenze stampa quando costruiscono interi arcipelaghi di isole artificiali, contendendo la terra al mare. A Tokyo progettano quartieri sottomarini. Londra, ma anche Milano, si punteggia di grattacieli spettacolari. A Roma invece fa notizia una strada asfaltata. E d’altra parte a maggio era stata pure annullata la tappa del Giro d’Italia per eccesso di buche, mentre a novembre del 2016, poco più in là della Piramide Cestia, in una di queste voragini c’era caduto persino Beppe Grillo, che marciava in sostegno della campagna del M5s per il No al referendum costituzionale: “Ma a chi tocca ripararle?”.

 

Il minimo del minimo, asfaltare le strade, a Roma diventa il punto più alto e denso di aspettative dell’attività di governo

Così, a un certo punto, proprio mentre la sindaca racconta ai residenti di Tor Bella Monaca come si stende per bene il bitume, ecco che una bambina un po’ in carne scivola sul selciato sconnesso. E allora la madre, grande grande e muscoluta, ciabatte e tatuaggio di Francesco Totti sulla caviglia destra, urla una bestemmia, non si sa bene rivolta verso chi: il catrame, gli operai, la sindaca, il destino, la vita in genere? Una specie di apologo comico e surreale. Altro che arresti, dimissioni, sospetti di corruzione e nuvole di gas giudiziario: le buche, insidiose come tagliole. Parioli e Tor Pignattara, Trevi e Labaro, tutti i quartieri hanno la loro razione. Non ci sono snobismi né preclusioni o favoritismi, né c’è un occhio di riguardo per la casta, con le strade attorno a Montecitorio o Palazzo Madama e soprattutto attorno al Campidoglio, ridotte tali e quali a quelle di qualsiasi altro fondo dissestato. Buche a canyon, buche a novanta gradi, buche a grappolo, famiglie di buche nate dopo successive riparazioni. E poi buche a reticolo, piccole, quasi eleganti. E quelle in successione, legate alle serie di tombini: buca, pausa, buca, pausa, buca, pausa, buca… E quando piove sembra la scena del film con Ugo Tognazzi: “Buca con acqua”. Sull’autobus è tutto un luna park. A ogni buca ben presa ci sono vibrazioni metalliche, lamiere che sbattono, stridio di vetri. E i motorini diventano trappole mortali, come purtroppo racconta la cronaca, anche recentissima. Così a un certo punto, sponsorizzata dall’assessore Margherita Gatta – precedentemente nota per aver dichiarato a Simone Canettieri del Messaggero di voler curare le buche con la “naturopatia” – in città è spuntata la mitologica “macchina tappa buche”. L’arma segreta di Raggi, il super-potere della task-force #stradenuove messa in campo dal Campidoglio per fronteggiare le cinquantamila buche di ultima generazione. Pare che l’idea fosse di un ingegnere russo, Dahir Semenov, uno che in questi anni, come ha raccontato sul Foglio Andrea Minuz, ha provato a lanciare il letto-sarcofago a prova di terremoto (si chiude a riccio mentre il palazzo ti frana addosso), la sonda che rimuove il colesterolo nelle vene e un drone cingolato. Nei video-tutorial di Semenov la macchina tappa-buchi fa tutto da sola. In quello della Raggi è circondata da operai che la manovrano (altri guardano), ma forse stanno solo prendendo le misure. Ma c’è poco da ridere.

 

Un incidente mortale su tre riguarda le buche, ha detto l’associazione famigliari delle vittime. Lo scorso 20 giugno l’autopsia ha escluso che Noemi Carrozza, la bella e giovanissima campionessa di nuoto sincronizzato morta in un pomeriggio qualsiasi mentre tornava a casa dagli allenamenti, avesse avuto un malore nel momento in cui perdeva il controllo del suo motorino all’altezza di via di Villa di Plinio, su una strada lacerata dalle buche e dalle radici degli alberi che sbriciolano l’asfalto. Il pubblico ministero ha aperto un fascicolo per omicidio stradale. E Piergiorgio Assumma, presidente dell’Osservatorio nazionale per la tutela delle vittime di omicidio stradale, parla di cinquanta persone uccise dalle pessime condizioni delle strade dall’inizio dell’anno. L’Adir, la società pubblica delle Assicurazioni di Roma, ha fin qui risarcito quindici milioni di euro per danni provocati dalle buche a persone e veicoli. Per questo in alcuni tratti della Cristoforo Colombo e di via Salaria, Raggi ha deciso di ridurre i limiti di velocità a trenta chilometri orari. Più che un’ordinanza, una furbata: in caso di incidenti il nuovo limite mette al riparo il comune dalle cause legali. Ma quello dei trenta chilometri orari si trasforma irrimediabilmente anche in un irreale manifesto ideologico, quasi una metafora della città. Capitale lenta, paese bloccato. E la lentezza diventa una sottomarca della furbizia amministrativa.

 

A questo proposito andrebbe indagato, forse da un sociologo, anche l’imperscrutabile andamento degli autobus – passano, non passano, arrivano a coppie come i carabinieri, spariscono a lungo come un talpone che va in letargo: sono pena concreta, e insieme perfetta allegoria di un’amministrazione grillina. A Roma gli autobus hanno la tendenza a sparire, quando non prendono fuoco, come misteriosamente inghiottiti dalla terra – e senza voler riprendere la già trattata questione delle buche. Una sera di agosto, a Ponte Mammolo, periferia est, una folla accaldata se ne sta in attesa del bus 451. Passa mezz’ora. Poi un’ora. Un’ora e mezza. Due ore. Le poche decine di persone diventano venti, poi quaranta, poi forse cento. E la pensilina non li contiene nemmeno più, per quanti sono. Rumoreggiano. S’incazzano. Si fomentano l’un l’altro. Alle 21, dalla distanza di cento metri, viene finalmente avvistato un autobus, ma non è il 451 che va verso Cinecittà, è invece il povero 163 appena uscito dalla stazione. Così si verifica uno di quei fenomeni di tumulto popolare ben descritti da Manzoni nella Milano appestata del Seicento: l’autobus 163 viene bloccato, assaltato, occupato, dirottato e trasformato d’impeto popolare in un 451. La vettura parte, lievemente inclinata per il peso imbarcato, e dai finestrini si vedono braccia, gambe, borse, come olive in barattolo. Se a Londra venisse dirottato un autobus, probabilmente si attiverebbe l’Mi6, con i reparti speciali antiterrorismo. A Roma è soltanto l’Atac. E infatti quando il 63 si blocca, va in fiamme ed esplode nella centralissima Via del Tritone, lasciando una colonna di fuliggine alta quanto un palazzo, i negozianti si affacciano, gettano uno sguardo alla carcassa flambé e mormorano: “Eccone ’nartro”. Il nono da inizio anno, più di due al mese. Trentasette autobus incendiati in due anni.

 

Un incidente mortale su tre riguarda le buche, ha detto l’associazione famigliari delle vittime della strada

L’azienda dei trasporti è un paradigma disfunzionale per numero di dipendenti, tasso di assenteismo, evasione delle tariffe, stipendi dei dirigenti e loro permanenza negli incarichi. Un miliardo e trecento milioni di debiti. Negli anni la dirigenza di Atac ha messo a gara acquisti per 2,5 miliardi senza però comprare i mezzi necessari a garantire la continuità e l’efficienza del servizio. Pochi giorni fa sono stati ordinati 320 autobus, ma arriveranno nel 2019. In un solo anno, il 2017, sono saltate un milione e mezzo di corse. E a questo proposito è istruttivo farsi un giro nella rimessa di Tor Pagnotta, dove nella sala comune, non è raro vedere decine di autisti seduti sulle panche, a non fare niente perché non ci sono autobus da guidare. In questo paesaggio dalla toponomastica bizzarra, Tor Pagnotta, mangiato da case senza disegno, casermoni informi che sporcano anche la dolce linea dei colli, ogni mattina gli autisti Atac arrivano in divisa, timbrano il cartellino, e sanno che probabilmente non lavoreranno nemmeno oggi. Così, tra una partita a carte, una sigaretta e una visita al bar, vanno sporcando la loro giornata di sguardi fiacchi, passi gravi, pensieri malinconici e stanchi: la fiamma del desiderio e la fiamma della frustrazione ardono unite, mentre anche gli autobus che bruciano, alcuni vecchi di vent’anni, sono le fiamme dell’agonia. Tutto appare legato al potere politico locale e ai suoi addentellati, un meccanismo che ha svuotato di qualsiasi logica produttiva e perfino economica le relazioni industriali di un’azienda che impiega quasi 12.000 persone. Il bilancio del 2015, in era pre Raggi, si era chiuso con perdite per settanta milioni. Ma l’ultimo bilancio disponibile, quello del 2017, in piena era Raggi, segna un passivo di centoventi milioni. La sindaca ha impedito la cessione di Atac a Ferrovie dello stato, si è impegnata a boicottare un referendum sulla messa a gara del servizio pubblico dei trasporti promossa dai Radicali, ha imboccato la via del fallimento, e ha chiamato da Livorno un nuovo assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti, con pregresse esperienze da cassiere presso la discoteca Seven Apples a Marina di Pietrasanta, per replicare con l’Atac quanto fatto dai grillini di Livorno con l’Aamps, cioè salvataggio dell’azienda tramite concordato preventivo. Dice Massimo Colomban, per un anno assessore alle Partecipate: “Io insistevo per far entrare i privati, come Ferrovie, dentro l’azienda”. Ma anche qui, come nella faccenda dello stadio della Roma, di cui ci occuperemo più avanti, interviene Luca Lanzalone, l’avvocato tutto fare del M5s, oggi agli arresti domiciliari per corruzione. “Lanzalone era forse più interessato al lavoro che si prospettava, con il concordato, per il suo studio”, ha detto Colomban al Messaggero. “Quindi diedero il via libera al concordato preventivo in continuità. Praticamente il fallimento dell’azienda. Roba da matti”. Non solo da matti, ma anche da inadeguati, a quanto pare. Ad aprile il tribunale fallimentare ha infatti depositato dei rilievi molto critici sul piano presentato dal comune: scritto con i piedi, irrazionale, sbagliato, addirittura forse da rigettare. Così, martedì 24 aprile, viene convocato un consiglio comunale d’urgenza.

 

L’Atac, l’azienda dei trasporti, è un paradigma disfunzionale per numero di dipendenti, tasso di assenteismo, evasione delle tariffe, stipendi dei dirigenti e loro permanenza negli incarichi

Non c’è niente di più importante. “Ma oggi dov’è il sindaco? Dov’è l’amministratore delegato di Atac? Dov’è l’assessore al Bilancio Lemmetti?”, si chiede Giorgia Meloni, che è anche consigliere comunale, mentre osserva i banchi vuoti nella fastosa Aula Giulio Cesare. Sugli scranni della giunta c’è, vittima sacrificale, la sola assessore ai Trasporti, Linda Meleo, che piegata sul microfono, con tono compassato e istituzionale, scandisce: “L’azienda fino a oggi ha galleggiato. Questa amministrazione ha voluto intraprendere iniziative…”. Ma la signora Meleo non fa in tempo a finire la frase, che dal pubblico, come se la scena non fosse già sufficientemente patetica, si solleva un grido: “Nun se sente!”. Risate. Dice Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani e promotore del referendum per la messa a bando del servizio pubblico dei trasporti: “Raggi spaccia una procedura di fallimento per una tappa di rilancio del servizio pubblico. Se anche un tribunale dovesse accettare lo schema del concordato preventivo, vorrà dire che la maggioranza delle risorse pubbliche andranno a colmare il debito pregresso. Atac è una zavorra, un buco nero. La sindaca avrebbe dovuto portare avanti il tavolo su Roma promosso dall’allora ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. Avrebbe dovuto affrontare i nodi irrisolti con un lavoro istruttorio serio e inter-istituzionale. Non soltanto non lo ha fatto, ma si è pure tirata indietro, dimostrandosi non all’altezza del suo ruolo”. E d’altra parte Atac, con i suoi dodicimila dipendenti, è da sempre un bacino elettorale organizzato. Capace di orientare la politica. E questa è una delle tante cose che con il M5s al governo di Roma non è cambiata.

 



 

C’è la riunione definitiva sullo stadio della Roma? E lei non c’è. C’è consiglio comunale sui “punti verde qualità”? E lei non c’è. Si discute d’urgenza intorno allo stato dell’azienda municipalizzata dei trasporti? E Raggi non c’è. Si decide d’intitolare una strada a Giorgio Almirante? E lei casca dal pero, in televisione, di fronte a un imbarazzato Bruno Vespa, e trasforma così in farsa una questione che potrebbe avere una sua legittimità storica e simbolica: “Non lo sapevo”. I magistrati le chiedono di Luca Lanzalone, l’avvocato da lei nominato presidente di Acea e arrestato pochi giorni fa per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma? E lei dice che “me l’hanno imposto quelli del M5s nazionale”. Insomma Virginia Raggi non sa mai niente. Sembra passare da lì, per caso. Così in Campidoglio, in quel luogo perennemente sul filo di lana tra palcoscenico e bordello, in quel magnifico palazzo in cui tutto sembra immerso in un linguaggio di sbruffoneria parolaia – gli uscieri che parlano di calcio con le gambe poggiate sui tavoli sono uno spettacolo nello spettacolo, come i dipendenti dell’ufficio stampa del comune che i grillini, non fidandosi, hanno trasformato in inviatori seriali di smentite precompilate via email (e allora loro stanno al bar tutto il giorno) – in quel luogo, si diceva, che sta a metà tra la pennichella e la coda alla vaccinara, tra trivio e il caos, e dove nessuno si nasconde (o si vergogna), Raggi, la sindaca che c’è ma non c’è, con la sua evanescenza persino fisica, è un caso, forse prima antropologico che politico.

  

La sindaca ha invitato la popolazione a smetterla con le parole “monnezza” o “rifiuti”, perché entro il 2021 Roma rinascerà nel quadro di una solida “economia circolare”, rifiuti-cittadini-riciclaggio- creatività

Esattamente due anni fa, in campagna elettorale, era il periodo delle gonne corte e della giacchetta blu elettrico che gli metteva addosso il suo consigliere di allora, Augusto Rubei, Virginia era ancora la giovane avvocatessa della borgata Ottavia, carina e capace di una certa arguzia catodica. Compariva quasi esclusivamente per strada, la borsetta e gli occhiali da sole sapientemente in mano, a “Matrix”, come fosse appena scesa di casa e sorpresa lei stessa di trovarsi chissà come davanti a un microfono e una telecamera protesi da Luca Telese. “Io non passo le mie giornate in televisione”, diceva mentre stava in televisione (e pure con il sorriso di chi ha dalla sua parte una logica inoppugnabile). Oggi invece il più oscuro tra i misteri del Campidoglio è cosa faccia la sindaca tutto il giorno. Si sa che si alza alle 10 e 30, arriva in Comune, ed è praticamente sola. Ad attenderla, assieme al portavoce, c’è un ragazzino di circa vent’anni, Fabrizio Belfiori, suo segretario particolare e militante Cinque stelle. Poi il buio. La sindaca entra in Campidoglio come si entra in un buco nero, scompare. Così, poiché i soprannomi a Roma sono elemento essenziale di ogni componente rituale della città, allora Virginia Raggi è diventata “Ologramma”. Raggi c’è, ma è come se non ci fosse. Ed è come se avesse capito che l’unica cosa da fare, per sopravvivere, è appunto non esserci, non fare nulla. Anche se in effetti le va dato atto di aver fatto inaugurare sette gabinetti pubblici, a febbraio, dall’assessora Gatta, con tanto di video grottesco ancora consultabile sul web. I sette cessi pubblici sono l’unica opera di cui possono vantare la paternità. Il progetto per il nuovo stadio della As Roma, basta leggere un giornale, o accendere la tivù, con la sua inchiesta per corruzione, è diventato materia per avvocati e pubblici ministeri.

  

Un’ingenuità affettata, i silenzi e i non so, l’onestà a far da paravento all’immobilismo. Poi Virginia Raggi entra in Campidoglio come si entra in un buco nero, e scompare

 

Tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia. Un martirio lento, uno spelacchiamento (e “spelacchio” si chiamava non a caso il povero albero di Natale, il tapino sadicamente destinato alla rotonda di piazza Venezia) tuttavia non estraneo a momenti di trascinante comicità involontaria, come l’approvazione del bilancio del comune celebrato quest’inverno alla stregua d’un atto eroico, salutato dunque da un autistico e inspiegabile applauso in Consiglio comunale da parte dell’intero gruppo consiliare grillino. Ci mancava solo che non approvassero il bilancio. La verità è che sempre di più Virginia Raggi finisce per l’assomigliare a Ignazio Marino, il suo spaesato predecessore di centrosinistra. L’una diventa la prosecuzione dell’altro, con la medesima retorica dell’onestà a far da paravento all’immobilismo, e con l’ingenuità affettata, e recitata, che diventa trincea difensiva. Virginia pubblica su Twitter fotografie di fiori che ignoti ammiratori le avrebbero inviato per solidarietà, proprio come a Ignazio arrivavano invece imprecisate dichiarazioni di stima da parte di evanescenti chirurghi e innominati professori americani. “A Roma fatico ma ‘abroad’ mi applaudono”, spiegava infatti lui, con l’aria dell’americano di Filadelfia, un po’ Alberto Sordi e un po’ Totò truffa, mentre lei, con lo stesso tono da incompresa, marziana con venature di furbizia, dice “grazie del vostro affetto, mi riempie il cuore”. Marino se la prendeva con le telecamere del centro storico che avevano multato per nove volte la sua Panda rossa – “mi hanno teso una trappola”, diceva – mentre Raggi intervistata da Mario Calabresi su Repubblica ha svelato al mondo il complotto dei frigoriferi che “vengono buttati vicino ai cassonetti e mi sembra strano”. E poi: “Mi attaccano perché sono donna”. Insomma la Spectre e il Bilderberg, il Pd e la lobby dei sessisti. E anche di lui dicevano “non lo impicchiamo ai dettagli”, “lasciamolo lavorare”, “è solo contro tutti”, come di lei adesso dicono che “è onesta”, che “sta scardinando un sistema”, che “non si era accorta”. Quando si scoprì tutto quel mondo di ricottari e grassatori impropriamente chiamato Mafia Capitale, quel sottobosco di piccoli intrallazzatori che infestava il sottopotere romano di destra e di sinistra, Marino si fece passare per tontolone, proprio come lei, oggi, circondata dai suoi Raffaele Marra e dai suoi Lanzalone, “sconvolta” ed “estranea”, si consegna al ruolo d’ignara boccalona di fronte ai magistrati e all’opinione pubblica in genere.

 

Ci sono stati anche degli arresti, spaventosi pasticci nella costruzione della giunta, spericolate arrampicate di tanti piccoli Bel Ami che intuendo l’odore del potere si sono infilati nel Movimento e lo hanno scalato, e poi ancora dimissioni a raffica, indagini per abuso d’ufficio e corruzione, faide tra gruppi interni al M5s

E c’è sempre da ridere, per non piangere. Da aprile 2017 la sindaca ha abolito la parola spazzatura dai documenti ufficiali del comune, invitando anzitutto la popolazione a smetterla con le parole “monnezza” o “rifiuti”, perché entro il 2021 Roma rinascerà nel quadro di una solida “economia circolare”, rifiuti-cittadini-riciclaggio-creatività. Niente discariche. Niente inceneritori. Niente cassonetti. Ed eravamo già in tutta evidenza di fronte a un capolavoro polivalente, a un’opera superiore in cui si fondono Gogol e Kafka, Orwell e Pippo Franco, Hoffmann e Nino Frassica. Cancellata la parola, eliminato il problema. Così, mentre le strade e i parchi pubblici si riempivano di monnezza, la sindaca sognava il rosmarino per nasconderne l’odore e voleva pecorelle – e mucche – per tosare l’erba di parchi ormai non dissimili a una giungla, o a una pattumiera. “Porteremo la differenziata al 70 per cento in quattro anni”, diceva intanto l’assessora all’Ambiente Pinuccia Montanari, un’altra incongrua personalità sganciata sulla capitale dalla nativa Reggio Emilia (e subito ribattezzata “Asilo Pinuccia”), poco prima di aver dichiarato candidamente, in una città in cui esiste persino una via intitolata alle autoctone “zoccolette”, di non aver “mai visto un topo a Roma”. In realtà i dati di fine 2017 dicono che la raccolta differenziata in città è al 44,3 per cento, appena un punto in più del 2016. Di questo passo ci vorranno circa trent’anni per arrivare al 70 per cento. E la signora Montanari, sia consentita qui una parentesi, meriterebbe un capitolo tutto suo, visto che l’estate scorsa ha promosso una disinfestazione ecologica che ha prodotto un solo risultato tangibile: la diffusione in città di una malattia tropicale trasmessa dal morso delle zanzara tigre, per niente impensierite dalla disinfestazione rispettosa ed ecologica. Un virus sconosciuto alle nostre latitudini, ma piuttosto comune in Tanzania: la chikungunya. Cinquanta casi accertati dall’Istituto Superiore di Sanità. Ma tornando ai rifiuti, al netto delle ambizioni e della fantasie, delle stranezze da ridere o da disperarsi, la situazione resta per così dire difficile. E non solo perché quei notevoli roditori che la Montanari non ha mai visto ritengono preferibile lo sfruttamento delle strade assai più ricche di commestibili in genere delle native fogne. Ogni mese migliaia di tonnellate di monnezza sono spedite al nord, in alcuni casi all’estero. Quasi un anno fa sarebbero dovute iniziare le procedure per la costruzione dei nuovi impianti di compostaggio, ma ancora non se ne vede nemmeno l’ombra. In compenso, di fronte a un’emergenza che richiederebbe investimenti immediati e grandi competenze, piani strategici e il coinvolgimento delle migliori intelligenze d’Italia, la sindaca e la sua assessora parlano di “progetto rifiuti zero”, cioè niente inceneritori né discariche. Vivono in un mondo parallelo. Piccolo problemino: quel milione e settecentomila tonnellate di rifiuti all’anno prodotti dai romani. Da circa due anni, dalla chiusura della discarica di Malagrotta, non si sa dove metterli. Tanto che, per evitare il già frequentissimo intasamento dei pochi impianti in attività, la monnezza in gran parte non viene nemmeno raccolta dagli operatori dell’Ama. Rimane lì, il più possibile, nei cassonetti obesi. Nei cestini. Per strada. Si appiccica alle suole delle scarpe. Mica solo in periferia, dove la situazione è fuori controllo, ma pure in via Rasella, in via degli Zingari, dietro il Pantheon, a Prati… Dice Paola Muraro, che è stata assessore all’Ambiente nella giunta Raggi: “In due anni si poteva benissimo rimettere in piedi tutta l’impiantistica senza spendere ulteriori soldi per mandare fuori regione i rifiuti. Un salasso. Invece si è perso tempo e si è perso denaro. Con un piano bislacco. E il sistema è al collasso”. Il surreale progetto del Campidoglio – come si legge nelle linee guida del comune – punta a promuovere “entro il 2021” il vuoto a perdere, il compostaggio domestico e il packaging ecologico, l’adozione di uno stile di vita “senza sprechi” frutto di “sinergie”, “reti partecipate” e “legami inclusivi” sullo sfondo di un “patto virtuoso coi romani” per promuovere il compostaggio domestico e “di comunità” (tutti insieme a imballare monnezza nei prati). Avremo la “green card”, laveremo i pannolini nelle “ecofeste”, Roma rinascerà nel quadro di una solida “economia circolare”, rifiuti-cittadini-riciclaggio-creatività. Praticamente la Svizzera. Quasi la Luna. Epperò, in attesa del 2021, una quanto mai opportuna riserva mentale ha spinto l’amministrazione ad acquistare migliaia di nuovi cassonetti, perché l’immondizia romana – in attesa dell’economia circolare – da qualche parte va depositata e lasciata fermentare. Si prova così, osservando queste capriole, l’ubriacante sensazione di una separazione tra i fatti e le parole. Si sta immersi in un’oratoria la cui funzione è evidentemente una congiura tra la parola e l’azione ai danni dell’intendimento. Forse in Campidoglio l’evidenza deve apparire banale, una cosa gretta, roba da vecchia politica, una fake news al di sotto della soglia della loro perspicace intelligenza di persone che non se la bevono, e alle quali dunque non gliela si fa. Perché altrimenti non si spiegherebbe come a intervalli regolari, ogni Ferragosto e ogni Natale, quando il livello di monnezza raggiunge quote himalayane, la sindaca possa spingere la propria dissipazione al punto di esclamare che nella Capitale d’Italia “non c’è nessuna emergenza rifiuti” ma solo un temporaneo accumulo di “materiali post consumo”, ovvero di “risorse in grado di creare nuovi posti di lavoro green”. E questo mentre chiunque, intanto, passeggiando per strada, può osservare per conto proprio cumuli di monnezza – pardon: di materiali post consumo – agli angoli di via Panisperna e cassonetti stracarichi a piazza Trilussa. Con i quotidiani, e i siti locali, tutti impegnati in un festival d’interviste a disinfestatori ed esperti dell’Asl, a medici e a veterinari, a zoologi e circensi, concentrati sulle abitudini, il carattere e la complessione del “rattus rattus” da non confondere con il “rattus norvegicus”. Perché, si sa, è sempre bene conoscere i propri vicini di casa e di pianerottolo.

  

I sette gabinetti pubblici inaugurati a febbraio. Il bilancio comunale approvato con applauso. La parola spazzatura eliminata dai documenti ufficiali del comune e il milione e 700 mila tonnellate di rifiuti che non si sa dove mettere. Gli alberi tagliati senza pietà. I dinieghi e le imposizioni dall’alto del movimento

  

Il primo gennaio 2013, con cappello di lana e occhiali scuri, Raggi si faceva riprendere in un parco giochi vicino casa sua, nella borgata Ottavia. “Vi facciamo vedere un po’ di degrado”, diceva la militante a Cinque stelle, prima di diventare sindaco. “Guardate qua, c’è un pezzettino di vetro”. Oggi a distanza di quattro anni, l’ex consigliere municipale Andrea Montanari è tornato nella stessa zona e in un video diventato virale su internet ha mostrato alla sindaca in che condizioni è quel parco. Sembrano immagini prese dalla Chernobyl post disastro atomico. L’erba incolta è così alta che arriva alle ginocchia, gli scivoli e i cavallucci dei bambini quasi non si vedono più, divorati dalla natura selvatica. “Oh Virgi’, ti ricordi quando venivi nei parchetti a far vedere le cose che non andavano? Dopo due anni da sindaco, la panchina è sommersa dall’erba. Adesso la utilizzano meglio i bambini, vero? Ciao Virgi’”. D’altra parte a Roma l’erba non si taglia. “Abbiamo solo duecento giardinieri, ma gestiamo una superficie di quaranta milioni di metri quadrati di verde su un totale di oltre un miliardo”, è la giustificazione dell’assessorato all’Ambiente. E la verità è che da oltre un anno sono fermi i due appalti europei da nove miliardi di euro per la manutenzione, pubblicati ad aprile del 2017 sulla Gazzetta ufficiale. Così su corso Trieste l’erba altissima si mischia ai tronchi morti degli alberi abbattuti, con le reti arancioni che segnalano le aree a rischio, in un’atmosfera di complessivo disfacimento. In viale del Battaglione della Speranza i prati a destra e a sinistra sono un groviglio di erba alta e moncherini di lecci segati. A Roma gli alberi non vengono curati. Quando non precipitano su una macchina, quando non ammazzano qualcuno, com’è già successo, vengono tagliati via senza pietà: quattrocento esemplari fino a oggi. Alcuni, secolari, erano sopravvissuti ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ma non sono sopravvissuti alle attenzioni del comune. L’estate scorsa un gigantesco incendio ha sfregiato parte della pineta di Castel Fusano. Esiste una foto della sindaca che dall’alto, con il sole che tramonta all’orizzonte, osserva lo sfacelo carbonizzato: la regina delle ceneri. Tutti fatti amministrativi e politici, evidenze di cronaca, guasti di manutenzione, che trovano unità nella complessità disarmante di Roma, una città in cui si consuma tra idee bislacche e piccole furbizie il falò dell’abbandono e del degrado urbano.

 

E allora bisogna cogliere e concentrarsi sul grottesco dominante nella vita pubblica capitolina, le deformazioni culturali, “l’estate romana” ridotta a sagra di paese, le sfilate di maschere, le miserie della politica, quel collier di stupidaggini inanellate senza posa dall’insediamento della giunta, il 19 giugno 2016. Un panorama, di suo già pieno di macerie, su cui si staglia l’inadeguatezza della sindaca. Il grado zero di un’antica vicenda. A Roma ovviamente ci sono stati anche degli arresti, spaventosi pasticci nella costruzione della giunta, spericolate arrampicate di tanti piccoli Bel Ami che intuendo l’odore del potere si sono infilati nel Movimento e lo hanno utilizzato e scalato, e poi ancora dimissioni a raffica, indagini per abuso d’ufficio e corruzione, dossieraggi, faide tra gruppi interni al M5s. Scontri che non si verificano mai su temi di interesse reale, politico o ideologico, che non si risolvono mai nella fisiologia del contrasto anche gladiatorio ma democratico tipico dei partiti, ma che si configurano piuttosto come una strana, disordinata e sgrammaticata zuffa continua, in cui la delazione è tanto sciocca quanto forsennata e indirizzata alla distruzione personale degli avversari, alla loro delegittimazione di fronte ai leader supremi, Grillo e Davide Casaleggio. E non staremo qui a ripercorrere le insensate lotte tra Roberta Lombardi e Virginia Raggi, tra Daniele Frongia e Marcello De Vito, che sono i piccoli attori sul proscenio della nuova politica romana: illazioni, malizie, veline passate ai giornalisti, segnalazioni in procura, calunnie e sgambetti. Diremo solo che Raggi si è mossa sin dall’inizio in un ambiente pazzotico di questo genere. Si capisce infatti molto bene quello che ci vuole dire un amico di vecchia data della sindaca, uno che – estraneo alla politica e al M5s – ha provato ad aiutarla, quando, seduto sul divano del salotto di una bella casa alle spalle di piazza Navona spiega che “la sua finora sfortunata esperienza in Campidoglio sta forse danneggiando le ambizioni elettorali nazionali del M5s. Forse. Ma vi assicuro che l’insipienza, l’illogicità, e l’autoritarismo del Movimento hanno sicuramente compromesso questa sindacatura”. Così vengono spiegate un po’ di cose accadute in questi ultimi due anni, a cominciare dal contratto che la sindaca ha firmato, il famoso accordo di dubbia legalità che la obbliga al vincolo di mandato, a rispettare cioè quello che le viene detto dallo staff, da Casaleggio e da Grillo, pena la multa da centocinquantamila euro e ovviamente l’espulsione. “Ma vi siete mai chiesti perché Chiara Appendino non l’ha firmato quel contratto, e Raggi sì? Raggi non lo voleva firmare. Ma è circondata da questa nuvola di sospetti e sussurri, e malizie e odio, sin dall’inizio. Ci nuota dentro e ci affoga”. Mentre tutt’intorno a questo debolissimo, evanescente potere istituzionale, crescono gruppi d’interesse che non rispondono a nessuna logica democratica, civile o culturale: le cene organizzate da Davide Casaleggio nei ristoranti romani, gli uomini d’affari che rizzano le antenne e si scapicollano a conoscerlo, la sua piccola azienda milanese, la Casaleggio Associati, come sul Foglio ha raccontato Luciano Capone, che pare stia per aprire una sede nella Capitale, per trasformarsi così – di fatto – nella più tentacolare, inserita organizzazione lobbistica d’Italia.

 

Viene srotolandosi in questo modo, e piuttosto facilmente, l’elenco delle “mediazioni sciocche”, “dei caveat”, dei dinieghi e delle imposizioni dall’alto che sono precipitate sulla sindaca per effetto del clima psicotico in cui sta immerso il Movimento. Ed è così che Raggi si è prima affidata a Raffaele Marra, l’unico intorno a lei che conosceva i meccanismi amministrativi del comune, nel tentativo di difendersi e rendersi autonoma, ma che è finito in carcere e l’ha trascinata in un’imputazione penale per falso, in un processo che è appena cominciato, giovedì scorso. Ed è così che è poi precipitato in Campidoglio anche Luca Lanzalone, sponsorizzato dal ministro Alfonso Bonafede e dunque da Luigi Di Maio, l’uomo il cui potere è cresciuto nella misura in cui declinava quello dell’assessore alle Partecipate Colomban, l’uomo che adesso indirettamente inguaia la sindaca per la vicenda opaca dello stadio. “Tra Raggi e Lanzalone era nato un feeling professionale molto forte”, ha raccontato Colomban. Ma tutte queste contorte faccende giudiziarie, che s’intrecciano con le incongrue lotte interne al M5s, con il suo disordinato centralismo autoritario, scompaiono, si annullano, impallidiscono di fronte all’inoccultabile sfacelo amministrativo della capitale. E sono passati appena due anni dall’insediamento di Raggi in Campidoglio. Prima o poi qualcuno, qualche fuoriuscito dal Movimento, chissà, racconterà cos’è in effetti successo nei giorni in cui il comune ritirò la candidatura di Roma alle Olimpiadi, cosa determinò l’inversione della signora Raggi, che era favorevole, che avrebbe voluto fare un referendum per chiedere ai romani cosa ne pensavano, e che invece si ritrovò, assieme a tutta la sua squadra, a dover firmare un documento già pronto, scritto fuori dal Campidoglio, e consegnatole in un triste pomeriggio dal deputato Simone Valente. E prima o poi qualcuno racconterà, forse aiutato dalla mastodontica indagine della procura di Roma, anche come sono andate davvero le cose intorno allo stadio della Roma, com’è maturata la svolta del M5s, prima contrario e poi favorevole, e come anche questo cambio di orientamenti – gestito dall’avvocato Lanzalone, poi premiato con la presidenza di Acea, e oggi ai domiciliari per corruzione – sia bruscamente maturato in ambienti lontanissimi da Roma. In una cena, a Londra, pare. E non c’era Virginia Raggi. Ma lei, come sappiamo, non c’è mai.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.