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Non solo Tor Di Valle. Ecco le accuse che hanno portato all'arresto di De Vito 

Massimo Solani

Crolla la carriera politica del presidente dell’assemblea capitolina e il M5s ritrova la sua intransigenza “manettara”. Intanto, dello stadio della Roma restano solo inchieste e processi

Ci sono due foto che circolano a Roma in queste ore e stanno lì ad inchiodare Marcello De Vito alla logica più feroce del contrappasso karmico. Nella prima, che risale al dicembre 2014, c’è il futuro potentissimo presidente grillino dell’assemblea capitolina seduto al tavolo di una conferenza stampa assieme a Virginia Raggi e allo stato maggiore del Movimento, da Luigi Di Maio ad Alessandro Di Battista passando per Paola Taverna e Roberta Lombardi, per chiedere con tanto di beffarde arance lo scioglimento del Comune per Mafia Capitale e l’arresto dell’allora sindaco Ignazio Marino.

   

Nel secondo scatto, e siamo al febbraio del 2017, Marcello De Vito è seduto accanto alla prima cittadina Virginia Raggi che parla al telefono col presidente della Roma James Pallotta per la chiusura dell’accordo sul nuovo progetto dello stadio di Tor di Valle. A quel tavolo ci sono anche l’imprenditore Luca Parnasi, proprietario dei terreni dove dovrebbe sorgere lo stadio, e l’avvocato Luca Lanzalone mandato da Grillo in persona a Roma per sciogliere l’empasse sul dossier e poi “ricompensato” per i suoi servigi con la poltrona di presidente di Acea. Sono passati due anni, del nuovo stadio della Roma non c’è ancora traccia e il progetto si trascina stanco negli uffici del Campidoglio fra contestazioni e problemi strutturali. In compenso Parnasi e Lanzalone, arrestati nel giugno scorso, sono da mesi sotto processo con l’accusa di corruzione proprio per l’impianto di Tor Di Valle. La stessa ipotesi di reato per cui mercoledì mattina Marcello De Vito è stato portato in una cella del carcere di Regina Coeli perché accusato di aver intascato mazzette per accelerare l’approvazione di alcuni iter amministrativi. Compreso quello sullo stadio.

  

   

  

“Un totale asservimento della funzione esercitata agli interessi del Parnasi e del gruppo a lui riconducibile in violazione dei doveri istituzionali di imparzialità e correttezza”, ha scritto la gip Maria Paola Tomaselli nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere De Vito e altre tre persone. Fra le quali l’avvocato Camillo Mezzacapo che, secondo i pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli che hanno condotto l’inchiesta, avrebbe ricevuto su indicazione di De Vito da Parnasi e dal gruppo della famiglia Statuto e quello dei fratelli Toti incarichi professionali e consulenze la cui remunerazione sarebbe stata poi “spartita” proprio fra Mezzacapo e il presidente dell’assemblea capitolina. “Un vero e proprio format”, lo definisce l’ordinanza di custodia cautelare, ipotizzando che questa “scientifica strumentalizzazione di ruoli di per sé astrattamente leciti quale abito dentro cui far muovere la macchina dell’illecito” si sia mossa tanto per facilitare l’iter del nuovo stadio di Tor di Valle quanto per altri progetti edilizi che interessavano agli altri gruppi imprenditoriali coinvolti nell’inchiesta.

  

   

  

Perché con il Movimento al governo della città, l’occasione per fare soldi dando le carte e incassando i dividendi è ghiotta. De Vito, che per i Cinque Stelle tentò senza successo la corsa a sindaco nel 2013, alla caduta di Marino sperava di poter recitare da protagonista sul set politico della Capitale. Sembrava arrivato il suo turno in Campidoglio ma una brutta storia di dossieraggi interni ne azzoppò la corsa durante le primarie favorendo Virginia Raggi. Più telegenica e spendibile in televisione, di sicuro più gradita agli uffici milanesi della Casaleggio. Un rimpianto che De Vito, mister preferenze alle Comunali del 2016 con 4651 voti, non sembra aver ancora digerito e che da tempo alimenta le voci su una convivenza mal sopportata e una antipatia ricambiata con la sindaca Raggi: “A Roma – sembra rammaricarsi il presidente dell’assemblea capitolina intercettato lo scorso 4 febbraio – avresti vinto anche con il Gabibbo”. Di sicuro, stando almeno all’inchiesta, l’uomo che voleva essere sindaco e non lo è mai stato avrebbe deciso di prendersi tutto quello che il suo ruolo e il suo peso politico gli potevano permettere: “Siccome la congiunzione astrale che si è verificata adesso io credo che fra molti anni a venire ne parleremo davanti ad un piatto ma non credo che si riverificherà – gli dice infatti il “socio” Mezzacapo – Cioè non credo che si verificherà una congiunzione astrale dove stai al governo da solo di Roma. Questa congiunzione astrale, tipo l’allineamento della cometa di Halley, è difficile secondo me che si verifichi... Noi Marce’ dobbiamo sfruttarla sta cosa. Secondo me, guarda, ci rimangono due anni”. E gli affari, ricostruiscono i magistrati, nonostante l’arresto di Parnasi a giugno, continuano ad andare a gonfie vele grazie al lavoro svolto su diversi progetti immobiliari, dalla ex Fiera di Roma all’ex stazione Trastevere passando per gli ex Mercati Generali: 230mila euro di parcelle già liquidate finiti sui conti correnti di una azienda fittizia riconducibile ad entrambi, altri 160mila euro promessi e forse in arrivo. “Va beh ma distribuiamoli questi”, dice De Vito il 19 febbraio scorso. E Mezzacapo: “Ma adesso non mi far toccare niente, lasciali lì. Quando tu finisci il mandato, la chiudiamo, distribuiamo, liquidi e sparisce tutta la proprietà”.

  

     

   

Parole sotto le quali la carriera politica di De Vito è franata facendo lo stesso rumore dei cancelli di Regina Coeli. Per lui, il fedelissimo di Roberta Lombardi da sempre schierato con la “Faraona” nel suo dualismo con la prima cittadina, il Movimento 5 stelle ha persino ritrovato la sua intransigenza “manettara”. Quella che per i guai giudiziari di Virginia Raggi, prima, e per quelli dell’alleato di governo Matteo Salvini, poi, era stata sotterrata sotto il garantismo da real politik. “Marcello De Vito è fuori dal Movimento 5 stelle – ha tuonato Luigi Di Maio immediatamente dopo l’arresto – Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico, e l’ho già comunicata ai probiviri. Quanto emerge in queste ore oltre ad essere grave è vergognoso, moralmente basso e rappresenta un insulto a ognuno di noi, a ogni portavoce del Movimento nelle istituzioni, ad ogni attivista che si fa il mazzo ogni giorno per questo progetto. Non è una questione di garantismo o giustizialismo, è una questione di responsabilità politica e morale”. Di sicuro l’arresto del presidente dell’assemblea capitolina è l’ennesimo durissimo colpo alla giunta di Virginia Raggi. “Andiamo avanti fino in fondo, senza se e senza ma, per la legalità”, ripete la sindaca in mezzo al coro di chi ne chiede le dimissioni. Lei che decise di far saltare la candidatura romana alle Olimpiadi del 2020 agitando il rischio corruzione, da dieci mesi è costretta a portare il peso politico delle inchieste giudiziarie che riguardano l’unico grande progetto a cui il Movimento ha dato il via libera. Sono passati due anni, ci sono state due inchieste, sono stati eseguiti numerosi arresti e sono già iniziati due processi. Soltanto i lavori sembrano non dover iniziare mai.

 

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