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Olive #28

Quei momenti di Nemanja Radonjic

Giovanni Battistuzzi

Ci sono minuti, in verità nemmeno molti, nei quali il calciatore del Torino sembra capace di fare qualsiasi cosa, di risolvere le partite da solo. Poi ci sono altri, i più, nei quali scompare dal gioco e forse da se stesso. Facendo imbestialire Ivan Juric

Ci sono momenti, in verità nemmeno molti, nei quali Nemanja Radonjić sembra un calciatore capace di ogni cosa, tra queste di far vincere la sua squadra da solo. Sono minuti straordinari nei quali il serbo corre, pressa, calcia quasi a rinverdire le parole che furono, quelle dette lentamente, scandendole per bene, da Vladimir Jugović il 15 novembre 2014 dopo la partita dell’under 19 della Serbia contro i pari età del Montenegro. “Vedere giocare Nemanja Radonjić è qualcosa di strano, ha la capacità di farti provare una sensazione di déjà vu, un bellissimo déjà vu, ti riporta alla mente i tempi nei quali giocavo ancora e vedevo i miei compagni fare cose con il pallone che io nemmeno avevo mai pensato”. Aggiunse, “certo dura qualche minuto appena, all’epoca e anche oggi vedendo Radonjić, ma in quei minuti sai che qualsiasi cosa può accadere, che stai assistendo a qualcosa di magnifico. Se riuscisse a estendere quei minuti almeno a un quarto d’ora, venti minuti, beh… ci gusteremmo un giocatore strepitoso”.

   

Vladimir Jugović all’epoca aveva già iniziato a dividersi tra lo scouting per le selezioni giovanili serbe, le ospitate tivù come opinionista calcistico e il lavoro da procuratore. Prima era stato un centrocampista di classe e ordine. Molte volte doveva mettere pezze a una Nazionale, quella Jugoslava uscita dalla guerra civile, nel quale il suo talento veniva messo in ombra da quello, che sembrava infinito, di Dejan Savićević e Dragan Stojkovic.

   

E proprio a Dejan Savićević ritornò il ricordo di Christian Ziege quando la sua Germania under 18 si trovò davanti i pari età della Serbia. “Ho rivisto Dejan. La stessa classe, la stessa capacità di scomparire e riapparire, soprattutto la sua stessa capacità di essere delizioso con il pallone ai piedi”. In campo Ziege aveva visto Nemanja Radonjić.

   

Fu un abbaglio.

   

Nemanja Radonjić non era Dejan Savićević. Non lo è mai stato, perché certi giocatori capitano una volta soltanto. Però ne ricordava il talento, l’indolenza. Ricordava soprattutto la capacità di lasciare ogni tanto il meraviglioso mondo del tutto scollegato con la realtà che lo circondava, riattaccare i fili con ciò che accadeva attorno a lui e dare la possibilità ai tifosi di sentire un calore quasi fastidioso alle mani a forza di applaudire. Solo che a Dejan Savićević riusciva più spesso e meglio. Poco male. Nemanja Radonjić non si è mai curato troppo del resto, degli altri, del contesto.

   

Nemanja Radonjić si trascina spesso nel campo da gioco con una neghittosità che può essere irritante. Ne sa qualcosa il suo allenatore al Torino, Ivan Jurić, uno che dai suoi calciatori vorrebbe grinta, spirito di sacrificio e totale aderenza al vecchio concetto che la maglia è onorata solo se sudata, o forse ancora di più stracciata, sfibrata, sbrindellata. Sa benissimo Ivan Jurić che Nemanja Radonjić è un calciatore che è meglio averlo in campo, perché è capace di tanto, se non tutto. Ed è proprio questa consapevolezza che lo fa sbottare, che lo fa arrabbiare nel vedere il suo giocatore essere solo a momenti, in verità nemmeno molti, il giocatore che potrebbe essere. "Ci sono cose che faccio fatica di capire di lui, secondo me manca rispetto completamente verso questo gioco. Entri e fai cose diverse da quelle che ti vengono dette, questo vuol dire che non ci sei dentro… ma evidentemente in questi sei mesi non sono riuscito a farlo diventare un giocatore vero. E manca di rispetto proprio al calcio", aveva detto dopo averlo tolto dopo appena quattordici minuti durante il derby contro la Juventus del 28 febbraio 2023.

   

Non si trasformano certi giocatori. Non li si possono modificare, farli coincidere con l’immagine che si ha di loro, che si vorrebbe sempre vedere in campo. Tocca accettarli in toto o accantonarli per sempre. Tocca adattarsi a godersi quei pochi momenti di gioco eccezionale senza pensare al fatto che una partita dura novanta minuti e spicci (a volte nemmeno pochi). Se qualcuno non si adatta ci sono due vie: o ci si adatta o si getta la spugna. Non c’è un’altra via di fuga. A volte, spesso, però è il ricordo di quei momenti nei quali tutto sembrava possibile a rimanere impressi nei ricordi.

   


       

Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce), nella quindicesima Moise Kean (Juventus), nella diciasettesima Rasmus Hojlund (Atalanta); nella diciottesima M'Bala Nzola (Siena); nella diciannovesima Federico Dimarco (Inter); nella ventesima Cyril Ngonge (Hellas Verona); nella ventunesima Riccardo Saponara (Fiorentina); nella ventiduesima Perr Schuurs (Torino); nella ventitreesima Ola Solbakken (Roma); nella ventiquattresima Riccardo Orsolini (Bologna); nella venticinquesima Henrikh Mkhitaryan (Inter); nella ventiseiesima Rolando Mandragora (Fiorentina); nella ventisettesima Zlatan Ibrahimovic (Milan).

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