Federico Dimarco (foto LaPresse)

Olive #19

Federico Dimarco ha dribblato tutti i ma...

Giovanni Battistuzzi

C'ha messo più del previsto l'esterno sinistro cresciuto nell'Inter a diventare l'esterno sinisto dell'Inter. A volte i pregiudizi e la dittutura della prima impressione è difficile da modificare

Per anni, cinque e mezzo, ha girato un pezzetto d’Italia, da Ascoli a Empoli, da Parma a Verona, e uno angolo di mondo, Sion – Svizzera – correndo sulla fascia sinistra inseguito da qualche applauso e parecchi ma… Sempre gli stessi ovunque andasse, qualunque maglia indossasse. Ma… che segnavano una distanza, che sembrava impossibile da colmare, almeno con la maglia che avrebbe voluto vestire, portare su e giù sulla fascia sinistra, quella un tempo a righe verticali nere e azzurre, ora parecchio più fantasiose. Con quei colori addosso ci era cresciuto Federico Dimarco.

 

All’Inter c’era arrivato piccino picciò, s’era allungato e ingrossato – nemmeno poi troppo visto le dimensioni attuali: centosettantacinque centimetri d’altezza e settantacinque chilogrammi di peso – ma, col tempo, quel ragazzo che più di qualcuno ai tempi delle giovanili aveva pronosticato come il futuro scorrazzatore della fascia sinistra del Meazza nerazzurro, sembrava destinato a farlo altrove. Ovunque ma non lì, non a San Siro, o almeno non con la maglia dell’Inter addosso.

 

In fin dei conti aveva resistenza, ma….; aveva un buon sinistro, ma…; aveva buoni doti di lettura dell’azione offensiva e difensiva, ma…; era veloce, ma…

  

C’era sempre un ma… a rallentare l’entusiasmo. Il suo e quello della squadra che ancora era proprietaria del cartellino. Anche perché quando tornò all’Inter, nell’estate del 2019, non è che fece tutta questa gran impressione. Durò poco più di cinque mesi. Poi, dopo quattro spezzoni di partita (tre in campionato), lo mandarono al Verona, ancora in prestito e con un diritto di riscatto fissato a 6,5 milioni di euro, nemmeno tanto, e nessun diritto di controriscatto: segno che il giocatore poi tanto necessario nei piani futuri non era.

  

Un anno e mezzo, cinquanta partite e cinque gol dopo il Verona quei soldi li avrebbe spesi volentieri, erano pure pochi, un ottimo affare. Lui però disse grazie tante, ma non se ne fa niente, non firmo. Se ne tornò all’Inter, volenteroso di trovare quella fascia sinistra che aveva sempre voluto, sempre sognato. San Siro, a volte, sa essere irresistibile.

 

T’immagini se questa è la volta buona… diceva fra sé e sé. T’immagini…

 

Se lo immaginava nessuno. Dimarco? Bravo, ma… c’è Ivan Perisic. E dopo Perisic in caso Aleksandar Kolarov. E se Kolarov non ce la farà a fare tutta la fascia come chiede Simone Inzaghi beh…, se non ce la farà servirà prendere qualcuno – arrivò a gennaio Robin Gosens –, o adattare Alexis Sánchez, non faceva l’ala a inizio carriera?

 

Di ragionamenti del genere in tribuna, nei bar, e sui social ce ne erano a bizzeffe. Tanto che c’era da chiedersi se Simone Inzaghi non fosse diventato un pirla a non capire che serviva un esterno di sinistra, che Dimarco non andava bene: bravo per carità, ma… A non capire quello che in tanti, tantissimi, avevano inveve capito benissimo.

 

E invece Simone Inzaghi non era diventato pirla, e Dimarco in quel posto là, quello sulla fascia sinistra della San Siro interista, ci stava bene, molto meglio di altri che l’avevano preceduto negli anni. Titolare spesso, una gran corsa, piedi buoni, capacità di difendere e attaccare e per tutti (o quasi) i novanta minuti. L'anno scorso 42 partite, 2 gol e 5 assist (tutte le competizioni comprese, ndr); in questa, al 24 gennaio, 25 partite, 4 gol e 4 assist. Eppure… eppure quei ma… c’erano sempre. Perché qualche errore dopo chilometri e chilometri di corse e rincorse, scatti e volate capita pure di farlo. Errori che si perdonano a tanti, ma non a uno come lui.

 

A dire il vero i tifosi, quelli che il calcio lo guardano e lo giudicano per cosa hanno visto, avevano già tolto parecchi ma…, se ne erano fregati dei pregiudizi, avevano apprezzato e applaudito il calciatore e non quello che era o non era stato. E pure Roberto Mancini aveva iniziato a superare quei ma…, aveva iniziato a fregarsene.

 

Perché in fondo, sulle fasce sinistre degli stadi italiani, ce ne sono pochi di meglio di quell’uomo che fin da bambino desiderava essere lì e con quella maglia addosso. E pure fuori dall’Italia non è che siano tantissimi, certo ci sono, ma sarebbero davvero più efficaci? Perché uno come Federico Dimarco non si fa vedere molto, non abbaglia, eppure quando le cose vanno bene è sempre tra i più positivi, ed è facile, scontato, si dirà; ma anche quando le cose vanno male, tipo contro l’Empoli, è sempre (o quasi) tra quelli che la carretta l’hanno portata, che si sono fatti il mazzo per tentare, in qualche modo, di far cambiare le cose, di invertire la rotta. Alla faccia di tutti i ma…

   


        

Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce), nella quindicesima Moise Kean (Juventus), nella diciasettesima Rasmus Hojlund (Atalanta); nella diciottesima M'Bala Nzola (Siena).

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