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Olive #1

Il calcio libero di Khvicha Kvaratskhelia

Giovanni Battistuzzi

L'attaccante del Napoli al debutto in Serie A ha segnato un gol e concesso un assist. Lo strano caso della scuola calcistica georgiana che l'Unione sovietica cercò di annientare

Quando c'era ancora l'Unione sovietica e dalla cortina di ferro l'unico calcio a essere “esportato” era quello in maglietta rossa con la scritta URSS sul petto, la gente che veniva da laggiù, dai monti del Caucaso, dalla Georgia, veniva guardata con un certo scetticismo. Perché quelli che venivano da laggiù, dai monti del Caucaso, erano mica come gli altri, come i russi o gli ucraini, avevano un'altra visione del calcio, un altro modo di intendere il pallone. Almeno dal centrocampo in su, perché dal centrocampo in giù prevaleva a ogni latitudine la lezione moscovita: forza fisica, tenacia e maniere forti. Si può forse fare altrimenti?

Gavriil Kačalin, l'allenatore che condusse l'Urss alla vittoria della medaglia d'oro alle Olimpiadi di Melbourne 1956 e al successo agli Europei del 1960, era sicuro di molte cose, una su tutte quella che dei georgiani è meglio diffidare, perché “l'anarchia calcistica è una deplorevole tendenza dalla quale serve liberarsi. Il calcio è gioco di squadra, serve disciplina. A Tblisi e dintorni di questa ce ne è poca”. Provò pure a portare il suo calcio scientifico di impostazione moscovita in Georgia, e per due volte, “chiamato” – o meglio imposto dal partito comunista – dai vertici della Dinamo Tbilisi a cercare di dare ordine a una squadra che proprio sul disordine tattico fondava la sua forza. Non ce la fece, nonostante la vittoria in campionato alla prima occasione, nel 1964. Fu in entrambi i casi allontanato al termine del campionato, perché il partito era sacro, ma i tifosi andavano accontentati. Vincere è meraviglioso, ma “c'è modo e modo di vincere e quella squadra, quella del 1964, credo fosse, vittoria del campionato a parte, la formazione che meno si è fatta amare nella storia della Dinamo: non eravamo noi, eravamo tutto quello che il calcio georgiano non era mai stato: impostato e disciplinato, forse proprio per questo vincente”, raccontò alla BBC nei primi anni Duemila il grande attaccante della Dinamo Tblisi Ilia Datunashvili.

Ilia Datunashvili non giocò mai per la Nazionale dell'Unione sovietica. Non fu l'unico tra i grandi talenti d'attacco georgiani a essere lasciati a casa dall'Armata rossa. E anche chi ci giocò, come Zaur Kaloev, Mikheil Meskhi o Davit Kipiani, tre tra i migliori giocatori della storia della Georgia, ebbero ruoli più o meno marginali con la maglia rossa con la scritta URSS sul petto. “Li hai visti giocare? Sono buoni per l'Uruguay o per il Brasile, non per l'Unione sovietica, abbiamo bisogno di giocatori, non di giocolieri”, sintetizzò Valeriy Lobanovskyi, nel 1975, rispondendo a chi gli faceva notare che era suicida continuare a non convocare in Nazionale un giocatore come Davit Kipiani, che proprio in quegli anni stava facendo sognare i tifosi della Dinamo Tblisi.

Eppure già ai tempi di Kipiani il calcio georgiano era cambiato. L'anarchia calcistica che si era respirata a Tblisi tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, figlia di una strana e incredibile serie di eventi che aveva portato tra i monti del Caucaso i princìpi del calcio mitteleuropeo, ungherese in primis, si era piano piano affievolita sino quasi a scomparire. Kipiani era un errore storico, una resistenza di qualcosa che non c'era più. La terra dei trequartisti e delle “ali matte” si stava piano piano inaridendo prima di scomparire definitivamente. Per decenni il calcio georgiano, prima e dopo la fine dell'Unione sovietica, aveva spostato il baricentro sempre più in basso, era rimasto, paradossalmente, l'ultimo avamposto della linearità ossessiva del calcio russo vecchio stampo. La Georgia si scoprì essere capace di sfornare poco altro che buoni, a volte ottimi, difensori, centrocampisti di gran corsa e modi rudi e qualche attaccante dal buon tocco, ma ossequiosi delle necessità di squadra, come Shota Arveladze.

Poi è arrivato Khvicha Kvaratskhelia, “un giocatore che non vedevo da una vita, un ritorno a quello che era stato il calcio georgiano e che non era più da un pezzo, da troppo tempo”, raccontò Ilia Datunashvili dopo averlo visto giocare nel 2018 al Rustavi. “È un salto all'indietro nel tempo, un ritorno a quando la Georgia era imprevedibilità, corsa e piacere di giocare liberi”.

Khvicha Kvaratskhelia lo stanno scoprendo a Napoli. E poco importa se ciò che Datunashvili disse allora sia incomprensibile anche a i georgiani di oggi che certo calcio, quello georgiano d'antan non lo hanno mai visto. Importa niente il passato quando il presente è un giocatore che tocca la palla al modo dei forti, che del pallone è innamorato, ma che sa benissimo cosa farne, e mica soltanto quando ce lo ha incollato al piede. I tifosi l'hanno iniziato a capire durante il ritiro precampionato. Gli altri, i calciofili italiani, alla prima giornata di Serie A, quando, contro il Verona, ha segnato un gol e concesso un assist, oltre a giocate di talento e ostinazione, di quelle che stanno benissimo in un campo di calcio, indipendentemente ci si ricordi, non lo ricorda più nessuno, di quel calcio libero e per niente sovietico che si giocava nella Georgia sovietica e che l'Unione sovietica cercò di annientare in nome della scientificità del calcio.

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