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Olive #15

Moise Kean e lo "spreco" percepito

Giovanni Battistuzzi

Ogni epoca del pallone ha i suoi grandi protagonisti scialacquatori di magnifiche carriere calcistiche e progressive. Giocatori per i quali i calciofili italiani hanno pronto sempre un "avessi io il suo talento, ma con la mia testa". Ora l'attaccante della Juventus prova a non essere tra loro

Avessi io il suo talento, ma con la mia testa. Tra i calciofili poco o per niente talentuosi, l’enorme maggioranza, questa frase è spesso citata e sempre si sottende che il tale giocatore di talento stia sprecando il talento o che non abbia la concentrazione e cattiveria, o solo la voglia, giusta per imporlo. Cosa è una specie di reato calcistico, è luogo comune pensare. E soprattutto che chi parla avrebbe invece tutte queste caratteristiche che di colpo trasformerebbero quel giocatore di talento in un gran campione. I calciofili italiani tendono sempre ad avere un’altissima considerazione di sé. Anche perché, di solito, chi ascolta questa frase, il gruppo di amici-compagni di calcetto-appassionati-tifosi da bar, risponde sempre con un eh sì, davvero, o altre espressioni di conforto. 

 

Ogni epoca del pallone ha i suoi grandi protagonisti scialacquatori di magnifiche carriere calcistiche e progressive. Calciatori che si trasformano in crucci, in sogni finiti male, sgretolati alle fondamenta. Si chiedono mai i calciofili se non fossero sbagliate le premesse, se si fosse sopravvalutato il talento. La sicumera di aver visto in fasce un futuro campione prevale sempre sulle evidenze.

 

Il problema è però sempre la testa. La soluzione è sempre dire ma con la mia testa… viene mai però il dubbio che certi calciatori siano capaci di fare certe giocate proprio perché hanno la testa che si ritrovano e che il talento a volte si esprime solo in pillole, prevede una curva sinusoidale, a volte addirittura una spezzata. Soprattutto non è reato, non può e non deve esserlo, non sfruttare al massimo le proprie potenzialità, è concepibile anche il vivacchiamento, il limitarsi, il preferire altro al campo. Oppure ammettere che non solo di calcio si vive, che esiste altro e questo altro può essere preferibile di dare calci al pallone.

 

Mario Balotelli è stato l’ultimo grande cruccio del mondo pallonaro italiano, l’ultimo “spreco”, a loro dire. Un’epoca chiusa, avanti il prossimo.

 

E il prossimo doveva, dovrebbe, essere Moise Kean. L’attaccante della Juventus ha ventidue anni, è da almeno cinque che se ne dice talmente un gran bene che non basterebbe una stagione da trenta gol per far pari con le aspettative. È da altrettante stagioni che questa attesa sembra poter tendere all’infinito. D’altra parte se sei il primo 2000 a segnare in Serie A, se segni due gol nelle prime due partite ufficiali con la maglia dell’Italia (ma contro Finlandia e Liechtenstein), le aspettative sono alte, soprattutto in un periodo di buoni attaccanti solo sulla carta. Sembrava una causa persa, che tutto fosse appassito, l’ennesimo caso di talento incompiuto, sfumato, evaporato per supponenza e poca voglia di faticare, la fine di ogni speranza.

  

Poi è arrivata la seconda metà di ottobre, il ritorno delle due punte nei piani di Massimiliano Allegri, i fastidi agli adduttori di Dusan Vlahovic e Moise Kean si è ritrovato inaspettatamente e sorprendentemente a suo agio in campo, i palloni che calciava prendevano la via della porta, superavano i portieri: cinque gol nelle ultime cinque partite giocate tra campionato e Champions, che nemmeno ai tempi del Paris Saint-Germain quando di gol ne segnava (uno ogni centotrenta minuti giocati) e sembrava essere pronto per una carriera da primattore e prima punta.

  

Moise Kean è tornato a segnare, e con continuità, in una Juventus che è tornata a essere competitiva, che crede di poter dire ancora la sua per lo scudetto, nonostante i punti, dieci quindi tantissimi, di ritardo dal Napoli. È tornato soprattutto a essere presenza in campo e non più ombra, margine estremo e solitario. A tal punto da credere, o far credere, che anche per lui una continuità di reti e rendimento possa non essere una chimera.

 

Ha ventidue anni, ci sembra ne abbia quaranta, le aspettative rallentate accelerano l’invecchiamento percepito.

 

Ventidue anni (ventitré a febbraio) è una buona età, ancora giovane, per poter rientrare in quella narrazione di Juventus giovane e forte che stanno cercando di portare avanti Massimiliano Allegri e addetti ai lavori. Per poter costruire un presente e soprattutto un futuro da protagonista, per recidere l’attesa e trasformarla in pretesa: di gol, di campo, di fiducia. Fiducia soprattutto in se stessi, perché quella a volte manca davvero in ragazzi che si ritrovano al centro di sogni e aspettative enormi da parte di chi crede che sia una passeggiata scendere in campo, giocare a pallone. Non sempre è così, nemmeno per chi viene additato di prendere annualmente uno sproposito di soldi, soldi che vengono rinfacciati soltanto quando le cose non vanno bene, quando questo sembra furto, mentre sino a poco prima erano invece il viatico per sognare in grande, sperare in vittorie presenti e future, italiane ed europee.

   


    

 

Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce).

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