Carlo Bonomi, presidente Assolombarda (foto LaPresse)

L'Italia non si salva con tasse, più deficit e spesa pubblica

Carlo Bonomi

La lezione del presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, durante l'assemblea generale dell'associazione: “L'Italia ha una nuova occasione, ma serve discontinuità”

Pubblichiamo la relazione del presidente di Assolombarda, Carlo Bonini, durante l'Assemblea Generale dell'associazione che si è svolta a Milano 


  

Signor Presidente della Repubblica, Signora Presidente del Senato, Signor Presidente del Consiglio, Signori Ministri, Care Colleghe e Cari Colleghi, Autorità, rappresentanti del Sindacato, del mondo dell’Università, della Scuola e della Società civile, a tutti voi il mio più caloroso ringraziamento per essere qui.

 

Siamo particolarmente grati al Capo dello Stato, che ha voluto oggi onorarci della sua presenza. Lo salutiamo con grande calore. È un ulteriore segno di quell’attenzione istituzionale che egli ha sempre voluto portare, non tanto e non solo ad Assolombarda, ma a tutto il mondo dell’impresa e del lavoro italiano. È una sensibilità preziosa per noi e per l’intero Paese. Perché non si esce da anni di crescita e produttività stagnanti, se le istituzioni della Repubblica, per prime, non comprendono che occorre un grande impegno comune, pubblico e privato.

 

Di reciproca attenzione e di massima condivisione, su obiettivi e strumenti. Sono altresì grato per la presenza della Presidente del Senato e del Presidente del Consiglio, che oggi interverrà nei nostri lavori e spero ci porterà qualche elemento di maggiore chiarezza sulle intenzioni del governo.

 

Una nuova Europa si è messa in moto. La nostra Assemblea cade in un momento decisivo. È stato costituito da poche settimane un nuovo governo. Solo pochi giorni fa abbiamo appreso per la prima volta, dalla nota di aggiornamento del DEF, quali siano i suoi obiettivi di finanza pubblica. Ci aspetta una legge di bilancio che deve – sottolineo: deve, a nostro giudizio – offrire fondamentali elementi di discontinuità.

 

Deve farlo innanzitutto perché l’Italia ha una nuova occasione, che fino a pochi mesi fa non esisteva. E che è stata decisa dai cittadini europei, alle urne. Ora sta alla politica italiana capire e mettere a frutto le nuove condizioni che si sono create. È un nuovo quadro internazionale, a offrire l’occasione da cogliere.

 

Dalla fine del 2017 avevamo iniziato ad evidenziare i rischi del ritorno al protezionismo collegati alla guerra dei dazi, e gli attacchi al multilateralismo nel commercio mondiale, che sono la via maestra sin qui seguita dall’amministrazione Trump. Gli effetti si sono duramente manifestati. Il commercio mondiale frena da allora e i Paesi trasformatori ne soffrono. Ne è diretta espressione la frenata del cuore della manifattura europea, tedesca e italiana, che alla prima è connessa strettamente attraverso comuni catene del valore.

 

Anche negli Stati Uniti, pur alle prese con un boom di occupati ma che investe principalmente i lavori di bassa qualità e qualifica, il morso delle tariffe più elevate ha iniziato a manifestarsi in molti settori. La frenata della crescita ha indotto le banche centrali dell’Occidente a modificare il proprio orientamento, e da un’uscita delle politiche di sostegno all’economia siamo tornati a un orizzonte di politiche monetarie lasche, per sostenere la crescita.

 

La BCE in particolare continua con le sue misure straordinarie a “comprare tempo” che i governi italiani – a differenza di altri, in Europa - sin qui non hanno messo a frutto per riforme vere e serie. E a questo proposito consentitemi di sottolineare, ancora una volta, chi in questi anni ha guidato la BCE con successo. Un grande italiano: Mario Draghi. Bisogna ricordarlo sempre: a lui l’Italia e l’Europa devono molto.

 

L’avvicinarsi della nuova campagna presidenziale americana obbligherà Trump ad accordi e non a scontri, perché la stessa economia americana subisce il morso della ridislocazione mondiale delle catene del valore verso l’Asia. A questa duplice reazione al rallentamento mondiale si è aggiunta la risposta politica dei cittadini europei alla sfida del sovranismo.

 

Ne sono espressione diretta:

- l’accordo tra le diverse famiglie politiche “storiche” europee che ha portato alla nascita della nuova Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen;

- il protagonismo francese all’ultimo G7, su dossier come l’IRAN e l’ambiente;

- il grande accordo anti-sovranista in Germania, per non prestarsi a governi con AfD né locali né nazionali;

- e infine l’appassionata resistenza trasversale in atto in UK contro la No Deal Brexit, che esporrebbe il Paese e l’intera UE a danni difficilmente calcolabili.

 

Dalle due rive dell’Atlantico ai rapporti con Cina e Russia e nel Medio Oriente, questo nuovo quadro di forze disegna una cornice che è propizia all’Italia. Se sapremo identificare con chiarezza il nostro ruolo e i nostri interessi.

 

Gli errori del passato, la nuova occasione

Questo è il compito essenziale che spetta al nuovo governo. Mi rivolgo a lei, Signor Presidente del Consiglio, esprimendo l’opinione che ho raccolto in tutta la nostra associazione, in queste ultime settimane. Sappia, che noi apprezziamo vivamente l’impegno che ha assunto nel suo discorso parlamentare per la fiducia. L’impegno a un nuovo tono. Di profondo rispetto istituzionale. Di grande cura nell’evitare polemiche divisive. Di deliberata costruttività nei confronti dell’Europa e del rispetto delle sue regole. Di ascolto vero con le parti sociali: impresa, sindacati e società civile.

 

È quanto avevamo chiesto invano, nel corso del 2018 e 2019. Però, Signor Presidente, vogliamo essere con lei del tutto chiari. Noi apprezziamo i nuovi propositi. Ma non dimentichiamo quello che abbiamo visto e sentito nei 14 mesi precedenti. Non possiamo dimenticare che quel governo ci ha promesso di cancellare la povertà, invece ci ha restituito alla stagnazione.

 

Questa di Assolombarda è la mia terza Assemblea. E a ognuna di queste ultime tre assemblee mi sono dovuto rivolgere a un governo diverso in carica. A ogni Assemblea ci siamo ritrovati un governo che ci diceva che per Alitalia dietro l’angolo c’era una soluzione di mercato, con un prestito ponte che sarebbe dovuto durare tre mesi, poi sei, poi nove. Sono passati più di 28 mesi, il prestito ponte è diventato permanente, e la soluzione non c’è ancora. E quella indicata ancora oggi non è una soluzione di mercato: è di ristatalizzarla. Alitalia ha solo l’8% del mercato di chi viene e parte dall’Italia per l’estero, e noi qui in Assolombarda guardando i numeri proprio non riusciamo a capire il perché, tutti i partiti da sinistra a destra vogliano ristatalizzarla.

 

Uso l’esempio di Alitalia proprio per sottolineare le discontinuità vere che ci attendiamo. Se dismettiamo le continue polemiche contro la UE e l’euro, la BCE e Banca d’Italia, che ci hanno portato ad aggravare i costi del debito pubblico e a un sempre maggiore isolamento sui dossier comuni. Se torniamo a sedere ai tavoli europei, condividendo le responsabilità con chi ha chiaro che separarsi dall’Europa significa essere ancora più impotenti rispetto alle derive mondiali, si aprono spazi per la condivisione di quei passi in avanti essenziali che si ritrovano nel programma della nuova Commissione. Se la smettiamo di credere che sia una buona politica estera compiere azioni di unilaterale favore verso Russia e Cina al di fuori del concerto NATO e UE, guadagneremo non solo più rispetto, ma anche vantaggi economici bilaterali che altre grandi nazioni occidentali hanno ottenuto in misura assai maggiore.

 

Diciamolo forte. Questi vantaggi per noi imprese non significano e non devono significare porte aperte a più deficit e debito nella finanza pubblica. Deficit e debito vanno ridotti non perché ce lo chiede o impone l’Europa. Ma perché è primario interesse nostro. Dei nostri figli. Se bastasse il deficit per crescere dovremmo essere in testa alle graduatorie di aumento del PIL europeo: abbiamo sempre accompagnato sia recessione sia crescita con il deficit pubblico. Invece il risultato è che siamo l’ultimo paese UE per crescita attesa. Perché il deficit chiama aumento della pressione fiscale, spiazzamento degli investimenti produttivi, aumento della forbice tra chi a parità di risorse pubbliche offre servizi e legalità migliori per imprese e lavoro, e chi invece vede accrescere tutti i propri gap come in vaste aree del nostro Sud.

 

Per questo ci siamo battuti in Assolombarda con grande fermezza, negli ultimi 28 mesi. Non spetta a noi imprenditori sostituirci ai partiti, non lo facciamo neanche oggi e non diamo giudizi politici sul perché qualcuno abbia creduto di ottenere in poche settimane nuove elezioni, o su come qualcun altro, dopo anni di aspre polemiche, abbia deciso di dar vita a una nuova maggioranza con chi sin lì avversava duramente. Noi non rappresentiamo maggioranza o opposizione, noi siamo imprenditori, noi siamo Assolombarda, noi siamo Confindustria! Quel che ci interessava negli ultimi 28 mesi era batterci perché la politica capisse che occorreva evitare errori. Che avrebbero accresciuto intensità e gravità della frenata che si avvertiva nelle dinamiche mondiali.

 

Lo abbiamo detto e ripetuto continuamente. Noi abbiamo preso atto che la politica allora ha deciso di non ascoltarci. È salito lo spread. Per due volte il governo è andato allo scontro con l’Europa sui conti, e per due volte ha dovuto far marcia indietro a tutta forza all’ultimo minuto, sulla legge di stabilità e sull’aggiustamento dello scorso luglio. Sulle opere pubbliche è continuato il blocco. Sulle politiche del lavoro, dopo l’errore del decreto dignità nell’estate 2018, si è aggiunto quello di voler destinare il Reddito di Cittadinanza non solo alla sacrosanta lotta alla povertà, ma alle politiche attive del lavoro che hanno tutt’altra necessità di competenze, metriche e criteri. E che infatti non sono mai partite. Sulla spesa, si è puntato tutto o quasi su costose misure che non alzano il PIL potenziale come Quota100 e Reddito di Cittadinanza, e che nel primo caso sono oltre che molto onerose in termini di aggravato deficit previdenziale anche inique contro i giovani. Si è continuato a parlare di finte Flat Tax, il cui vero scopo è stato sottrarre, anno dopo anno, a fini elettorali fette crescenti di contribuenti all’Irpef attraverso forfait, con effetti distorsivi e di soglia che finiscono inevitabilmente per allontanare nel tempo ogni prospettiva di quell’organica e ordinata riforma fiscale per lo sviluppo che chiediamo da anni, e di cui ha bisogno l’Italia per soffocare meno impresa e lavoro. Neanche sulla messa in sicurezza dal rischio sismico e idrogeologico, che pure è una minaccia oggettiva per l’orografia italiana, e tale da consentire una fondata trattativa con l’Europa per gli enormi investimenti che richiede, neanche su questo abbiamo visto misure efficaci. Il Rapporto Casa Italia del 2017 censiva 7.000 interventi urgenti su immobili ad altissimo rischio, per un investimento complessivo di 22 miliardi di euro. Ampliando lo sguardo agli edifici “vulnerabili” da un punto di vista sismico nei Comuni via via meno a rischio, la stima passava da un minimo di 37 miliardi ad un massimo addirittura di 851 miliardi. Ma anche solo limitandosi ai 22 miliardi per situazioni “pericolose”, abbiamo registrato uno stanziamento di oltre 6 miliardi nel triennio 2019-21, di cui nell’ultima ricognizione che abbiamo fatto a ora risultano meno di 400 milioni attivati. Non c’è bisogno di commento: la sola gigantesca sproporzione tra gli annunci e i fatti concreti induce a serie riflessioni.

 

Presidente Conte: questa volta stupiteci! Per tutto questo, caro Signor Presidente Conte, chiediamo una legge di bilancio che renda evidente che la lezione è stata compresa. Non rispondeteci con un elenco di 27 o 39 proposte diverse. Non parlateci di nuovo umanesimo e di nuovo rinascimento. L’appello che le rivolgiamo è uno solo: questa volta, stupiteci!

 

L’Italia è ferma. Ci dica tre cose essenziali che il suo governo intende fare per rilanciarla. Le priorità vere, quelle che servono per riorientare un Paese che negli ultimi vent’anni è cresciuto dello 0,2% in media l’anno, che ha occupati di 15-20 punti percentuali in meno dei Paesi Nord europei e che rapina futuro ai suoi giovani, mentre fisco e welfare distorti ci condannano a una demografia sempre più asfittica. Poche, pochissime chiare priorità, dunque.

 

Innanzitutto nessun equivoco su deficit e debito, che devono scendere. Sulle opere pubbliche e sui cantieri da riavviare, in tutta Italia: non solo TAV, Gronda di Genova, Alta Velocità nel Nordest e al Sud, Passante dell’A1 a Bologna. Stop all’esperimento negativo di Quota100 ed espianto delle politiche del lavoro dal Reddito di Cittadinanza, e confluenza di tutte le risorse rese disponibili, compresi i 9,4 miliardi annui del bonus 80 euro, verso l’abbattimento strutturale del cuneo fiscale a favore dei lavoratori, che alza occupabilità e reddito molto più di tutta la panoplia di sussidi a tempo sin qui erogati. Le esperienze del passato mostrano che tagli al cuneo fiscale di pochi miliardi non hanno effetti significativi. Ne servono almeno 13 o 14! Non certo i due miliardi e qualcosa di cui leggiamo nella NaDef.

 

Sulla innumerevoli volte ribadita necessità del ripristino integrale di industria 4.0, caro Presidente, abbiamo poco da aggiungere. È il crollo degli investimenti avvenuto sotto il precedente governo, ciò che ci ha trascinato di nuovo verso la recessione. Dal secondo semestre 2016 al primo del 2018 abbiamo registrato una forte accelerazione degli investimenti in macchinari, attrezzature, impianti, proprietà intellettuale, con tassi di crescita compresi tra il 6 e il 9% su base tendenziale. Dal secondo semestre 2018 e con la riduzione di Industria 4.0 l'andamento degli investimenti è diventato di -0,4% nella seconda parte del 2018, e solo di +0,4% nel primo semestre 2019. Serve, non solo la conferma integrale di Industria 4.0: occorre una scelta pluriennale di sostegno strutturale alla ricerca e allo sviluppo, senza la quale non cresciamo nelle catene del valore e non risaliamo in termini di produttività. Siamo discesi da oltre quota 300 punti di spread, dove ci aveva riportato il governo precedente, verso quota 140-150. E la cosa sembra accontentare tutti. Al contrario: una legge di bilancio di forte discontinuità potrebbe ancorarci a quota 80 o 90 punti, e quello sì che sarebbe un dividendo corposo e strutturale. Quello è il fine che vorremmo fosse perseguito.

 

La Spagna sta andando per la quarta volta a elezioni in quattro anni. Eppure il suo spread sta sotto quota 70. Ma caro Presidente Conte, lei l’ha imparato sul campo: i numeri del DEF sono una cosa, i provvedimenti che in essi si vorrà far rientrare tutt’altra. Quindi ci capirà, se aspettiamo in concreto la legge di bilancio.

 

Solidarietà umana, il nostro orgoglio di essere italiani

Ma, come sempre, caro Presidente del Consiglio, noi imprenditori non ci limitiamo a chiedere ai governi. È tutt’altra, la nostra maniera di lavorare. Non c’è delusione, freno e ostacolo che possa impedirci di continuare a fare ciò per cui esistiamo: svolgere la nostra missione. Che non è solo quella di produrre utili da distribuire ai soci. È di realizzare crescita, lavoro e reddito. Le basi di ogni coesione sociale. Di cui impresa e lavoro sono i protagonisti, con il terzo settore.

 

A darci forza ogni giorno è innanzitutto una certa idea dell’Italia. Un’idea dell’Italia che unisce tutti in un grande patrimonio condiviso. Non solo storico, letterario, artistico e monumentale. Un patrimonio di valori comuni, di umanità, reciproca comprensione e di apertura verso il mondo. Un patrimonio di unità che come Confindustria, dall’Alto Adige alla Sicilia, noi avvertiamo il dovere di difendere. Troppe e temibili sono le forze divisive sprigionatesi in questi anni. Rincorrendo facili consensi, la politica rischia di picconare questo patrimonio comune di civiltà. Ed è una storia purtroppo già vista, nel passato dell’Europa.

 

Il nazionalismo finisce per distruggere il senso vero della Patria, lo riduce da valori condivisi a simboli identitari branditi da tribù intolleranti. In una sola fase della nostra secolare storia dirsi “italiano” era diventato un criterio per negare ad altri fondamentali diritti umani. E noi a quella fase storica non vogliamo tornare. Proprio in questo giorno, il 3 ottobre del 2013, nelle acque antistanti Lampedusa morirono affogati 368 profughi, e di almeno un’altra ventina non si trovarono i corpi. Erano uomini, donne e bimbi provenienti per lo più dall’Eritrea. Una delle maggiori tragedie di tutti questi recenti, anni di troppe vittime nel Mediterraneo.

 

Certo, l’immigrazione è un fenomeno immane e complesso, che deve trovare una compartecipata soluzione europea. E che deve vedere l’Italia capace di realizzare una struttura efficace non solo per le emergenze, ma per l’integrazione sociale degli immigrati e per il rispetto da parte di tutti delle nostre leggi. Noi siamo fieri di avere un Capo dello Stato che in questi anni ha fatto tutto ciò che gli era possibile, per richiamare i toni della politica e gli atti di governo al rispetto di forme, toni e diritti che sono il vero patrimonio indivisibile non solo della libertà e dello Stato di diritto. Ma che rappresentano per noi il senso stesso di dirsi “italiani” di fronte al mondo. Un fondamento comune non solo della crescita ma del vivere civile, che alla propria base ha una fede irrinunciabile nei valori della solidarietà umana, e nel rispetto sacro dei diritti della persona. Di “ogni” persona: quale che sia la sua nascita, il suo sesso, la sua religione.

 

Questa alta visione dell’Italia ci spinge, Presidente Conte, a non occuparci delle convenienze di partito, ma a misurare i politici solo per quel che fanno in concreto. Questo è l’orgoglio che ci motiva a rifiutare l’ostilità ancora troppo diffusa verso l’impresa che si respira nella politica italiana. Malgrado la frenata imposta agli investimenti le nostre imprese hanno raddoppiato il numero di robot industriali rispetto al 2008, raggiungendo una 16 quota di 190 unità per ogni 10mila addetti della manifattura, battendo non solo Francia e Spagna ma anche l’industria cinese. Questo è il motivo per cui diffidiamo delle fughe in avanti elettoralistiche in materia di spesa e di tasse. Non diteci che volete tassare merendine e biglietti aerei, per finanziare il buco contributivo di Alitalia. E risparmiateci nuove guerre civili dividendo gli italiani gli uni contro gli altri, in nome della “lotta all’evasione fiscale”.

 

Quel che vediamo noi è che la premialità promessa agli onesti contribuenti con gli ISA, i nuovi indicatori sintetici di affidabilità fiscale, è di fatto rimasta sulla carta. E lasciate perdere poi l’idea di tassare il contante: chi lo usa per evadere non lo depositerà in banca e dalla tassa sarà immune, a esserne colpiti sarebbero milioni di italiani incolpevoli. Sin qui abbiamo solo ascoltato ministri che propongono nuove tasse e balzelli, in un Paese dove la tassazione fiscale è già al 42%.

 

Non uno solo di loro che abbia mai pensato di accennare, nemmeno di sfuggita, a tagli di spesa, veri! Vedo che nella NaDef questa linea è confermata, nulla o quasi sulla spesa pubblica, più entrate per 7 miliardi e non abbiamo ancora capito come.

 

Presidente Conte, ci ripensi. Non proclamate aumenti retributivi uguali per tutti per i lavoratori pubblici di questo o quel settore, quando nel privato da decenni la contrattazione responsabile premia le diverse qualifiche, e deve finalmente fare un balzo in avanti per dare più soldi a chi condivide e s’impegna a realizzare obiettivi di produttività. Che è una delle vere emergenze del Paese. Lo è da quando declina rispetto ai nostri competitor, ben 25 anni. Un’emergenza che, nel lungo periodo, rende insostenibile un Paese a demografia asfittica come il nostro, mina i conti previdenziali, abbatte ogni crescita e spinge già ogni anno migliaia dei nostri migliori e meglio formati giovani ad andarsene. Eppure, della produttività noi imprese continuiamo a non sentire mai neppure pronunciare la parola.

 

La filiera-futuro: lavoro, giovani, donne, tecnologia e sostenibilità

È per questo amore che portiamo all’Italia che, come Assolombarda, poche settimane fa, a governo appena formato, abbiamo dichiarato la nostra volontà come comunità di imprese di fare per intero la nostra parte. Non si tratta solo di fare ciò che serviva 28 mesi fa, ma di aggiungere nuovi capitoli, resi ancor più necessari dal tempo perduto.

 

Bisogna mettere mano a una vera Filiera-Futuro: incentrata, su lavoro, giovani, donne, tecnologia e sostenibilità. La nostra parola d’ordine centrale è proprio: sostenibilità. Declinata in tre accezioni diverse.

 

Sostenibilità generazionale

Primo: serve più sostenibilità generazionale, basta furti di futuro ai giovani. Noi non crediamo nei prepensionamenti e in Quota100. Vogliamo imprese in cui lavorino insieme più over 65enni e più under 35enni. Insieme, ripeto. Lo Stato ci dia una mano sgravando il tutoring nelle imprese, e nei contratti col sindacato noi estenderemo dovunque la possibilità alle coorti di lavoratori più esperti di affiancare i più giovani nella trasmissione di saperi e competenze, che scuola e università purtroppo non danno ancora. Il diritto alla formazione continua deve diventare un vero e proprio diritto-dovere fondamentale della persona, da porre al centro della vita di ogni impresa e di ogni contratto.

 

Sostenibilità sociale

Secondo: serve più sostenibilità sociale. E allora con il sindacato impegniamoci nei contratti innanzitutto a pagare ai giovani assunti più del minimo contrattuale, non c’è affatto bisogno del salario minimo per legge il cui effetto sarebbe solo di disincentivare tutto ciò che oggi sempre più dobbiamo condividere e realizzare insieme al sindacato nei contratti, come il welfare aziendale e il diritto alla formazione permanente. Dobbiamo pagare di più i giovani, e dobbiamo estendere la facoltà delle lavoratrici di poter conciliare i tempi di lavoro con le cure parentali, dobbiamo estendere i congedi parentali su base di parità di genere. Pensiamo per esempio all’estensione del congedo di maternità da 5 a 8 mesi con indennizzo all'80%, come già facciamo in Assolombarda con i nostri dipendenti. Noi lo facciamo già, volontariamente, senza chiedere nulla allo Stato. Pensiamo alla deducibilità totale dei costi dei servizi a sostegno per il rientro nel mondo del lavoro: asili nido, baby sitter e via continuando. Non pensiamo solo alla questione economica, svezzare i figli è una questione di civiltà. E dobbiamo fare meglio nella battaglia contro le morti sul lavoro.

 

Per me e per tutti gli imprenditori ogni vittima sul lavoro è un dolore personale, una sconfitta dei valori per cui operiamo ogni giorno. Da due anni a questa parte, dopo anni di continua discesa, il tragico bilancio ha ripreso a salire: 1.148 nel 2017, 1.218 nel 2018, e sono stati 685 nei primi 8 mesi di quest’anno. Lo Stato deve impegnarsi di più perché l’architettura della vigilanza e delle ispezioni resta barocca. Ma noi nelle nostre imprese dobbiamo fare meglio per la formazione diffusa, la manutenzione continua degli impianti, l’automazione di ogni sistema interdittore in presenza di anomalie dei processi produttivi. È una battaglia di umanità, prima che di giustizia. La sostenibilità sociale che spetta alle imprese deve vederci protagonisti attivi.

 

Ma fatemi anche rilevare un allarme più esteso. Come della scuola e dell’università sin qui la politica si occupa per lo più pensando a chi ci lavora invece che a chi le frequenta, allo stesso modo vediamo un rischio aprirsi per il sistema sanitario nazionale. Se continuiamo a impostare il giusto contenimento dei costi prescindendo dalla qualità e risultati dei servizi offerti, e chiediamo ai privati di limitare la loro eccellenza nella diagnostica precoce e nella clinica con tecnologie avanzate, in una società sempre più di anziani otterremo una sola cosa: una sanità più ingiusta con i deboli e più indifferente ai pazienti con patologie più gravi. 

 

Sostenibilità ambientale

Infine, terzo: serve più sostenibilità ambientale. Ma su questo vogliamo essere chiari. La svolta europea e dell’ONU nella lotta al cambiamento climatico è ottima e benvenuta. Ma essa va affrontata con una visione fondata su competenze accurate. Non voglio fare paragoni con il programma pluriennale varato dalla Germania, che aveva alle spalle un’esperienza fiscalmente molto onerosa di transizione energetica verso nuove fonti, rivelatasi non solo toppo dispendiosa ma inadeguata a tagliare il carbone oltre al nucleare.

 

Ma anche in Italia la sostenibilità ambientale va interpretata in chiave di cambio di paradigma tecnologico e industriale, prima di accelerare in una serie di microsussidi al consumo di cui abbiamo letto intenzioni e anticipazioni in queste settimane. Con tutto il rispetto, il problema fondamentale italiano non è oggi sussidiare il sapone sfuso o la pasta alla spina nella grande distribuzione. Il problema numero uno nell’ambito non energetico è chiudere integralmente il ciclo del trattamento dei rifiuti, industriali e urbani.

 

Rifiuti che continuiamo a esportare nel mondo pagando miliardi, quando non sono 22 poi gestiti dalle ecomafie, come attestato da moltissime inchieste delle Procure in tutt’Italia. Di conseguenza, caro Signor Presidente, visto che sgravi quali l’ecobonus e il sismabonus nell’edilizia hanno mosso 28 miliardi di investimenti sia nel 2017 sia nel 2018, una misura analoga per la chiusura del trattamento del ciclo dei rifiuti a cominciare da quelli industriali sarà in grado di mobilitare nelle stime oltre 10 miliardi di investimenti privati. Con occupati aggiuntivi stimabili tra le 15 e le 20 mila unità (Fonte Assoambiente). Perché da noi mancano gli impianti necessari e avanzati per trattarli in sicurezza, i rifiuti. E quegli impianti vanno realizzati.

 

Sempre a patto, certo, che poi non se ne blocchi successivamente l’iter, e cioè che gli impianti si facciano davvero. Automotive cuore dell’industria, Conte avochi il dossier Come si vede, non chiediamo alla politica più di quanto noi stessi siamo disposti a dare. Al contrario, ci mettiamo in gioco direttamente, a disposizione con ogni nostra competenza e risorsa. Se si tratta, però, di difendere il futuro produttivo del Paese. Altro non ci interessa. 

 

Produttività, formazione e ricerca, sostenibilità: sono questi i nostri tre obiettivi. E su questo chiunque può contare su di noi. Un’ultima cosa. Serve anche un colpo di reni per riprendere a spron battuto i dossier industriali trascurati dall’Italia nell’Unione Europea. A cominciare da quello dell’automotive, e della dislocazione in corso in altri paesi europei di importanti investimenti asiatici per realizzare in Francia e Germania stabilimenti e produzioni nel settore decisivo delle tecnologie per la trazione ibrida e full electric.

 

I dati più recenti della produzione industriale evidenziano una rilevante frenata dell'automotive italiano, dal -11,4% del quarto trimestre 2018 al -9,5% del primo trimestre 2019, al -9,7% del secondo trimestre. Se consideriamo la produzione di parti e accessori per autoveicoli, il calo è comunque molto forte: -7,8% nel quarto trimestre 2018, -7,2% nel primo trimestre 2019, -5,9% nel secondo. Ricordiamo che l’automotive nel nostro Paese significa circa 6 mila imprese di cui molte PMI, con oltre 156 mila addetti diretti, che diventano 250 mila con l’indotto industriale collegato, cioè il 7% del totale degli addetti dell’intera manifattura italiana. Parliamo di un valore della produzione di 93 miliardi di euro, e, per il contributo record all’export italiano nel 2017 pari in quell’anno a 24 miliardi, di un apporto allo sviluppo del 6% del PIL. La frenata dell’auto tedesca non è solo conseguenza del dieselgate: sul diesel abbiamo celebrato un vero e proprio suicidio del modello su cui si incardinava l’auto europea. La produzione di auto in Europa era pari al 27% mondiale dieci anni fa, oggi è scesa al 20%. Sulla trazione full electric e ibrida Cina e Asia sono in netto vantaggio per monopolio di componenti essenziali alla produzione di batterie, oltre che per tecnologie. E le catene di fornitura dell’intero mercato mondiale dell’auto sono in rapida ridislocazione verso l’Asia.

 

Per questo tumultuoso cambio di paradigma migliaia di imprese italiane e decine di migliaia di occupati si trovano esposti a un rischio temibile, in via di rapida accelerazione. Non è più solo questione del futuro di FCA, e della possibilità che riprenda l’iter di un’aggregazione con Renault e Nissan, che sarebbe stata fondamentale per acquisire sinergie e massa critica. La crisi dell’automotive rischia di diventare la vera crisi industriale dell’Italia. Apprezziamo che il neo Ministro Patuanelli abbia preso in mano il dossier automotive, a lungo trascurato. Ma ci ascolti: l’importanza essenziale dell’automotive per il presente e il futuro dell’industria italiana, la necessità di ritessere la tela di accordi europei che non ci escludano dalle decisioni dei grandi players di settore sostenuti dai propri governi nei rapporti bilaterali, tutto ciò impone che sia lei ad avocare questa vicenda.

 

È Palazzo Chigi, il luogo in cui concentrare attenzione, strategie e misure per scongiurare che, di qui a un anno due, ci si trovi alle prese con un gap che potrebbe diventare incolmabile col resto del mondo ed esiziale per le sue conseguenze, visto ciò che questo settore ha sempre rappresentato per l’industria italiana e il suo contributo complessivo alla crescita del Paese.

 

L’Impresa di servire l’Italia

Mi avvio alle conclusioni. C’è un’ultima considerazione che mi preme fare. Questa volta rivolgendomi non solo alla nostra comunità d’imprenditori, ma in generale a tutte quelle che vengono considerate i ceti dirigenti del nostro Paese. Abbiamo qui a Milano un modello di cooperazione che ha una radice storica antica. Era addirittura il 1198, quando nacque la prima associazione comune di piccoli produttori, commercianti e mercanti milanesi. Prese il nome di Credenza di Sant’Ambrogio. Il metodo-Milano, come è ormai comunemente definito, nasceva allora. Nei secoli sono cambiati regimi e governanti, ma è rimasto fedele a se stesso. Fatto di leale e aperta cooperazione tra istituzioni, governi locali, impresa, lavoro, terzo settore, università, centri di ricerca, soggetti ed enti della cultura e della società civile. È il metodo che ci ha portato a vincere su Expo 2015, prima, durante e dopo l’evento. Fino a Human Technopole che è già nata e sarà eccellenza scientifica e diagnostica del domani, al servizio della sanità pubblica e del benessere di tutti. È il metodo che ci è valso la vittoria per la candidatura alle Olimpiadi Invernali del 2026, insieme a Cortina. E ringraziamo per questo, il Sindaco Sala, il Presidente Fontana, il Presidente del CONI Malagò e lei Signor Presidente Conte. È il metodo che ci vede avanguardia d’Italia in filiere come le scienze della vita, nel design come nell’intelligenza artificiale, nella presenza di multinazionali come nelle start up knowledge intensive.

 

È questo, il cuore del Nord del cui successo non siamo avidi difensori, ma che noi vorremmo esteso a tutta Italia. Un modello che ottiene risultati di eccellenza economica e di forte coesione sociale. Ed è per questo che lanciamo un appello alla società italiana. Credere che sia solo la politica dall’alto, a cambiare l’Italia e a ridarle impulso e crescita, coesione e giustizia, è una pericolosa illusione che non dà risultati. Gli anni alle nostre spalle sono lì a dimostrarlo, con tutte le alternanze e i cambi di governi e di leggi elettorali che abbiamo visto. L’intero mondo dell’impresa, della finanza, delle professioni, del sindacato, dell’accademia, della ricerca, della cultura e del terzo settore devono comprendere che l’indifferenza verso le decisioni pubbliche è un lusso che non ci possiamo più permettere. O costruiamo fondamenta civili ed economiche di un’Italia nuova e più giusta dal basso, noi tutti insieme, oppure un Paese a demografia a picco e bassa produttività non sarà capace della svolta civile che è più che mai necessaria. Una svolta che deve vivere e manifestarsi nei comportamenti di tutti, prima che nelle deleghe alla politica.

 

Non si guida un Paese da un balcone o da una spiaggia, è l’energia dell’intero Paese e la sua decisione a trasformarsi e migliorare ad ogni livello che deve rispecchiarsi nelle decisioni di chi lo guida: nelle garanzie istituzionali dei pesi e contrappesi, in una giustizia al servizio dei deboli, in una politica trasparente nei suoi finanziamenti e comportamenti, misurabile ex ante ed ex post nelle sue decisioni. Perché non sarà la spesa pubblica decisa dalla politica a salvarci, ma uno Stato diverso. E uno stato diverso non si decide dall’alto, vive nei nostri comportamenti, come diceva Aldo Moro “… dobbiamo riscoprire una nuova stagione dei doveri …”. Dobbiamo chiedere alla società civile un grande sforzo comune. Dobbiamo e vogliamo agire perché crediamo in questa Italia. Rimettiamo in sesto tutti insieme dal basso le fondamenta del nostro Paese.

 

Non c’è un Nord contro un Sud. Non c’è un’industria contro i servizi. Non ci sono “grandi” contro “piccoli”. Non ci sono produttori contro consumatori. Diamo vita a un nuovo grande, comune anelito civico e di cittadinanza. 29 Diceva Luigi Einaudi: “… a Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali ignorano in special modo la verità fondamentale: che ognuno di noi deve confessarsi ignorante di fronte al più umile produttore, il quale rischia lavoro e risparmio nelle sue intraprese … ”. Non era e non è antipolitica. È restituire all’Italia il suo senso di dignità e orgoglio, il compito che dobbiamo sentire come nostro, e di tutti i ceti dirigenti italiani. Ed è per questo che abbiamo scelto il nostro titolo dell’Assemblea di oggi. L’Impresa di servire l’Italia. Facciamolo. Restiamo uniti. Tutti. Insieme. Viva l’Italia! Grazie.

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