Francia, Germania e Italia. Un asse tra le imprese per un nuovo Patto di stabilità
L’Ue rompa gli indugi e vari un piano di investimenti almeno da 1.000 miliardi da finanziare anche con Eurobond
Al direttore - Il momento che stiamo vivendo invita ad assumere scelte coraggiose, quantitativamente rilevanti, incisive. In un mondo caratterizzato dalla centralità della questione industriale – con gli Stati Uniti decisi a difendere con i dazi l’industria nazionale e la Cina impegnata a conquistare i mercati internazionali con una manifattura di sempre migliore qualità –, l’Italia si trova a fare i conti con il rallentamento dell’economia tedesca, il calo degli ordini registrato al nord e la recessione che attanaglia il sud. Occorre un faro per la nostra politica e non può essere che l’articolo 1 della Costituzione, che stabilisce per il nostro paese l’assetto di Repubblica democratica fondata sul lavoro. Quel lavoro che è il vero cemento della coesione sociale e a cui dobbiamo rivolgere tutte le nostre attenzioni come fecero nel primo Dopoguerra l’allora presidente di Confindustria, Angelo Costa, e l’allora segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, quando stabilirono che nella ricostruzione dovessero venire prima le fabbriche e poi le case. Perché le fabbriche, oggi potremmo dire le imprese, ora come allora sono il luogo del lavoro e quindi della coesione del paese. Per dirla con il presidente della Bce, Mario Draghi, dobbiamo essere ambiziosi nei fini e realistici nei mezzi. Dobbiamo imparare cioè a guardare lontano e ad avvicinarci alla meta senza deviare dal cammino usando al meglio le risorse di cui disponiamo. E proprio Draghi ci fornisce l’occasione di osare quando invita i governi nazionali e l’Unione nel suo insieme a “fare molto di più per la crescita con cambiamenti strutturali e rilancio della produttività”.
Si tratta di capovolgere il paradigma che ha guidato finora le scelte di politica economica passando dal Patto di stabilità e crescita a un Patto di crescita e stabilità molto più rispondente alle necessità del momento e potenzialmente in grado di vincere l’ansietà che pervade l’Europa e le sue popolazioni. Rompendo gli indugi, l’Unione dovrebbe allora varare un piano di investimenti da almeno 1.000 miliardi – in funzione anticiclica e in grado di potenziare l’anticiclica politica monetaria della Bce – da impegnare in un vasto programma di infrastrutture sovranazionali e nazionali da finanziare con l’eventuale emissione di Eurobond.
Di questi 1.000 miliardi all’Italia ne spetterebbero 100, ai quali andrebbero sommati i 70 che l’Ance, l’associazione dei nostri costruttori, ha calcolato essere già disponibili per avviare le 749 opere censite dall’associazione e bloccate al nord come al centro e al sud. Il paese potrebbe dunque ripartire con una dotazione di 170 miliardi da utilizzare per completare e aprire tutti i cantieri pronti a partire e provocando un impatto sull’occupazione calcolato in Europa in milioni di posti di lavoro. Naturalmente dovremo fare i conti con il fattore tempo – un fattore da sempre sottovalutato in Italia – prendendo spunto dal modello predisposto dallo “sbloccacantieri” e individuando commissari per ciascuna opera con il compito di superare pastoie e lungaggini burocratiche. L’economia diventa la priorità del paese, seconda manifattura d’Europa. E le infrastrutture, in particolare, esprimono la nostra idea di società aperta collegando territori, includendo persone e dando sempre maggiore centralità all’Italia tra Europa e Mediterraneo con una necessaria proiezione verso l’Africa.
Bisogna poi attivare l’ascensore sociale attraverso la formazione dentro e fuori le fabbriche, il rilancio della scuola in ogni sua forma, il potenziamento degli Its. Il paese va rivitalizzato. E accanto al fondamentale e tempestivo investimento in infrastrutture c’è bisogno che riparta l’impianto di Industria 4.0, che sia rifinanziato il credito d’imposta al sud, che si tagli per davvero il cuneo fiscale, si detassino i premi di risultato, si dia impulso a un vero piano d’inclusione dei giovani nel mondo del lavoro con un credibile programma di medio termine.
Tutte cose che Confindustria mette sul piatto della discussione dal tempo delle Assise di Verona e molte delle quali trovano spazio anche nel Patto della fabbrica firmato con i sindacati, mostrando al paese che nei momenti delicati le parti sociali sanno far prevalere le ragioni della collaborazione su quelle del conflitto. Dobbiamo tornare ai fondamenti della politica in Italia come in Europa – a maggior ragione adesso che esprimiamo Nella Commissione Ue una delega importante come l’Economia nella figura di Paolo Gentiloni – e tenere a mente la prescrizione di un protagonista della scena europea come Jean Monnet che si dava spiegazioni economiche per obiettivi politici. Aderenti a questo insegnamento, il 4 e 5 dicembre – e dunque all’indomani dell’insediamento della nuova Commissione europea – le Confindustrie di Francia e Germania (Medef e Bdi) saranno a Roma per inaugurare con noi il primo trilaterale nella storia d’Europa e avviare una collaborazione sempre più serrata nella convinzione che la sfida che ci aspetta non è tra paesi d’Europa ma tra l’Europa e il mondo esterno. Insieme, cercheremo di individuare e rafforzare le condizioni della crescita facendo sponda con i rispettivi governi e all’Unione nel suo insieme perché questa è l’epoca dell’interdipendenza: da soli si può fare molto ma da soli nessuno di noi potrà farcela.
Vincenzo Boccia è presidente di Confindustria
L'editoriale del direttore