L'Europa è tutto meno che una festa di condominio. Note per il BisConte
Chiedere di cambiare le regole europee senza sapere che la flessibilità è già ampia vuol dire (ancora) rendersi inaffidabili
Cambia il governo ma la musica rimane la stessa. Anche l’esecutivo Conte rossogiallo ha posto come obiettivo quello di modificare le regole fiscali europee. Lo ha scritto nel punto 2 del programma: “Il governo si adopererà per promuovere le modifiche necessarie a superare l’eccessiva rigidità dei vincoli europei”. Da questo punto di vista non c’è davvero nessuna discontinuità con il Conte gialloverde che nel Contratto al punto 29 prometteva di rivedere “insieme ai partner europei (ma quali?) l’impianto della governance europea”. L’unica differenza con il passato è che questa volta l’appello è arrivato anche dal Capo dello stato Sergio Mattarella che, attraverso un messaggio al Forum Ambrosetti di Cernobbio, ha auspicato “il riesame del Patto di stabilità e crescita”. L’appello ha ottenuto il plauso della stragrande maggioranza dei partecipanti al Forum ma anche del mondo della politica. Cambiare le regole è certamente possibile ma non è un’impresa facile visto che richiede il consenso di tutti gli stati dell’Unione. Ecco perché, prima di monopolizzare il dibattito pubblico su un tema, quello della revisione dei vincoli europei, che rischia come già avvenuto di arenarsi sul nascere, sarebbe più utile cercare di capire a cosa servono queste regole, cosa succederebbe se venissero ammorbidite e – davvero – sono cosi rigide.
Le regole fiscali sono state introdotte perché l’area dell’euro è un’unione monetaria ma non è un’unione fiscale: i paesi che ne fanno parte condividono la stessa valuta ma non la stessa politica fiscale. All’interno dell’area, la politica monetaria è unica e viene decisa dalla Banca centrale europea a Francoforte, mentre quella fiscale varia da paese a paese e viene decisa dai diciannove ministri delle Finanze. In una simile situazione, le regole servono a rafforzare la convergenza delle diverse economie e a garantire la stabilità dell’intera zona: chi non le rispetta crea un danno a tutti. Per spiegare questa interconnessione tra paesi appartenenti alla stessa area valutaria, il presidente Ciampi usava la metafora del condomino dove il comportamento di un singolo ha inevitabilmente un impatto anche sugli altri. Se l’inquilino del secondo piano organizza feste tutte le sere, oltre al disagio della musica tenuta a alto volume, vi è il rischio concreto che si rompa l’ascensore a causa dell’uso eccessivo. A quel punto, il guasto dovrà essere pagato non solo da chi le feste le ha organizzate ma anche da chi le ha sopportate. Lo stesso tipo di ricaduta (“spillover effect”) avviene tra stati di un’unione monetaria, quando un paese non rispetta le regole e mantiene debito e disavanzo alti e crescenti. I mercati potrebbero decidere di non finanziare più il governo spendaccione per il timore di non essere rimborsati. Potrebbero, però, decidere di penalizzare anche altri paesi, in particolare quelli con finanze pubbliche non in ordine, chiedendo rendimenti sempre più elevati in cambio dell’acquisto di debito pubblico.
Questo è ciò che è accaduto subito dopo lo scoppio della crisi in Grecia quando il disavanzo (che, fino ad allora, era stato truccato) superò il 15 per cento del pil. La crisi ellenica contagiò in poco tempo l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Fu necessario ricorrere a programmi di aggiustamento e finanziamenti europei pari a – rispettivamente – 78 miliardi, 82 miliardi e 40 miliardi di euro. In soccorso a questi paesi sono venuti tutti i membri dell’area dell’euro inclusi i più deboli, come la Slovenia e la Lituania che hanno una ricchezza pro capite inferiore a quella dei greci: un risultato davvero paradossale. L’Italia, in quanto terzo più grande stato, ha contribuito con oltre 60 miliardi che oggi pesano sul debito pubblico. Con regole più flessibili, questo conto potrebbe diventare più salato perché potrebbero aumentare i paesi in situazioni di difficoltà.
L’appello di Mattarella a rivedere il Patto di stabilità e crescita
è piaciuto al club di Cernobbio e Conte l’ha rilanciato nel discorso
per la fiducia. La musica dei rossogialli non è cambiata rispetto
a quella gialloverde. Ancora si chiede ai partner europei di derogare
alle regole comuni che servono come garanzia reciproca
Pertanto, chi come il premier Giuseppe Conte che ieri alla Camera, al dibattito sulla fiducia, ha chiesto meno regole anche per evitare effetti prociclici (anche se Conte dovrebbe sapere che il parametro di riferimento è il disavanzo strutturale che depurato dell’effetto del ciclo economico) deve anche essere pronto a chiedere più soldi ai contribuenti europei – e ovviamente italiani –, in caso di una nuova crisi. Ecco perché sul tema delle regole sarà davvero difficile trovare alleanze: la maggior parte dei leader politici eletti hanno avuto il mandato di non cambiare queste regole per non pagare per l’irresponsabilità altri.
Peraltro, basterebbe leggere con attenzione il Fiscal compact e il Patto di stabilità e crescita per rendersi conto che queste regole, come dice il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, dispongono di “tutta la flessibilità necessaria”.
Le regole – ben spiegate nelle Linee guida pubblicate nel gennaio del 2015 – prevedono infatti ampi margini di flessibilità per un governo che volesse fare maggiore debito per attuare riforme o finanziare investimenti. La logica è la seguente: un paese può aumentare il proprio indebitamento se serve a crescere di più e, quindi, a riportare i rapporti debito/pil e deficit/pil su una traiettoria coerente con il rispetto delle norme europee. La flessibilità, inoltre, può essere ottenuta in caso di eventi eccezionali legati a emergenze nel campo, per esempio, della sicurezza o della salvaguardia del territorio. Fino ad ora, il paese che ha avuto più flessibilità è stato proprio l’Italia. La Commissione Juncker ha concesso ai governi Renzi-Gentiloni oltre 30 miliardi di maggiore indebitamento rispetto agli obiettivi concordati (tabella III.4 del Documento di economia e finanza 2019).
Purtroppo, il margine fiscale accordato non è stato utilizzato per nuovi investimenti, bensì per erogare bonus e disinnescare clausole di salvaguardia e, pertanto, l’impatto sulla crescita è stato assai modesto: inutile dire che quella scelta non ha giovato alla credibilità del paese in sede europea. Il governo Conte gialloverde ha ottenuto per il 2019 quasi 4 miliardi di flessibilità “in relazione ad un piano di interventi tesi a contrastare il dissesto idrogeologico e a misure volte alla messa in sicurezza delle reti di collegamento italiani”. Peraltro, come spiegato nel Def, ulteriore flessibilità sarebbe stata probabilmente ottenuta anche per gli anni successivi (“la Commissione ha preso atto della richiesta dimostrandosi aperta ad accoglierla”). Oltre ai margini per l’obiettivo del disavanzo, Bruxelles ha concesso anche margini per quello del debito. Nel luglio scorso, al fine di evitare una procedura d’infrazione per deficit eccessivo causato dalla violazione del criterio del debito, l’esecutivo Conte gialloverde ha attuato una manovra correttiva per oltre 7 miliardi di euro. Inoltre, si è impegnato a implementare un piano di privatizzazioni per 18 miliardi di euro nel 2019 e 5 nel 2020 pari all’uno e allo 0,3 per cento del pil: una cifra mai realizzata in soli sedici mesi. Eppure, la Commissione ha deciso di chiudere un occhio (anzi due) nonostante nel Rapporto del 5 giugno scorso prevedeva al riguardo entrate pari allo 0,1 per cento per l’anno in corso e nulle per il 2020 – stime che si stanno rivelando assai ottimistiche visto che di privatizzazioni per ora non c’è traccia. A conti fatti, la flessibilità è stata sempre abbondantemente accordata ai governi italiani, inclusi a quelli considerati “ostili all’Europa” come il Conte gialloverde. Pertanto, bisognerebbe smettere di pensare che l’esecutivo Conte rossogiallo beneficerà di ampi spazi di flessibilità fiscale solo perché “è amico dell’Europa”. La flessibilità verrà concessa in cambio di un programma credibile – almeno sulla carta – di riforme e investimenti. Inoltre, verrà concessa – come già avvenuto in passato – in presenza di una fase negativa del ciclo.
Da questo punto di vista, il neo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri dovrebbe fare – sin da subito – un’operazione verità e spiegare che la flessibilità ha poco a che fare con i rapporti di amicizia. Il rischio è di fare passare il messaggio che l’Europa premia “chi è amico”, alimentando, cosi, l’attuale dibattito sulla revisione del Patto di stabilità e crescita. Un dibattito davvero non prioritario considerando la situazione in cui versa il paese.
sindacati a palazzo chigi