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Il debito, la chiave sbagliata per non scontentare nessuno

Lorenzo Borga

Per tornare a far crescere il paese, la politica dovrebbe avere il coraggio di scelte anche impopolari. A partire dal fisco

Quando in Italia si dice che la politica ha ormai perso il proprio raggio d’azione si pensa solitamente al dualismo con l’economia. I politici non possono più incidere sulla realtà perché il loro potere discrezionale è limitato dalle regole dell’economia e della finanza, si pensa. Invece in Italia la politica sembra aver deciso da qualche anno di auto-imporsi forti limitazioni per volontà propria. Si parla di tasse e di soldi in tasca ai contribuenti. La narrazione più che ventennale inaugurata da Silvio Berlusconi di “non metteremo mai le mani nelle tasche degli italiani” (il che, per inciso, è falso) mostra oggi i suoi frutti in tutta la sua potenza: non c’è esponente politico italiano disposto a parlare in pubblico di tassazione senza premettere che lui di aliquote non vuole farne salire neanche una.

 

Il tabù

Sia ben chiaro: il livello di tassazione in Italia è molto alto, secondo i dati dell’Ocse la pressione fiscale è stabilmente 10 punti superiore alla media internazionale e in Unione Europea solo cinque paesi impongono tasse più alte delle nostre (e tutti con una qualità dei servizi offerti maggiore). Tuttavia questa constatazione, oltre a delineare la priorità di un abbassamento progressivo della pressione fiscale, o in alternativa un miglioramento dell’efficienza e della qualità dei servizi pubblici erogati, non giustifica il tabù politico su ogni qualsivoglia tassa e aliquota. I casi recenti, invece, sono innumerevoli. La flat tax di Matteo Salvini si doveva fare a condizione che nessuno ci perdesse neanche un centesimo, e infatti nella proposta di legge era prevista una clausola di salvaguardia per tutti coloro a cui fosse convenuto rimanere nel regime attuale a scaglioni. L’idea, che circola in queste ore, di riordinare le forme di aiuto alle famiglie in un unico assegno per ogni figlio era vincolata all’impegno politico di non far perdere neanche un euro agli attuali beneficiari. Eppure è risaputo che la spesa per assistenza in Italia è mal distribuita: un terzo (pre-reddito di cittadinanza) è destinata al 20 per cento più ricco della popolazione. Anche l’evergreen taglio delle tax expenditures risulta molto complicato politicamente per i piccoli interessi di parte, nonostante più di un terzo dei quasi 600 sconti fiscali previsti non superino i 10 milioni di euro di spesa. Lo stesso sta accadendo sul taglio dei cosiddetti sussidi alle attività dannose per l’ambiente, su cui il governo sta incontrando grandi resistenze dalle categorie potenzialmente colpite. E vogliamo parlare della riforma del catasto, che nella versione di oggi prevede ancora rendite e valori ormai di un’altra epoca? Le uniche forme di tassazione che risultano politicamente digeribili e per questo quasi abusate negli anni sono quelle nei confronti del sistema bancario e assicurativo (che non a caso ha ricevuto una stangata da 4 miliardi di euro quest’anno) e la classica tassa sui giochi d’azzardo, ritoccata al rialzo in ogni legge di bilancio. È invece almeno dal 2014 che non si ricorda un aumento di tassazione diretto sui contribuenti: era il 2014 e il governo Renzi per coprire il neonato bonus 80 euro (altro esempio di strumento fiscale inefficiente e discriminatorio verso i lavoratori non dipendenti, ma impossibile da riformare) decise di aumentare la tassazione sugli interessi da attività finanziare.

 

Come ha fatto notare su Lavoce.info il professor Massimo Bordignon, in Italia abbiamo smesso di concepire riforme strutturali del welfare state e del sistema fiscale, nonostante i vari tentativi. La paura di togliere qualche risorsa a qualcuno e sfavorire questa o quella categoria magari benvoluta dalla stampa (ogni riferimento a Coldiretti è puramente casuale) è troppo alta. Eppure riformare ha i suoi benefici, anche se si facesse a costo zero, cioè non aumentando né riducendo il livello generale di tassazione. Se infatti la riduzione della pressione fiscale è un obiettivo utile, la contrarietà a ogni possibile aumento di singole imposte fa perdere di vista importanti obiettivi di efficienza o equità ugualmente rilevanti. A parità di gettito infatti le tasse non sono ugualmente distorsive dei comportamenti individuali, né impattano sulle stesse persone e classi di reddito. Aumentare alcune imposte tagliandone altre non è un “gioco delle tre carte”, come commentano frequentemente alcuni editorialisti, ma può essere una precisa scelta economica che potrebbe rivelarsi – se giudiziosa – utile alla crescita economica o all’equità sociale (o a entrambe). È il caso delle aliquote Iva – oggi tre, al 4, 10 e 22 per cento – su cui ogni ipotesi di rivalutazione è stata definita dal leader dell’opposizione Matteo Salvini come un “aumento di tasse”, senza se e senza ma. Chiaro che con toni simili i governanti rimarranno sempre refrattari a mettere le mani su questi meccanismi complessi che, se è vero che potrebbero scontentare qualcuno (i consumatori di tartufo, ad esempio, ma anche gli editori dei giornali che godono dell’Iva al 4 per cento), potrebbero rendere anche più trasparenti ed eque le imposte sul consumo.

 

Miglioramento paretiano

I politici italiani è come se avessero inconsciamente assimilato il principio del miglioramento paretiano, come lo chiamerebbero gli economisti. Vilfredo Pareto aveva concepito nel diciannovesimo secolo questo concetto, secondo il quale per aumentare l’efficienza complessiva del sistema serve migliorare la condizione economica di almeno un individuo senza peggiorare quella di nessun altro. Proprio quello che accade se non si vuole scontentare nessun contribuente. Il miglioramento accettabile per i politici italiani sembra quello prospettato da Pareto: si può dare qualcosa in più a qualcuno, solo se nessuno ci perde. Troppo alto sarebbe altrimenti il costo politico. Tuttavia questo principio, benché usato in moltissimi modelli economici, ha diversi punti deboli. Prima di tutto rischia di dimenticarsi dell’equità del sistema: se tutto il reddito fosse in mano a un’unica persona, secondo il principio paretiano non sarebbe conveniente redistribuire un po’ del suo guadagno al resto della popolazione. Inoltre lo stesso concetto potrebbe causare uno spreco di risorse nel sistema economico, e una situazione di apparente efficienza dovuta all’impossibilità di ottenere un miglioramento paretiano in cui qualcuno stia meglio e nessuno ci perda potrebbe non essere comunque la migliore possibile. Proprio quello che sembra accadere in Italia.

 

La via per il debito

E gli effetti sono chiari. Se non si vuole far mai perdere nessuno, o l’economia cresce in modo poderoso e ogni anno sono disponibili risorse aggiuntive da distribuire, oppure - come nel caso dell’economia italiana ferma da tempo – rimane solo un’opzione per farlo: più debito. Elementare, Watson! Vivere al di sopra delle nostre possibilità senza far pagare il conto a nessuno oggi, ma lasciandolo alle future generazioni. Anche da questo adagio è stato probabilmente determinato l’aumento del debito degli ultimi anni e la sua mancata diminuzione all’inizio del nuovo millennio, quando ridurlo era necessario.

 

Gran parte della politica italiana non ha capito (o lo ha fatto soltanto dopo sonore lezioni dallo spread) la prima lezione dell’economia: le risorse sono scarse. Semplificando brutalmente, se si vuole dare qualcosa a qualcuno, bisogna toglierla a qualcun altro. Invece il motto berlusconiano prima, e universale oggi, nega questo principio di base dell’economia. E allora ci si dice contrari a tagliare in modo vigoroso il cuneo fiscale facendo aumentare l’Iva su beni di nicchia e non di base (anche se qualche senso lo potrebbe avere), e anche i partiti di sinistra hanno abbandonato l’idea di introdurre un’imposta patrimoniale per tagliare le tasse sul lavoro. Una mossa – la riduzione del carico fiscale sul lavoro finanziato con un’imposta patrimoniale – caldeggiata anche da Ocse e Fondo Monetario Internazionale, per rendere più produttivo il mercato del lavoro e più equa la nostra economia.

 

Eppure non è andata sempre così. La riforma che ha introdotto l’Irpef a scaglioni del 1972 era stata a lungo preparata con dibattiti e una commissione ci aveva lavorato per due anni. L'Ici è stata introdotta dopo una lunga discussione e una sperimentazione durata un anno. Il ministro Visco ha proposto una massiva riforma alla fine degli anni Novanta, introducendo l'Irap, tagliando altre imposte e rivedendo completamente la tassazione dei redditi di capitale. Anche lo stesso Tremonti aveva la stessa ambizione con il suo libro bianco, poi però in buona parte naufragato. È ora che la politica riacquisti il coraggio di fare alcune scelte impopolari, che possano scontentare qualcuno, ma che riescano a rimetterci sulla carreggiata della crescita e a correggere alcune iniquità del nostro paese. Avere al potere leoni da tastiera ma poi pavidi di fronte a qualsiasi lobby e pressione non serve a niente.

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