(foto LaPresse)

Il business ai tempi del virus

Maurizio Stefanini

Dall’e-commerce alle società degli imballaggi. E poi l’hi-tech, i bestseller, i film azzeccati e ovviamente le aziende che cercano di trovare i vaccini. Lezioni e numeri dalla quarantena

Si può guadagnare col Coronavirus? L’Ocse ha avvertito che si tratta della più grave minaccia all’economia globale dalla crisi del 2008. La società di consulenza londinese Capital Economics ha stimato un costo di almeno 280 miliardi di dollari solo nei primi tre mesi del 2020. Jeff Bezos e Bill Gates ci hanno rimesso 21,9 miliardi di dollari in cinque giorni: come a rispondere allo schema complottista secondo cui sarebbe stato lo stesso Gates ad avere un ruolo nello scatenamento dell’epidemia. E le immagini via satellite hanno confermato come il rallentamento dell’economia cinese abbia contribuito a ripulire in modo per così dire spettacolare il cielo della Repubblica Popolare, con 150 milioni di tonnellate di CO2 in meno immesse nell’atmosfera nelle ultime tre settimane di febbraio rispetto a un anno prima: è una riduzione del 25 per cento delle immissioni cinesi e del 6 per cento di quelle mondiali. Per la Cina potrebbe esserci addirittura la prima contrazione dell’economia dai tempi della Rivoluzione Culturale.

 

Dopo una settimana nera le Borse si sono riprese, poi hanno iniziato a ondeggiare. Lunedì, in seguito alla guerra dei prezzi del petrolio tra Arabia Saudita e Russia, sono affondate di nuovo. Martedì hanno registrato una lievissima ripresa. Però quando la Borsa si è ripresa a spingere è stata la farmaceutica: più 3,1 per cento in Europa. E anche l’hi-tech: un più 3,4 per cento, forse per l’annunciato boom del telelavoro. 


Boom dal settore biomedicale. Più 10 per cento del settore dei trasporti di emergenza. Più 5 per i produttori di guanti in lattice malaysiani


 

Non necessariamente chi guadagna in questi casi è perché ci specula. Lo dimostra la storia della Amuchina. Fondatore il 20 dicembre 1919 di un piccolo laboratorio farmaceutico ad Ancona, nel 1940 Francesco Angelini crea a Roma la società “Aziende Chimiche Riunite Angelini Francesco” (Acraf), che nel dopoguerra decolla grazie al ricostituente anti-anemia Dobetin, a base di vitamina B12. Col tempo dalla farmaceutica e dalla salute si è allargata alla meccanica, al vino e a profumi, con attività anche in Spagna, Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria e Romania. Tra i marchi famosi distribuiti dalla holding i pannolini Lines, gli assorbenti Lines Lady, gli analgesici Monent e Tachipirina. Ma, soprattutto, nel 2000 la Acraf acquisisce il marchio Amuchina: un prodotto inventato negli anni ‘30 col diluire la quantità di cloro presente in candeggina e varechina, in modo da poterlo usare anche per disibfettare gli alimenti. Creata contro la Tbc, l’Amuchina diventa popolare dopo l’epidemia di colera di Napoli del 1973, attribuite alle cozze crude. E adesso è stata oggetto di un tale accaparramento che il Codacons ha fatto un esposto, denunciando rincari fino al 650 per cento. Ma la Angelini Pharma in un comunicato ha subito risposto che “l’Azienda è totalmente estranea ad alcuni ingiustificati rincari rilevati dai consumatori e segnalati anche dai media, verso i quali esprime una ferma condanna”: “Angelini Pharma ritiene opportuno precisare che il prezzo ai propri canali diretti di tutti i prodotti a marchio Amuchina è rimasto invariato e non ha subito alcuna variazione rispetto al periodo pre-epidemia da Coronavirus”. Ovviamente per guadagnarci ma appunto senza farci rimettere i consumatori e per bloccare la speculazione la Angelini ha dunque incrementato la produzione nello stabilimento di Ancona e ha focalizzato la fabbrica di Casella, in Val Scrivia, esternalizzando la produzione di detergenti. L’obiettivo è raddoppiare la quantità di Amuchina disponibile, anche con assunzioni.

 

Altra società che ha aumentato la produzione per combattere la speculazione: la Spasciani. Sede a Origgio, in provincia di Varese, si presenta come “leader nella produzione di dispositivi di protezione delle vie respiratorie”. Fondata nel 1892 da Riccardo Spasciani a Milano, la sede si è poi trasferita per 46 anni a Baranzate, per infine approdare nella sede attuale. E nel 2019 ha acquistato la spagnola Nueva Sibol. Durante le guerre mondiali e coloniali la Spasciani rifornì di maschere antigas e occhiali protettivi il Regio Esercito, ma la ditta non trascurò gli impieghi civili: dalle maschere antipolvere agli autoprotettori ad ossigeno per uso minerario e pompieristico. E adesso è una delle cinque aziende italiane che producono il tipo di mascherine respiratorie andata a ruba per via del Coronavirus partito da quella città di Wuhan che, ironia della sorte, era il maggior esportatore al mondo di quel tipo di protezione. Discendente del fondatore, Andrea Spasciani ha triplicato la produzione, ma ha rivolto in tv un appello decisamente inconsueto: “non comprate le mia maschere”. “Malgrado il nostro prodotto non sia adatto per essere venduto a privati”, ha spiegato, “dobbiamo fronteggiare un vero e proprio boom di richieste che rappresentano un problema anche sul fronte della mera gestione. La produzione è passata su più turni e comunque è già tutta prenotata per diversi mesi”. Inoltre le sue “maschere e prodotti di alta gamma” non hanno come target “i privati e le farmacie ma i distributori tecnici di dispositivi di protezione personali”. “Ovviamente in questo periodo ci chiedono materiali davvero un po’ tutti: singoli cittadini, istituzioni e ovviamente farmacie e attività commerciali”, spiega. “Siamo passati da un turno di produzione a tre”, nella fabbrica spagnola dove fanno le mascherine tipo “FFP2” o “FFP3”. In tempi normali disponibili in ferramenta e usate soprattutto da imbianchini, falegnami e muratori. “Ovviamente non possiamo rifornire i privati cittadini anche se le richieste sono molte e continue”. Il problema è anche che potrebbe finire da un momento all’altro la materia prima. Dunque, Spasciani dice che “il grande pubblico non dovrebbe comprare questi prodotti. E’ meglio che le poche scorte che ci sono siano dedicate a chi veramente si trova a rischio di contagio. I medici, gli infermieri, chi guida le ambulanze, non certo chi deve andare al supermercato a fare la spesa”. 

 

C’è pure chi per fabbricare mascherine riconverte le fabbriche di televisori. E’ la giapponese Sharp, che nel 2016 fu acquistata dalla multinazionale taiwanese Foxconn. Primo fornitore mondiale di componenti elettroniche ed elettriche, quarta firma mondiale dell’informatica e prima datrice di lavoro a Taiwan, Foxcann fornisce i propri stabilimenti per la parziale fabbricazione e l’assemblaggio a firme come Apple, Dell, HP e Nintendo. L’offerta pari a 5,25 miliardi di euro prevalse anche sulla controproposta di un Fondo cui partecipava lo stato giapponese, e servì a Foxcann per poter fornire i display come hardware proprietario. Ma adesso ha deciso di destinare alle mascherine uno stabilimento a Kameyama, nella prefettura di Mie, almeno per tutto marzo. Ritmo di produzione: da un minimo di 50.000 mascherine al giorno a un massimo di mezzo milione. Col governo giapponese che ha deciso di razionare le vendite e di limitare l’acquisto ad un solo pacco di mascherine per cliente, display e tv potranno aspettare. Tra le altre fabbriche di mascherine che starebbero aumentando la produzione ci sarebbe poi la Pic Solution di Bernate (Como): società Artsana, che è quella dei prodotti Chicco e degli aghi indolore. E poi le cinesi Yuanqin Purification Technology Co, Shanghai Dragon e Tianjin Teda, che starebbe riconvertendo alle mascherine fabbriche di scarpe. E anche la americana 3M, la britannica Reckitt Benckiser e l’indiana Harkrishan Medicals. 


Quando la Borsa si è ripresa, a spingere è stata la farmaceutica: più 3,1 per cento in Europa. E anche l’hi-tech: un più 3,4 per cento 


Ilaria Capua è stata tra le prime a dire che in Italia per prevenire il contagio si sarebbe dovuto passare il più possibile al telelavoro. A questo punto è tornato a rilanciare con forza l’idea Domenico De Masi: il sociologo che aveva fondato una Società Italiana di Telelavoro (Sit) già 40 anni fa. Anche Bloomberg fa osservazioni del genere. Si prospettano affari per piattaforme di videoconferenza come l’americana Zoom, e anche a ciò può collegato il già citato più 3,4 per cento del comparto hi-tech. De Masi spiega che in una società avanzata almeno il 60 per cento dei lavori può essere fatto da casa. Ma in Italia si sta ancora al 3, contro un 40 per cento dei Paesi Bassi.

 

Ovviamente tutte le imprese che lavorano sui vaccini per il Coronavirus hanno avuto forti rialzi in Borsa. Vir Biotechnologies, clinica di San Francisco specializzata nel settore immunologico, nei primi 40 giorni dell’anno ha visto il valore delle sue azioni raddoppiare, portando la capitalizzazione di mercato vicino ai tre miliardi. Il tutto per aver annunciato che stava “lavorando per verificare rapidamente se degli anticorpi monoclonali (mAb) si legano e neutralizzano il 2019-nCoV, conosciuto come il coronavirus di Wuhan”. Inovio pharmaceuticals di Plymouth Meeting (Pennsylvania), Moderna di Cambridge (Massachusetts) e Novavax di Gaithersburg (Maryland) sono invece decollati dopo che la organizzazione no profit pubblica-privata norvegese Coalition for Epidemic Preparedness Innovations ha detto che avrebbe destinato fino a 11 milioni di dollari in finanziamenti a Inovio e Moderna per sviluppare vaccini contro il coronavirus. Inovio in premercato è salita del 25 per cento dopo aver reso noto lunedì di stare velocizzando l’iter per la distribuzione di un vaccino contro il coronavirus. Moderna, che aveva annunciato un vaccino a febbraio, è salita del 24,18 per cento in sei mesi. Novavax era salita del 113 per cento a gennaio. Del team globale di sperimentazioni sul coronavirus fanno poi parte la Co-Diagnostics di Salt Lake City, che a gennaio ha fatto anche l’80 per cento in più in una sola seduta, e la svizzera Roche, che è ora crescita del 3,1 per cento: stessa proporzione che ha avuto in Europa il comparto farmaceutico nel suo complesso.

 

Chi ci ha guadagnato in Cina sono state nell’immediato soprattutto le società che hanno approntato i nuovi kit di diagnosi. La Jiangsu Bioperfectus Technologies Company ha sfondato il limite del 20 per cento di rialzo in Borsa per due giorni consecutivi, mentre An Gene Company, Xilong Scientific Company e Shanghai Kehua Bio-Engineering Company sono cresciute del 10 per cento. Il boom dal settore biomedicale in senso stretto si estende alle attività collegate. Più 10 per cento al settore dei trasporti di emergenza. Più 5 per cento per i produttori di guanti in lattice malaysiani. Ma chi comunque è costretto a stare a casa vedrà più tv. Proprio per i confinati da Coronaviris Netflix sembra aver pensato la docu-serie Pandemic. Sei puntate dedicate a medici e scienziati che hanno combattuto contro le pandemie negli ultimi 102 anni, dalla Spagnola a oggi.

 

E per sopravvivere a casa ci si aspetta anche più espansione di e-commerce e imballaggi. Anche se per il momento, lo abbiamo ricordato, Bezos ci rimette.

 

In testa alle classifiche di vendita dei libri è poi “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” di David Quammen. Uscito nel 2012, edito in italiano nel 2014 da Adelphi, questo libro di un giornalista e reporter per il National Geographic si occupa di zoonosi: il modo in cui le malattie saltano da una specie animale all’altra. L’autore ha seguito sul campo molti dei “cacciatori di virus” che di recente hanno cercato di ricostruire questi passaggio, ed ha visitato molti paesi a rischio. La divulgazione e l’informazione si accompagnano dunque a un taglio di reportage quasi alla Indiana Jones, ma tutto sommato il libro era passato inosservato. Evoca quasi il banchetto estremo cui Indiana Jones è invitato in India durante il secondo film della saga il quarto capitolo: “Una cena alla fattoria dei ratti”. Al di là delle recenti polemiche, effettivamente in Cina il ratto del bambù è considerato una squisitezza, ed è allevato in una filiera più o meno regolare. Quammen racconta appunto di una visita a un allevamento razionalmente organizzato, e di una scorpacciata di ratti arrosto che dice di aver trovato squisiti. Proprio alla fine del racconto di quella tavolata si lancia però in una profezia jettatoria: “C’è un’altra vicenda terribile da sviscerare, ma non riguarda, probabilmente, il virus della SARS. E’ ipotizzabile che la prossima Grande Epidemia (il famigerato Big One) quando arriverà si conformerà al modello perverso dell’influenza, con alta infettività prima dell’insorgere dei sintomi. In questo caso si sposterà da una città all’altra sulle ali degli aerei, come un angelo della morte”. A otto anni di distanza la profezia sembra avverarsi, e il libro diventa best-seller.

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