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Il prezzo e la guerra (commerciale) del petrolio al tempo del coronavirus

Massimo Nicolazzi*

La domanda del greggio che cala implica che si debba produrre di meno. Ma ci sono un paio di intoppi

A Febbraio, ci dicono, le importazioni di petrolio su scala mondiale erano diminuite rispetto al Febbraio 2019 di 4,2 milioni di barili/giorno. Grosso modo il 10% della domanda mondiale di importazioni è sparita dal tavolo. La previsione è che i consumi di petrolio per il 2020 saranno inferiori a quelli del 2019. Sarebbe la seconda volta in questo secolo (l’altra fu il 2009 rispetto al 2008). Nel frattempo pare pure che ci stiano calando le emissioni in atmosfera di un 20%. Nonostante le apparenze, meno consumi e meno emissioni non sono nell’immediato una buona notizia. Non c’entrano nulla la transizione energetica, le rinnovabili, o il nostro farci virtuosi. Nel 2009 ci sono calati i consumi per merito della crisi post Lehman Brothers; e del calo di adesso dobbiamo dir grazie, e quasi in esclusiva, al coronavirus. Le due volte che ci è riuscito di calare è stato per via prima di recessione; e per via poi di infezione.

 

Cala la domanda; e però più che proporzionalmente crolla il prezzo. Di botto ti scende di oltre il 30%. Dice che è perché i russi hanno rifiutato un accordo auspicato dai sauditi su ulteriori tagli alla produzione; e che i sauditi in risposta si sono messi a pompare tutto il pompabile e pure a fare sconti ai clienti. E che poi a farne le spese sarebbero anzitutto gli americani, che a trenta dollari al barile il saudita ci va a nozze ma lo shale chiude e butta via le chiavi. Tutto grosso modo corretto.  E però di regola commentato in guisa di complotto, e di “guerra” dei prezzi, e di uso “politico” del petrolio. Che magari commentato così rimbomba e pure vende; però anche giusto narra e non fotografa.

 

 

Proviamo a guardarci dentro. La domanda che cala implica che comunque rispetto a ieri si deve produrre di meno e lasciare più capacità produttiva inutilizzata (l’alternativa è produrre petrolio che non vendi e tenerlo a magazzino; il che non può essere scelta politico commerciale ma solo scelta speculativa – nel 2009 una grande investment bank si comprò una qualche petroliera carica e la tenne mesi all’ancora in attesa di una risalita del prezzo; e dato che il prezzo risalì ci fece pure un sacco di quattrini). Si tratta giusto, sembrerebbe, di programmare meno produzione. Qui però un paio di intoppi. Il primo è che l’independent americano cow boy e individualista non è programmabile. O, meglio, l’unica cosa che lo programma è, a posteriori, il prezzo. Uno dei tre grandi players (quelli con capacità produttiva superiore ai 10 milioni di barili/giorno) è in realtà la somma di tanti piccoli produttori individuali istituzionalmente impediti a partecipare di un qualche accordo per tentare a priori di difendere volumi o prezzi. Poi in secundis ci sarebbe che l’OPEC come cartello non ha mai funzionato, o comunque non benissimo. Non è uno strumento efficace di politica; o, per dirla con Adelman (uno dei più importanti economisti del petrolio del ‘900) “no more than a convenient forum for the constituent nations”. Magari l’accordo tra loro per limitare la produzione lo trovano; però non è storicamente detto che sia l’accordo giusto, e neanche che tra di loro lo rispettino. Insomma si scrive OPEC ma si legge Arabia Saudita; che gli altri sono giusto di neanche sicuramente fedele contorno. 

 

 

Il precedente grande sprofondo del prezzo fu nel 2015/2016. Giù fin dalle parti dei 28 dollari (che magari risuccede anche adesso). Poi però col 2017 ripartì al galoppo, raggiunse e addirittura superò quota 80, e infine con zig zag quotidiani si stabilizzò grosso modo a 50/60, che è numero che andava e va bene a tutti. Ci dicono che fu (anche) perché infine trovarono un accordo sui tagli alla produzione che servì a difendere il prezzo. Vero che l’accordo ci fu e che aiutò; ma non fu OPEC. Erano arrivati i russi. E avevano deciso insieme ai sauditi che tra loro si potevano parlare di petrolio in una stanza diversa ed acusticamente isolata da quella in cui (non) si parlava di Iran e Siria.

 

La lezione del 2017 è stata che perché qualcosa si muovesse non bastava l’OPEC. Ci volevano Russia e Arabia assieme.  Poi però arriva il 2020 e la storia non si ripete. I due si dividono e, siccome racconta la vulgata, vanno alla guerra. Quel che è essenzialmente cambiato da allora è che, per paradosso, la situazione è estremamente più grave che nel 2017. Troppo grave perché si vada d’accordo. Da un lato c’è che prima che sparisse la domanda era sparita l’offerta. Iran e Libia a export praticamente zero fanno a loro volta grosso modo il 10% dell’offerta che scompare. Grosso modo 4 milioni di taglio della produzione, molto più di quello su cui Sauditi e Russi si siano mai messi d’accordo. E nonostante questo il prezzo non fa un plissé. 10% di offerta in meno; e lui non sale. Prima che sparisse la domanda erano già in sovraproduzione. Poi gli è sparita la domanda; e però la differenza rispetto al 2017 è che ancora non si vede il punto di caduta. Un rallentamento dell’economia lo puoi modellare, e modularci sopra la domanda per cercare di capire di quanto devi diminuire la produzione per difendere i prezzi, e se ti conviene. Ma qui e oggi la domanda non è funzione di ciclo economico; è in funziona di ciclo epidemiologico. Il prezzo funzione del virus, e del suo contenimento. Non esiste previsione di taglio che non sia, allo stato, uno sparo nel buio.

 

Non hai la minima idea del che fare per difendere i prezzi. E dunque quel che ti resta da difendere sono i volumi, cioè la tua quota di mercato. Ciascuno per sé e Dio per tutti. I Sauditi sono in ciò i massimi esperti. All’inizio degli anni ’80 dell’altro secolo per difendere i prezzi scesero da quasi 12 a 2,5 milioni di barili/giorno di produzione. Poi si stancarono e si misero a vendere a supersconto. Il prezzo passò progressivamente da 28 a 8 dollari/barile (arrotondo); e però loro intanto si erano ripresi la loro quota di mercato. Oggi sono quelli col minor costo di produzione; e dunque pompano per mettere fuori mercato gli altri. Politica? Sì, ma commerciale. Provate a pensare anziché a Americani, Russi e Sauditi ai signori Bianchi, Rossi e Viola. Tutti e tre producono bamboline; e il mercato delle bamboline è crollato e non ci si immagina di quanto e per quanto ancora crollerà. Di regola aumenterà la quota di mercato del sig. Viola, che è quello col costo di produzione più basso; e il primo a rischiare di fallire sarà il Bianchi, che a lui costano uno sproposito.

 

Il prezzo del petrolio (anche) ai tempi del coronavirus lo fa il mercato, siccome quello delle bamboline. Poi sopra magari ci ricamiamo all’infinito; ma è solo perché, come tutti sanno, il petrolio è infinitamente più sexy.

 

* Massimo Nicolazzi è docente di economia delle fonti energetiche Università di Torino

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