Lazar Samardzic (foto LaPresse)

Olive #31

Con Lazar Samardzic è bastato l'occhio

Giovanni Battistuzzi

Il trequartista dell'Udinese è stato acquistato per pochi milioni dal RasenBallsport Leipzig. Com'è stato possibile per i tedeschi, di solito attentissimi al talento dei giovani, sbagliare? Per certi giocatori i dati sono superflui

Se c’è una cosa che unisce appassionati di calcio e addetti ai lavori è la considerazione che se un calciatore a vent’anni se ne va dal RasenBallsport Leipzig per pochi spicci (e tre milioni di euro ora come ora se non sono pochi spicci non ci si va lontano) è perché o c’è un grosso problema dietro – di solito caratteriale –, oppure perché in un modo o nell’altro non era granché e tre milioni sono anche troppi. Pensare che si possano essere sbagliati a Lipsia, è qualcosa che non passa per la testa a nessuno, perché se c’è una cosa che hanno insegnato gli ultimi dieci, quindici anni dello sport è che il reparto sportivo della Red Bull difficilmente sbaglia, quasi sempre vi vede molto più lungo di tutti gli altri.

I mesi e le partite però passano e c’è una domanda che inizia a farsi insistente: perché un calciatore come Lazar Samardzic è stato ceduto per tre milioni di euro dal RasenBallsport Leipzig?

E questo è un bel quesito, soprattutto perché Lazar Samardzic era arrivato a Lipsia dall’Herta Berlino per due milioni di euro appena un anno prima e con una serie di improperi da parte di almeno una mezza dozzina dei più prestigiosi club europei che s’era accorti di lui presto, ma comunque troppo in ritardo rispetto al club griffato Red Bull. Era pronto a mangiarsi il campo e le gerarchie Lazar Samardzic. Normale per uno che ha passato infanzia e adolescenza a giocare con gente più grande di lui. Non è andata così. Undici mesi dopo il tedesco di origini serbe aveva già lasciato Lipsia direzione Udine. L’Udinese aveva alzato il telefono, aveva chiesto informazioni su Lazar Samardzic, aveva chiesto se era in vendita e al sì del RasenBallsport Leipzig aveva in poco tempo trovato l’accordo.

 

Lazar Samardzic (foto LaPresse)
   

C’era un tempo nel quale in Friuli non era diverso che in Germania. Anzi. L’Udinese prendeva parte del meglio che c’era in circolazione senza nemmeno bisogno di avere alle spalle un impero tipo Red Bull. E quello che chiamano scouting basato sui big data si chiamava osservazione e non serviva nemmeno un computer, bastava un telefono, anche a gettoni, e il numero giusto.

 

Il tempo sembrava aver reso obsoleto il modo nel quale si costruivano le squadre a Udine. Che tutto girava attorno ai dati e solo i dati sembravano dire la verità sui giocatori. Eppure Lazar Samardzic non era arrivato a Lipsia per i dati e neppure a Udine. L’avevano visto giocare, l’avevano trovato capace e soprattutto futuribile, l’avevano preso. Al RasenBallsport Leipzig i dati avevano detto che il ragazzo di Berlino difficilmente sarebbe diventato uomo: non si prendeva abbastanza responsabilità, nei momenti salienti prendeva la decisione sbagliata. L’idea che sette partite tra i grandi e una ventina tra i pari età potessero non essere un campione non sufficiente per giudicare un giocatore, non è però loro venuta in mente per fortuna dei bianconeri.

Perché se c’è una cosa che Lazar Samardzic ha dimostrato in quasi due stagioni in Friuli è che le responsabilità se le sa prendere (pur non essendo un capopopolo) e che nei momenti decisivi spesso fa la cosa giusta. E che ogni tanto, e nemmeno troppo raramente, la sua testa spinge i piedi, soprattutto il sinistro, a fare ciò che non è scontato, a sparigliare il consueto: tipo l’esterno sinistro che ha portato in vantaggio l’Udinese contro la Cremonese.

Perché ogni tanto c’è qualcosa che i numeri non dicono, sebbene quasi sempre abbiano ragione, e questo qualcosa è quello nel quale eccelle Lazar Samardzic: prendere palla, fare contenti i tifosi con un tocco d’artista, fare la cosa sbagliata per fare la cosa giusta. Ci può fare niente. Lo chiamano istinto, talento, estro, la capacità di vedere la via di fuga di una situazione complessa lì dove tutti non vedono nulla.

     


      

Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce), nella quindicesima Moise Kean (Juventus), nella diciasettesima Rasmus Hojlund (Atalanta); nella diciottesima M'Bala Nzola (Siena); nella diciannovesima Federico Dimarco (Inter); nella ventesima Cyril Ngonge (Hellas Verona); nella ventunesima Riccardo Saponara (Fiorentina); nella ventiduesima Perr Schuurs (Torino); nella ventitreesima Ola Solbakken (Roma); nella ventiquattresima Riccardo Orsolini (Bologna); nella venticinquesima Henrikh Mkhitaryan (Inter); nella ventiseiesima Rolando Mandragora (Fiorentina); nella ventisettesima Zlatan Ibrahimovic (Milan); nella ventottesima Nemanja Radonjić (Torino); nella ventinovesima Mattia Zaccagni (Lazio); nella trentesima Maxime Lopez (Sassuolo).