Danilo Toninelli a Torino visita la nuova zona pedonale di Via Monferrato (foto LaPresse)

L'algoritmo Toninelli

Luciano Capone

Il cambiamento che si manifesta come immobilismo, il velleitarismo al posto della competenza, le grandi aspettative trasformate in grandi delusioni. La parabola del ministro che incarna sei mesi di governo

“Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini… ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Mauro Coltorti”. Quando la sera del 27 maggio, dopo il veto del presidente Mattarella su Paolo Savona all’Economica, Di Maio registra su suggerimento del casaleggiano Pietro Dettori il video minaccioso contro il capo dello stato (“Non finisce qui!”) ed elenca i nomi dell’abortito “governo del cambiamento”, lui non c’è. Dei tre che avevano gestito le consultazioni al Quirinale – gli altri due erano Di Maio e il ministro della Salute Giulia Grillo – Danilo Toninelli da Soresina era l’unico a non far parte della squadra di governo. Eppure nella legislatura precedente era stato un uomo di punta del partito, un volto televisivo del M5s, l’esperto di leggi elettorali (il Toninellum) e riforme istituzionali, ma nella faida interna che si era scatenata nei giorni delle trattativa con la Lega era uno dei big rimasti fuori, insieme a Laura Castelli.

 

All’inizio non era neppure nella lista dei ministri, a un certo punto sembrava il Salvini del M5s, ma poi è diventato un’altra Castelli

Il veto su Savona sembrava far precipitare la situazione verso le elezioni anticipate e addirittura l’impeachment di Mattarella, ma in poche ore tutto torna al suo posto: Giovanni Tria va al posto di Savona, per Savona viene creato il ministero degli Affari europei e Toninelli recupera in extremis la poltrona al Mit, dopo un ballottaggio con Laura Castelli, attuale sottosegretario al Mef, con cui ancora oggi è in corso una sfida all’ultimo colpo per la palma di miglior gaffeur dell’esecutivo. La Castelli era partita con un grande vantaggio, avendo fatto in campagna elettorale figure di palta memorabili come quando ammise candidamente, davanti a una platea inferocita di commercialisti, di aver esercitato abusivamente la professione di commercialista, oppure come quando da Lilli Gruber disse – fra la risata bonaria di Carlo Cottarelli – che bisognava fare un referendum per uscire dall’euro “ma io non so cosa votare”.

 

Toninelli invece era partito in sordina, tanto che il sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, il teorico leghista della flat tax in campagna elettorale e difensore del reddito di cittadinanza ora che è al governo, neppure sapeva che fosse lui il suo superiore: “Toninelli non è ministro”, ripeté per tre volte in televisione. Ma nelle settimane successive l’ex carabiniere cremonese diventa uno dei ministri più popolari del governo, soprattutto quando tra giugno e luglio scoppia la crisi dei migranti, e il ministro delle Infrastrutture contende al ministro dell’Interno il ruolo di “uomo forte” contro l’immigrazione: apre e chiude i porti a mezzo stampa, attacca le ong “illegali” e poco ci manca che invada Malta (“Se non è in grado di presidiare la sua area marittima ce la prendiamo noi”).

 

A un certo punto arriva fin dove neppure Di Maio ha mai osato: si scontra con Salvini sulla chiusura dei porti, roba di sua competenza, per far sbarcare diversi immigrati da tempo bloccati su una nave, pur senza mettere in discussione la linea politica di fondo. La sua ascesa sembra inarrestabile e raggiunge l’apice ad agosto, dopo il tragico crollo del ponte Morandi a Genova, che costa la vita a 43 persone. Gli italiani apprezzano la risposta immediata e lo stile risoluto di Toninelli che, a differenza di Salvini che se la prende per l’ennesima volta contro l’Europa, indica immediatamente un colpevole: Autostrade. Pagherà tutto, caro e subito. Pagherà i danni e la demolizione, pagherà la ricostruzione ma non metterà neppure una mattonella, e poi il governo le toglierà la concessione, le autostrade verranno nazionalizzate, torneranno al popolo e verranno abbassati pure i pedaggi.

    

I problemi riguardano le grandi opere e le “analisi costi-benefici” che non arrivano. E agitano le città del nord, gli imprenditori e la Lega

E’ a questo punto, all’apice della sua popolarità, che iniziano i problemi. Pensa di poter diventare l’anti Salvini, oppure l’altro Salvini, gira tutti i talk tv, si lancia in dichiarazioni roboanti e usa massicciamente i social network per costruirsi un’immagine da leader. Ma la sovraesposizione fa emergere il vero Toninelli. Un bravo ragazzo, ex carabiniere e assicuratore, appassionato e generoso, ma non proprio una cima. E così, piano piano, gaffe dopo gaffe, da possibile statista diventa una macchietta.

   

I segnali erano visibili da tempo, già da quando a maggio, durante le trattative di governo, mostrava i selfie con sguardo “concentrato”, oppure ad agosto quando dopo il crollo del ponte di Genova mandava selfie “con l’occhio vigile” dalle vacanze e rispondeva ai critici che andare al mare con la famiglia “si chiama amore, ma forse per certa gente è solo un’utopia”. Ma la rabbia e il dolore per la tragedia di Genova coprivano tutto. Poi è arrivata la foto in posa e sorridente da Vespa con il plastico del ponte crollato, gaffe seconda solo a quella dell’ad di Autostrade Giovanni Castellucci che fa crollare il modellino del nuovo ponte. Dopo c’è il nuovo ponte che secondo Toninelli sarà “un luogo vivibile, un luogo di incontro in cui le persone si ritrovano, in cui le persone possono vivere, possono giocare, possono mangiare…” e poi l’elogio del tunnel del Brennero che non esiste e alla cui realizzazione si oppone il suo partito e poi il decreto “scritto con il cuore” e tante altre uscite che hanno proiettato il ministro nel mondo della comicità involontaria, con un’esplosione di cloni e imitatori: dal Toninelli “entusiasta” di Maurizio Crozza alla versione cartoon dei “Tre ninelli” di Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Ubaldo Pantani, fino alla versione cartonata della Cgil che ha usato una sua sagoma in una tavola rotonda a cui Toninelli non si è presentato perché non partecipa ai dibattiti.

 

Dal punto di vista della comunicazione è un vero disastro, ma il problema è che sul terreno politico – vedi la gestione a dir poco travagliata del decreto su Genova – le cose non vanno meglio. Le questioni aperte sul tavolo sono tante e la strategia del ministro è a dir poco confusionaria. In questo senso la figura di Toninelli incarna l’azione del governo: le grandi aspettative trasformate in grandi delusioni, la distanza siderale tra investimenti annunciati e opere bloccate, il cambiamento che si manifesta come immobilismo, l’improvvisazione preferita alla pianificazione, il velleitarismo al posto della competenza.

  

Ora il suo nuovo consigliere è il prof. Ugo Arrigo, economista thatcheriano, che in realtà ha poche idee in comune con questo governo

La novità è la nomina, come suo consigliere personale, del professor Ugo Arrigo, economista esperto di trasporti dell’università Bicocca di Milano (che di questi temi ha spesso scritto anche sul Foglio). Arrigo ha preso il posto di Gaetano Intrieri, l’uomo inserito da Toninelli nella famosa Struttura di missione che si occupa delle analisi costi-benefici e che aveva il compito di seguire il dossier Alitalia. Intrieri era entrato nell’occhio del ciclone perché era stata scoperta una sua condanna per bancarotta fraudolenta, proprio per il fallimento di una compagnia aerea, ma Toninelli l’aveva difeso definendo quella condanna “equiparabile a un atto di coraggio”. Poi il Foglio ha scoperto che aveva anche un curriculum taroccato (non ha preso alcun master al Mit di Boston, non ha lavorato da McKinsey e non è un professore) costringendo Intrieri alle dimissioni. Al suo posto, dicevamo, Toninelli ha scelto Arrigo, che è un economista vero, liberale-thatcheriano, molto stimato e con un curriculum solido, da tempo impegnato sulla vicenda Alitalia.

 

Il problema è che dopo il caso Intrieri il dossier Alitalia è stato sottratto al Mit ed è passato al Mise, sotto la completa supervisione di Di Maio (o chi per lui al ministero). Le competenze di Arrigo però non si limitano ad Alitalia: le sue idee e i suoi suggerimenti potrebbero essere molto utili al ministro. Il problema è che sono quasi tutte incompatibili con il governo, visto che l’economista ligure è favorevole alle liberalizzazioni nel trasporto pubblico locale (era ad esempio per il referendum su Atac a Roma), è contrario al salvataggio di Alitalia da parte di Ferrovie dello stato perché ne affosserebbe il bilancio (“L’idea dei treni con le ali non si può proprio sentire”, diceva) e già definiva il prestito-ponte che adesso il governo vuole estendere e su cui c’è un’indagine dell’Antitrust europeo “palesemente un aiuto di stato”, è favorevole a uno “spezzatino ferroviario” che divida il monopolista Fs in quattro aziende (rete ferroviaria, treni a lunga distanza, trasporto regionale, e trasporto merci) per liberalizzare e aprire alla concorrenza privatizzando le Frecce. Sarebbe un vero “cambiamento”, un progetto moderno anche compatibile con il piano di “privatizzazioni” presentato all’Europa che però è al momento vuoto. Il problema è che il governo vuole rafforzare il monopolista Ferrovie facendogli comprare addirittura Alitalia e anche qualche azienda decotta di autobus.

   

Il dossier Alitalia gli è stato tolto, del ponte di Genova se ne occupa Bucci, la revoca della concessione di Autostrade si è impantanata

Le idee di Arrigo più compatibili con quelle del governo riguardano la valutazione thatcheriana – cioè una verifica stringente sull’opportunità dell’uso di risorse pubbliche – per le opere pubbliche, la revoca/decadenza della concessione di Autostrade per inadempienza e lo scorporo di Anas da Ferrovie. Ma anche qui la situazione è piuttosto impantanata. Per quanto riguarda Anas, Toninelli ha richiesto e ottenuto le dimissioni dell’amministratore delegato Gianni Armani proprio perché il governo vuole separare l’integrazione Ferrovie-Anas e voluta dall’ad dimissionario. Ma proprio ieri c’è stata la seconda convocazione per la decisione del nuovo cda e l’azionista Ferrovie non si è presentato. Ma non solo governo e Ferrovie non si mettono ancora d’accordo sul nuovo cda di Anas, ma nella manovra non c’è alcuna norma per separare Anas da Ferrovie, che è proprio il motivo per cui è azzerato il cda.

  

Sul capitolo Autostrade è invece tutto in alto mare. Usando l’ultima gaffe su Genova – se nel frattempo non ne ha fatta un’altra – del ministro Toninelli, si può dire che la concessione verrà revocata “tra pochi mesi, al massimo anni”. Subito dopo la tragedia il ministro e il presidente Conte avevano annunciato l’immediata decadenza della concessione con Aspi e la nazionalizzazione dell’infrastruttura. Non è mai stata fatta chiarezza sul tipo di procedura che il governo intendeva prendere. A metà settembre, nei giorni prima del parto del “decretone” su Genova, circolavano varie ipotesi di intervento, tra cui l’inserimento della revoca nel decreto. La via della legge-provvedimento, e cioè dell’esproprio, aveva però dei piccoli inconvenienti: esonerava Autostrade dal pagamento dei costi di ricostruzione del ponte visto che le veniva sottratta la concessione, obbligava lo stato a pagare un sostanzioso indennizzo ed aveva molte criticità di legittimità costituzionale. Poi Toninelli aveva lanciato una sua personalissima ipotesi di nazionalizzazione della A10, ovvero del solo tronco Genova-Ventimiglia. Ma lì i problemi erano ancora più grandi: non solo la concessione di Aspi è intera e non può essere spezzettata, ma un pezzo della A10 è di Gavio e quindi le concessioni da revocare sarebbero state due. Alla fine non se n’è fatto nulla e tutta la procedura di “caducazione” – così la chiamava il prof. Giuseppe Conte – è ferma al 30 agosto. Cioè a quando Autostrade ha inviato le sue risposte (controdeduzioni) alle contestazioni del ministero. Da allora non si sa più nulla. E’ un po’ come se, usando sempre un’altra gaffe di Toninelli, quella del selfie dal barbiere, il ministro avesse “revocato la revoca della concessione”. La cosa positiva per Toninelli sul ponte di Genova è che, come per Alitalia, non se ne deve occupare più di tanto: ora, di fatto, è tutto in mano al commissario Marco Bucci. I problemi aperti riguardano le grandi opere e le famose “analisi costi-benefici” che tardano ad arrivare. E che fanno agitare le città del nord come Torino (Tav) e Genova (Terzo valico e Gronda), gli imprenditori e gli alleati della Lega.

   

C’è un momento che rappresenta questa frattura e che, simbolicamente, rappresenta la fine della parabola di Toninelli. E’ il confronto a distanza, a metà ottobre, all’assemblea dei costruttori dell’Ance con l’uomo forte del governo con cui solo un paio di mesi prima si confrontava alla pari, Matteo Salvini. Il leader della Lega ascolta tutta la relazione dei padroni di casa, raccoglie le lamentele degli imprenditori, fiuta la platea e parla a braccio per cinque minuti. Applausi scroscianti. Toninelli invece arriva in chiusura di giornata, senza aver ascoltato gli interventi, sale sul palco e inizia a leggere con voce robotica un testo scritto. La platea si distrae, qualcuno si alza, altri parlano dei fatti loro, nessun costruttore ascolta il ministro delle Infrastrutture. Un po’ come era accaduto in campagna elettorale a Torino nel confronto con la grillina Laura Castelli davanti ai commercialisti, quando la grillina sabauda con un gaffe fece scatenare l’ira del pubblico, Salvini ha rubato la platea a chi giocava in casa. Toninelli voleva essere il Salvini del M5s e invece è diventato un’altra Castelli.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali