Il Ponte Morandi di Genova, che verrà ricostruito secondo il progetto di Renzo Piano (Foto LaPresse)

Non sarà uno stato progettista a costruire le infrastrutture

Riccardo Gallo

Il governo ha ideato una struttura statale per le opere pubbliche. Ecco perché non funzionerà 

Roma. In Italia dal 2000 al 2015 gli investimenti in opere pubbliche si sono dimezzati, per reazione a corruzione e Tangentopoli, per la scarsa praticabilità prima della Legge Obiettivo e poi del Codice degli appalti, per il contenzioso infinito che nasce dal contrasto tra la cosiddetta cittadinanza attiva e la Pubblica amministrazione. In quei quindici anni i costruttori sono usciti per fame dalla tana domestica. Alcuni si sono internazionalizzati, sia pur restando fragili perché avevano pochi soldi da rischiare. Altri non ce l’hanno fatta, le loro società sono in crisi o scomparse. L’abbiamo scritto sul Foglio il 31 ottobre scorso. Altra conseguenza: le grandi compagnie di progettazione partecipate dallo stato si sono atrofizzate dall’Anas alla Snamprogetti, all’Italferr (nei primi anni Duemila fiore all’occhiello delle Ferrovie). Tra il 2016 e il 2018 i governi Renzi e Gentiloni hanno destinato ingenti risorse alle grandi opere, 140 miliardi per i prossimi quindici anni, eppure gli investimenti sono calati lo stesso, quest’anno con un meno 8 percento nel primo semestre.

 

Le ragioni, prima del declino e poi della mancata ripartenza nonostante gli stanziamenti, sono molte. L’Ance, associazione dei costruttori, le ha esaminate e ha mandato al governo altrettante proposte per venirne fuori subito, senza aumentare i fondi e senza violare le regole del mercato, ma comprimendo i tempi con un forte aumento dell’efficienza di tutto il sistema. In estrema sintesi. Primo: rimuovere gli ostacoli alle procedure di spesa e per questo tra l’altro eliminare passaggi inutili al Cipe. Secondo: sbloccare i cantieri e per questo riportare il subappalto in linea con le prescrizioni comunitarie, applicare in modo più sensato i criteri di aggiudicazione dell’offerta che risulti economicamente più vantaggiosa, migliorare la verifica se e quanto un’impresa sia capace di eseguire (direttamente o in subappalto)  opere pubbliche, valorizzare meglio il merito delle imprese serie, ripristinare la possibilità di ricorrere all’appalto integrato con l’obbligo di un progetto definitivo, impedire alle imprese in procedura fallimentare di partecipare alle gare.

 

Terzo: obbligare chi senza gara ha ottenuto concessioni autostradali (e proroghe) perché affidi a terzi il 100 per cento dei lavori di propria competenza, prevedere termini ridotti in materia urbanistica ed espropriativa e potenziare gli effetti della conferenza dei servizi. Quarto: riscrivere il codice dei lavori pubblici e accompagnarlo con un regolamento attuativo. Il governo aveva promesso un nuovo codice degli appalti entro settembre 2018, poi ha tardato, ora ha predisposto un disegno di legge delega che rimanderà la palla al governo, con tempi diciamo biblici.

 

Se le risorse stanziate tra il 2015 e il 2018 sono rimaste sulla carta, è soprattutto perché i comuni si sono dimostrati incapaci di cantierare e spendere. Per loro, è sempre difficile organizzare e svolgere correttamente una gara per appaltare opere infrastrutturali. Questo governo ha aggirato l’ostacolo, invece di affrontare il problema alla radice, ha pensato bene di rendere possibili appalti senza gara, innalzando l’importo massimo consentito per l’affidamento diretto dei lavori, da 40 mila euro a 150 mila. La principale conseguenza è che così la concorrenza sul mercato si riduce drasticamente, a danno degli stessi Comuni e dei cittadini contribuenti. Altra mancata risposta di questo governo riguarda le città e la loro riqualificazione urbana.

 

C’è una seconda ragione per la quale i comuni non sanno aprire i cantieri. È la loro incapacità a partire da un progetto esecutivo serio. Spesso affidano direttamente lavori supportati da un idea vaga, incompiuta, non da un progetto. Perciò dopo nascono imprevisti ed extra costi, grazie ai quali i costruttori fanno i loro margini. Per risolvere la cosa, con il maxi-emendamento del 26 dicembre, il governo ha ideato una struttura statale di progettazione di opere pubbliche. L’idea sembra una risposta valida alla citata atrofizzazione delle compagnie di ingegneria partecipate dallo stato. E invece le obiezioni sono molte.

 

Innanzitutto, si sottovalutano i tempi necessari per far funzionare un’azienda nuova, con nuovi assunti, magari ingegneri di primo pelo. Sono tempi lunghi, forse compatibili con quelli biblici del ddl delega, non certo con il bisogno di colmare il gap infrastrutturale del paese. In secondo luogo, una moderna politica della competitività dice che lo stato deve curare i presupposti perché le imprese vincano nel mondo, cioè deve formare bene gli ingegneri, deve alzare l’asticella degli standard di qualità dei progetti e dei materiali impiegati in cantiere, non deve invece produrre materiali e progetti. Tutte le volte nella storia che uno stato l’ha fatto, è finita molto male. Perché solo per il ponte di Genova e per Renzo Piano il governo riconosce il valore di un progettista privato?

 

* Università La Sapienza di Roma

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