Marzo 1967: a venti mesi dall’apertura del traforo del Monte Bianco viene festeggiata la milionesima vettura in transito, l’Alfa Romeo Duetto della cantante Marisa Sannia (foto LaPresse)

Il buco nero delle costruzioni

Stefano Cingolani

Un settore industriale abbandonato a se stesso. E il blocco delle grandi opere l’ha trascinato nel baratro

Sulla Lancia Flaminia presidenziale, il generale De Gaulle, in piedi diritto come un fuso, torreggiava accanto a Giuseppe Saragat che pure non era certo uno scricciolo. Scortati dai corazzieri motociclisti e circondati dalla folla plaudente, i due capi di stato inauguravano in territorio italiano il tunnel che perfora il ventre del Monte Bianco. Era il 16 luglio 1965, dopo soli tre giorni ecco già una coda di auto di qua e di là dal confine: in venti mesi passa la milionesima vettura, un’Alfa Romeo Duetto guidata dalla cantante Marisa Sannia, detta “la gazzella di Cagliari”, che faceva girare la testa sia agli adolescenti sia ai più attempati come Sergio Endrigo. Quell’immagine solenne, anzi trionfante, è rimasta nella storia, una storia ormai rinnegata. Retorica ed enfasi a parte, l’Italia del miracolo e la Francia della riscossa si rispecchiavano nella grande opera che guardava a un’Europa in marcia verso il suo futuro di pace, progresso, unità.

 

Slittato il contratto di programma con il ministero: l’Anas ha annullato negli ultimi mesi lavori per un valore di 600 milioni

L’idea del tunnel fu italiana, il progetto nacque appena finita la guerra e nel 1946, quando le macerie del secondo conflitto mondiale coprivano ancora mezza Europa, l’ingegner Dino (vero nome Secondino) Lora Totino diede il primo colpo di piccone, a proprie spese, sul versante italiano. Imprenditore tessile, appassionato di montagna, venne fatto conte di Cervinia da Benito Mussolini per la funivia tra il Breuil e il Plateau Rosa della quale nel 1932 si fece bello il regime fascista. Perforare il massiccio del Bianco sembrava la sua estrema bizzarria. Nel 1947 ottenne dal comune di Chamonix venti ettari di terreno sul versante francese. Due anni dopo venne firmato un accordo tra Roma e Parigi. I lavori cominciarono solo nel 1959, nel 1962 fu abbattuto l’ultimo diaframma, tre anni dopo tutto era pronto per la solenne cerimonia. Quei tempi non torneranno più, e nemmeno quelli del traforo stradale del Frejus, parallelo al tunnel ferroviario che risale a cento anni prima, bloccato la settimana scorsa dai gilets jaunes. La Tav è in attesa dal 1990, quando François Mitterrand convinse Giulio Andreotti che bisognava collegare Lione e Torino con una linea ferroviaria ad alta velocità. Le traversie del progetto sono arcinote, adesso si aspetta l’ennesimo calcolo costi-benefici perché i gialli non si fidano di quel che hanno fatto gli altri, o forse un referendum perché i verdi non si fidano di quel che fanno i gialli. Nell’attesa che lo psicodramma in Val di Susa si consumi per esaurimento degli interpreti, opere medie o persino piccole, forse altrettanto importanti, languono, si bloccano e trascinano con sé le prospettive economiche del paese.

 

In lista d’attesa ci sono il terzo valico dei Giovi (oltre due miliardi di euro e tremila occupati) che, promette Danilo Toninelli, “andrà avanti” anche se lo considera un “dossier avvelenato”; la linea ad alta velocità Verona-Padova (circa un miliardo e 1.700 occupati); la mitologica statale jonica, un progetto approvato nel 2014 e mai partito: siamo ormai a 54 mesi, un investimento inoperoso di 684 milioni di euro, mille posti di lavoro vuoti. Ma sono solo alcuni tra i casi più eclatanti, per non parlare della Tav che divide anche i gialli dai verdi. L’Anas (la seconda stazione appaltante insieme a Rete ferroviaria italiana) ha ammesso di aver annullato negli ultimi mesi lavori per un valore di 600 milioni di euro, perché è slittato il contratto di programma 2016-2020 con il ministero delle Infrastrutture che, nelle mani di Toninelli sembra l’autobus guidato da Groucho Marx. Tutto è fermo quindi, al punto che il governo Conte, proprio mentre annunciava di voler puntare sugli investimenti in modo da rabbonire la commissione di Bruxelles, ha spostato al 2020 un miliardo e 800 milioni di euro destinati alle infrastrutture stradali.

 

Sull’industria delle costruzione s’è abbattuto un vero e proprio effetto domino che ha fatto cadere una dopo l’altra le imprese italiane, a cominciare dalle grandi. Condotte è in amministrazione straordinaria, Grandi Lavori Fincosit (quella che partecipa all’alta velocità ferroviaria Milano-Genova) in concordato, Cmc (il colosso delle cooperative rosse) è in profonda crisi, così come la Trevi, ma più di tutte rischia Astaldi, numero due in Italia dopo Salini Impregilo. Le banche sono in allarme, a cominciare dalle più grandi: Unicredit, Intesa, Bpm e Bnp Paribas. I cinque maggiori costruttori italiani finiti in un vicolo cieco hanno cantieri aperti per 9,4 miliardi di euro. I debiti raggiungono, secondo alcune stime, gli otto miliardi, oltre cinque solo per i gruppi maggiori.

 

La francese Vinci ha un fatturato di 40 miliardi di euro, la spagnola Acs di 34. Il colosso italiano, Salini Impregilo, non arriva a 7

La reazione a catena comincia con la società Condotte d’acqua, che a gennaio ha chiesto il concordato in bianco per bloccare le istanze di fallimento dei creditori, a cominciare dalle banche, verso le quali la società è esposta per quasi 800 milioni, e dai fornitori, ai quali deve circa un miliardo di euro. All’azienda non mancano i lavori, il portafoglio ordini è arrivato a sei miliardi di euro, ma non riesce a incassare dalle pubbliche amministrazioni, mentre le opere realizzate o in corso di realizzazione sono bloccate (dal Mose alla città della salute a Sesto San Giovanni, dall’alta velocità di Firenze al tunnel del Brennero che non è stato ancora realizzato checché ne dica Toninelli). Intanto s’abbatte sui vertici la mannaia giudiziaria: il 13 marzo scorso viene arrestato Duccio Astaldi, presidente del consiglio di gestione, accusato di corruzione dalla procura di Messina per l’appalto dell’autostrada Siracusa-Gela.

 

Ricca di storia e di intrighi, la società viene fondata nel 1880 e quotata alla Borsa di Milano quattro anni dopo. Rimasta fino al 1970 nelle mani del Vaticano e della Bastogi, il vecchio salotto buono del capitalismo italiano, diventa la vera regina delle opere pubbliche (tra l’altro sarà lei a costruire in quattro anni il ponte Morandi aperto nel 1967) e su di essa si getta come un falco Michele Sindona che la piazza all’Iri, intascando un bel gruzzolo. Privatizzata nel 1997, viene acquistata dal costruttore romano Paolo Bruno. Alla sua morte nel 2013 la proprietà passa alla figlia Isabella, sposata a Duccio Ansaldi che nel 2000 aveva lasciato l’azienda di famiglia passata sotto il controllo del cugino Paolo.

 

Ma è la Pubblica amministrazione ad aver provocato la caduta delle Condotte. Guardando il bilancio 2016 salta all’occhio l’indebitamento di circa due miliardi a fronte di un patrimonio della società di 214 milioni e il calo, nel giro di un anno, da 231 a 149 milioni delle disponibilità liquide. I crediti vantati nei confronti della Pubblica amministrazione ammontano a 867 milioni di euro, un buco che nel 2017 ha continuato a crescere fino a sfiorare il miliardo. Cantieri bloccati, opere che non finiscono mai, varianti su varianti, pagamenti che non arrivano. L’esempio più calzante arriva da Firenze dove Condotte guida Nodavia, il consorzio che undici anni fa ha vinto l’appalto per la realizzazione della stazione sotterranea Foster. I lavori sono stati bloccati nel 2013 da un’inchiesta della procura che ipotizzava il traffico illecito di rifiuti e che ha portato al sequestro della “talpa” Monnalisa. La questione è ancora irrisolta. Altro esempio è la nuvola di Fuksas a Roma, per la quale Condotte ha vinto una causa contro la Eur Spa che deve ancora versare 190 milioni di euro. A questo si aggiungono i rallentamenti dei cantieri del Terzo valico a causa dell’inchiesta giudiziaria e di una serie di altri contenziosi.

 

Il 28 settembre tocca alla Astaldi annunciare che intende accedere al concordato preventivo “con riserva” in attesa di presentare un piano di sopravvivenza della società che preservi la continuità aziendale. Standard & Poor’s declassa il debito, considerando che la situazione sia “equivalente a un default, perché l’applicazione della legge fallimentare italiana prevede la sospensione dei pagamenti relativi alle posizioni in essere, a meno di espressa autorizzazione del tribunale, nel periodo in cui si cerca l’accordo con i creditori. Perciò – scrive la società di rating – ci aspettiamo che Astaldi non onorerà il suo debito con i pagamenti previsti”. Ma come ha fatto la società a finire sull’orlo del baratro? La situazione finanziaria è precipitata dopo il mancato aumento di capitale da 300 milioni approvato lo scorso giugno dall’assemblea degli azionisti, quindi dalla famiglia Astaldi, che possiede quasi il 53 per cento del capitale sociale e oltre il 67 per cento dei diritti di voto. La ricapitalizzazione si inseriva all’interno di un più ampio piano di rafforzamento da oltre due miliardi. Il consorzio di garanzia aveva posto come condizione l’arrivo di una offerta vincolante per la cessione da parte di Astaldi della propria quota del 33,3 per cento nella concessione per il terzo ponte sul Bosforo. Ma la crisi turca ha mandato tutto a monte. “Il ritardo – scrivono gli analisti di S&P – nella vendita della quota del terzo ponte sul Bosforo, complicato dall’estrema volatilità della lira turca e dalla crisi del paese, ha accentuato i problemi di liquidità del gruppo. Ciò mette in pericolo la realizzazione del piano di rafforzamento della società, perché il via libera al rifinanziamento è connesso al procedere delle cessioni delle attività in concessione”.

 

Banche in allarme. I cinque maggiori costruttori italiani finiti in un vicolo cieco hanno cantieri aperti per 9,4 miliardi di euro

La Turchia non basta: c’è anche il Venezuela, dove Astaldi ha tre progetti ferroviari, con l’Instituto de Ferrocarriles del Estado, che sta sviluppando attraverso la partecipazione a iniziative consortili con altri partner. L’esposizione lorda di Astaldi verso l’Instituto pari a 433 milioni, nella trimestrale al 31 marzo scorso, è stata svalutata “in via prudenziale e con un atteggiamento cautelativo” per 230 milioni. Astaldi avrebbe potuto decidere comunque l’aumento di capitale, anche senza consorzio di garanzia, la famiglia, però, non se l’è sentita. Il progetto di risanamento societario prevedeva che, proprio nell’ambito dell’aumento di capitale progettato, la famiglia scendesse al 50,2 per cento dei diritti di voto, così da mantenere comunque il controllo, mentre il gruppo giapponese Ihi diventava azionista con una quota del 18 per cento. Ma, saltato l’aumento, sono decaduti anche questi accordi. Nel frattempo, è stata tirata in ballo Salini Impregilo, partner di Astaldi in numerosi progetti. Allo stato attuale, potrebbe rilevare alcuni asset, non l’intera società. Il nodo d’altra parte, resta sempre lo stesso: chi ripaga i debiti?

 

Nella trappola delle opere pubbliche cade anche la Cooperativa muratori e cementieri di Ravenna, un mito della Lega, che domenica 2 dicembre ha chiesto il concordato preventivo. A far precipitare la situazione, secondo il documento approvato dal consiglio d’amministrazione è stato l’atteggiamento di alcune banche, tra le quali la Unicredit, le quali hanno cominciato a chiedere di onorare i debiti, in particolare i prestiti obbligazionari per 575 milioni di euro. Con una riduzione dei volumi produttivi (da 549 a 514 milioni di euro) e una caduta degli utili, la Cmc si è trovata a corto di denaro liquido, mentre la posizione finanziaria netta è peggiorata di 4,8 milioni rispetto a un anno prima. Anche le coop rosse, dunque, alzano bandiera bianca. Così come un altro marchio prestigioso nella Romagna industriale: il gruppo Trevi, fondato a Cesena nel 1957 da Davide Trevisani, specializzato in scavi, fondazioni e consolidamento del terreno. Sui conti pesa un indebitamento di 720 milioni verso le banche (una trentina tra le quali le principali a cominciare da Unicredit), anche nel suo caso non mancano le commesse, manca la liquidità. Bain Capital Credit si è detto disposto a un salvataggio, ma deve farsi da parte la famiglia Trevisani i cui componenti sono divisi.

 

La trappola delle opere pubbliche. Cade Condotte, cade anche la Coop muratori e cementieri di Ravenna, un mito della Lega

Sono vicende che rivelano la fragilità di un settore industriale che tutti dichiarano strategico mentre è stato abbandonato a se stesso. Proprietà familiare o cooperativa, governance tradizionale, fame di capitali, tutto ciò impedisce di tenere il passo con i colossi stranieri europei come la francese Vinci con un fatturato di 40 miliardi di euro, la spagnola Acs con 34 miliardi, la tedesca Hochtief con 22 miliardi o la svedese Skanska con 16 miliardi. Salini Impregilo è l’unica ad aver compiuto un vero salto modernizzatore, anche sul piano della internazionalizzazione e della gestione manageriale, nonostante ciò non arriva a 7 miliardi di euro. Il mondo delle imprese, insomma, ha reagito con lentezza alla grandi trasformazioni che hanno trasformato un ramo domestico in una grande industria mondiale. Tuttavia la responsabilità maggiore ricade sullo stato non sul mercato.

 

La crisi delle costruzioni e delle infrastrutture è un primato italiano. Sarà vero che la Germania non investe e senza dubbio una ebbrezza neo-mercantilista l’ha spinta ad accumulare un attivo di bilancia estera fuor di misura, pari all’otto per cento del prodotto lordo. A soffrire, si dice, non sono solo i suoi vicini, a cominciare dagli esportatori italiani, ma gli stessi tedeschi. Eppure, entro la fine dell’anno Berlino avrà messo in circolo oltre 58 miliardi di euro per le opere infrastrutturali. Il paese è rimasto indietro nei trasporti, dalle autostrade ai treni, ma ha varato un piano strategico fino al 2030 che prevede una spesa di quasi 270 miliardi di euro. Può fare di meglio, la Germania? Probabilmente sì, ma in ogni caso ha investito più di tutti gli altri, seguita dalla Spagna (ben 450 miliardi) e dalla Francia. In Italia gli investimenti infrastrutturali sono scesi del 26 per cento in dieci anni, perdendo circa 11 miliardi di euro. Per le infrastrutture nel 2004 si spendeva il 3 per cento del pil, l’anno scorso l’1,9 per cento. Dal 2008 sono stati persi 600 mila posti di lavoro e sono fallite 120 mila aziende di ogni dimensione. La distinzione tra grandi e piccoli, cavallo di battaglia pentastellato, si rivela più che mai artificiosa. Mentre i No Tav manifestano con il viatico di Beppe Grillo, s’allarga un buco che mina l’intera economia italiana. Luigi Di Maio glissa nei suoi incontri al ministero con imprenditori e sindacati, il cittadino Toninelli gongola entusiasta. “No alle grandi opere”, friniscono i grillini, ma è proprio il blocco delle grandi opere ad aver trascinato nel baratro l’intero settore delle costruzioni. E’ una storia tutta fatta in casa come il cibo che piace a Matteo Salvini, non c’è da gettare la colpa sull’odiata Angela Merkel né sul denigrato Emmanuel Macron. Ci siamo fatti del male da soli e ancor più ce ne stiamo facendo.