La variante di valico sull'A1 tra Milano e Napoli (foto Imagoeconomica)

Gli sciacalli dell'immobilismo

Antonio Pascale

Pochi ricordano quando luce e gas non arrivavano in tutte le case e per certi viaggi l’alta velocità era solo un sogno. Le grandi opere non sono un mostro ma un’opportunità che ci ha cambiato la vita. Promemoria antideclinista per tornare ad avere fiducia nello stato e nel futuro

C’era una volta un luogo dove le persone (una buona fetta della popolazione) non si fidava delle grandi opere e preferiva al contrario quelle piccole, anonime, soprattutto di fattura artigianale. C’erano delle ragioni precise che allontanavano le persone dalle grandi opere e le avvicinavano a quelle piccole. Fatto sta che sia le grandi sia le piccole opere erano viziate da una profonda sfiducia verso lo stato. Dunque, nello stesso tempo il singolo individuo, proprio perché non si fidava dello stato (che le organizzava), preferiva costruire una piccola opera, anonima, di fattura artigianale, evitando tuttavia di rispettare le regole dello stato (delle quali regole, appunto, non si fidava). Questo luogo io l’ho abitato, e per anni la mia vita è stata divisa tra desiderio di grandi opere e dunque fiducia verso lo stato e sfiducia verso lo stesso, quindi desiderio di costruirmi una piccola opera, autarchica e di fattura artigianale.

 

Quei contadini, di cui tutti fra poco avrebbero idealizzato il ruolo, potevano evitare di caricarsi sulle spalle la bombola del gas

Ci tengo a sottolineare che non è stato sempre così, anzi la suddetta descrizione è relativa a un periodo storico, metà anni Ottanta metà anni Novanta. Molto prima di allora, una buona fetta di popolazione aspettava le grandi opere, eccome. Difatti parecchi cittadini, più poveri e tuttavia speranzosi in un futuro migliore, erano così contenti quando gli operai dell’Enel, a seguito di una grande opera, realizzata costruendo meravigliosi tralicci, così poetici nella luce del tramonto, come graffiti nell’orizzonte, tralicci come giganti, bussole o fari che apparivano tra l’alta vegetazione di un bosco, e porgevano al traliccio successivo i fili dell’alta tensione e quindi, con estrema delicatezza, i fili scivolavano via, superavano dirupi e pendii, acquitrini, paludi, specchi d’acqua, dolce e salmastra… parecchi cittadini, dicevo, erano così contenti quando quegli operai collegavano i fili ai contatori e finalmente portavano energia elettrica nelle lande desolate.

  

La sfiducia nelle grandi opere, che pure cambiano la vita, ha prodotto un ripiegamento su se stessi. Piccole opere individuali intraprese spesso senza rispettare le regole

 

Altri operai, dopo aver costruito e interrato tubi – in fondo un’operazione più semplice di quella su descritta – con molta creanza estirpavano, ma solo momentaneamente, interi filari di frutteti, conservando tuttavia il pane di terra attorno alle radici, così che non seccassero, e dopo aver scavato la traccia, riposto i tubi, ripiantavano i filari in tempo per vedere sbocciare i primi fiori a primavera e poi aspettare maggio per raccogliere le drupacee precoci e finire a metà luglio con le pomacee, di modo che quei contadini, di cui tutti fra poco avrebbero parlato, idealizzando il loro ruolo, non solo potevano cucinare semplicemente girando una manopola – e non invece accedendo fuochi nella notte – ma soprattutto evitavano la fatica di caricarsi a spalla o su un Ape (scassato e polveroso) le bombole del gas. Tra l’altro brutte a vedersi, per non parlare di quando, consumato il carico di gas, venivano riposte sotto tettoie di eternit, rendendo così il paesaggio più squallido e disordinato.

 

Un tempo, forse era il tempo del soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali, le grandi opere erano invocate

In quel tempo gli operai delle grandi opere erano accolti con amore, e tante feste. Ancora mi ricordo certe lande desolate diventare colorate a suon di luminarie, applausi di gioia e non certo di circostanza, e bottiglie di vino, oltre che pane e salame, e maiali ammazzati e tutto questo solo per donare agli operai stanchi il giusto ristoro: momenti così poetici che sembrava di essere capitati nell’Odissea, quando una comunità accoglie il forestiero con i doni perché appunto quel forestiero porta un’ambasciata, e insomma, nella fattispecie, portava luce, acqua e gas. E sì, c’è stato un tempo in cui i cittadini non facevano barricate contro una trincea di pochi centimetri scavata nella terra, non gridavano contro gli alberi sradicati – anche perché tempo di finire i lavori e gli stessi alberi venivano prontamente ripiantati. Non credevano dunque che la loro terra fosse un luogo sacro, su cui non tracciare nessun altro solco che non fosse quello delle vecchie mura, risalenti a 2000 anni addietro. Nemmeno pensavano che le multinazionali infettassero gli ulivi con batteri sconosciuti, ma vabbè, questo è un altro discorso, anche se c’è una stretta correlazione tra alcuni complottisti e i no gridati alle grandi opere.

 

Un tempo – e forse quello era il tempo del soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali – le grandi opere erano invocate, portavano luce, acqua e gas e non fa niente se i tralicci si ergevano (secondo me non privi di poesia e di grazia) oltre gli alti e secolari faggi o lecci o abeti e larici e pini, che occupavano un pendio scosceso. C’era motivo di festeggiare eccome. E se non credete a questa ricostruzione, se non credete che quegli operai, con i caschi e i giubbotti e i guanti e le scarpe da lavoro, i pantaloni con le tasche a iosa, portavano gioia e causavano afflato umanitario, ecco, se non ci credete, ripensate a quando va via la luce a casa vostra, a quell’angoscia che vi prende, ai litigi in famiglia, dove cazzo stanno le candele, oh cazzo non ho salvato il mio meraviglioso racconto e ora l’ho perduto, che ne sarà della mia creatività. Pensate a certe aree buie, a quella sensazione di tristezza senza fondo che vi stringe la gola e non vi fa respirare. O pensate a quando dopo aver visto una puntata di “Masterchef” vi viene l’acquolina in bocca e dite: ora gliela faccio vedere io a questi chef, e andate a cucinare, girate la manopola e il gas non esce. 

 

Pensate a questo, immaginatevi al buio, a cercare candele, immaginatevi al freddo, ad accendere fuochi, o a caricarvi le bombole sulle spalle, o a svegliarvi di notte perché si avverte il gas in casa (sarà la valvola difettosa). Più semplicemente pensate che la mattina vi alzate e ciabattando verso la cucina avete un solo unico, assoluto desiderio: se non prendo ora un caffè vado in coma, in catalessi, cado in ibernazione, e quindi, speranzosi, aprite la valvola della bombola del gas, accendete la fiamma e vi accorgete che questa è bassa, fioca, oh no – sussurrate – oh no, e poi la fiamma si spegne, la bombola è finita. Immaginatevi protagonisti di questi micro film e vedete se poi non applaudite gli operai che, grazie a una grande opera, vi portano luce, acqua e gas: li accogliereste a braccia aperte, sacrifichereste il vostro agnello più grasso, non per il figlio prodigo ma per quello che ha scavato, fatto esplodere pezzi di montagna, aperto gallerie, alzato tralicci contro gli elementi e solo per rendervi la vita più semplice.

 

E pensate a come sono cambiate le cose, pensate ai figli di quei contadini, che hanno accolto gli operi anche perché, con bassa istruzione ma con intuito profondo, pensavano che, grazie a una grande opera, i loro figli avrebbero potuto avere una possibilità in più, fosse solo per studiare illuminati. Ora quei figli hanno aperto un bel B and B e lottano per la purezza del luogo. Tanto per dire: uno di loro, a Lecce, sotto una volta di pietra lavorata a barocco, mi ha detto che per conoscere Lecce bisogna camminare per la città a piedi scalzi, e poi ha aggiunto che lui è anti tutto, Tav, Tap ecc. E chissà, mi sono chiesto, se per riscaldare quell’enorme palazzo, a piedi scalzi, si caricava le bombole del gas sulle spalle, come suo padre. O come suo nonno tagliava legna e accendeva fuochi e torce per riscaldare e illuminare l’ambiente.

 

In una grande opera c’è qualcosa che riguarda il benessere individuale e collettivo che vorrei non si perdesse. C’è stato un tempo in cui questo era evidente e un altro in cui il messaggio si è perso

C’è stato un tempo in cui la fiducia verso lo stato che realizzava le grandi opere era alta e un tempo in cui si è abbassata. Uno dei problemi era la corruzione dello stato con tutto il conseguente strascico di costi alti, bolle finanziarie e tempi elastici e litanie varie. E tuttavia, forse per affrontare questa questione è bene rimarcare il fatto che sì, i rischi nelle grande opere ci sono eccome, la corruzione, la dilatazione dei costi e dei tempi, ma il messaggio che un’opera porta con sé, ebbene, quello andrebbe salvaguardato e non abolito tout court.

 

Prendete me come riferimento negativo, e non soltanto i No Tav e No Tap e No brand. Pensate a quando insieme a Medici senza frontiere andai nel Complexo do Alemão, all’epoca una delle favele più truculenti di Rio, e io mi ero fissato su un palo della luce, un filo centrale e tanti fili secondari e abusivi che si attaccavano al principale. Avevo fatto anche la mia bella metafora, da narratore occidentale: quei fili erano una ragnatela che sporcava il cielo, dunque anche il più semplice gesto di alzare, appunto, gli occhi al cielo (in cerca di ispirazione), era macchiato da quell’immagine: quanti applausi mi ero preso. Invece ascolto un giorno l’eco-razionale Stewart Brand che mostra a tutti quel palo (o uno molto simile al mio) e dice: vedete questi fili? Sono abusivi, è vero. Ma uno di questi fili porta la luce a casa di una famiglia con tanti figli, e qui c’è una bambina che riesce a studiare grazie a quei fili. Il problema sarà come trasformare l’illegalità in legalità, ma insomma, non dobbiamo perdere il messaggio principale: portare luce significa far crescere i nostri figli.

 

Così è per le grandi opere. Certo cambiano i tempi e le possibilità, i problemi e i costi, e tutto, non solo le grandi opere, va giudicato secondo l’intramontabile schema excell di costi/benefici. Ma in una grande opera c’è qualcosa che riguarda il benessere individuale e collettivo che vorrei non si perdesse. C’è l’operaio che porta la luce e c’è la bambina che può studiare, ci siamo noi, certo cambiati, più ricchi, meglio vestiti, che a volte camminiamo a piedi scalzi perché qualcuno con le scarpe di grana non fine e di taglia grossa e tanti calli sulle mani ci ha alleggerito il peso. C’è stato un tempo in cui questo era evidente e un altro in cui il messaggio si è perso: le grandi opere da occasione sono diventate problema. Quand’è stato? Trenta, trentacinque anni fa?

 

 

Comunque, trent’anni fa da Caserta andavo a lavorare a Roma, qualche volta tornavo il giorno stesso, qualche altra volta mi trattenevo. Nella sostanza, il problema che io e alcuni casertani accusavamo e di cui discutevamo, dopo varie peripezie e rocambolismi, era l’assenza di un treno veloce. Il nostro sogno era l’alta velocità.

 

Non ci credete, vero? Ora che discutiamo nei salotti televisivi di costi e benefici, parliamo con la sicurezza di un ingegnere ma con la competenza di uno scolaretto, di tunnel, amianto, macchine perforatrici ecc., di Tav e Tap, ora magari non riusciamo a credere che trent’anni fa alcuni di noi, che abitavano lande lontane e più o meno desolate, con un senso di inadeguatezza verso il mondo moderno e problemi vari da risolvere, insomma alcuni di noi desideravano incontrare un operaio dell’alta velocità e offrirgli da bere per il lavoro svolto. Il fatto è che per molti anni io e i pendolari casertani abbiamo aspettato il treno per Roma al binario numero uno. Lo attendevamo molto avanti rispetto all’entrata della stazione, cioè là dove il marciapiede si assottiglia, lascia intravedere le fenditure e si confonde con il pietrame. L’espresso 746 arrivava in stazione alle 5.30 circa. Era uno di quei lunghi treni del sud che cantava Piero Ciampi, nasceva a Lecce la sera precedente ed era sempre pieno. Trattandosi di lento espresso del sud, i viaggiatori erano soliti allungare il sedile e unirlo a quello di fronte, così da formare un abbozzo di branda su cui stendersi e provare a dormire. Ora, quelli che salivano a Caserta non trovavano posto, o se lo trovavano dovevano scavalcare quelli che dormivano, farsi spazio tra le gambe e cercare di prendere posto. Ma in quegli scompartimenti c’era sempre cattivo odore, di cibi consumati in fretta, di profumi in dosi eccessive. E non era solo questo, c’era tensione, un po’ per via di quell’odore che pungeva, un po’ perché gli occupanti non erano tranquilli, si stiravano, si accucciavano, cambiavano posizione, si lamentavano ma non riuscivano mai davvero a prendere sonno. Si capiva che avevano passato una notte agitata o che li attendeva una giornata difficile. Il fatto è che per molto tempo l’espresso delle 5.30 ha portato a Roma quelli che dal sud cercavano lavoro nella capitale. Non avevano l’aspetto dei disoccupati, piuttosto di sottoccupati organizzati. Qualcuno giù al sud aveva pensato a curare il loro aspetto, affinché facessero bella figura. Te ne accorgevi dai vestiti buoni, quelli utili per il colloquio, stirati, ripiegati e incellofanati, quindi deposti con cura, in alto, sopra la pila delle valigie, così da evitare sgualciture. Dai capelli ben curati, tagliati corti. Dalle gonne che arrivano un po’ più in basso del ginocchio, così da non provocare ma nemmeno nascondere le gambe. Dai beauty-case da viaggio, voluminosi e colorati. Te ne accorgevi perché quelli che cercavano lavoro si radunavano negli stessi scompartimenti, facendo attenzione a non mischiarsi con i viaggiatori, o avevano grossi zaini e libri che somigliavano a bignami, e cinte lunghe che sembravano fondine, per nascondere appunti.
Quelli che cercavano lavoro non erano giovani e basta, erano un gruppo eterogeneo, di varie età, ma solidale, e unito, quasi un gruppo di amici, oramai vecchi conoscenti per passate avventure tra concorsi e colloqui. I pendolari però il lavoro l’avevano già, e non solo, si sentivano parte di un mondo a sé stante, cioè provavano difficoltà la mattina presto ad avere a che fare con la gente. Così, dato che erano in tanti, fecero una petizione, chiesero alle Ferrovie di aggiungere al treno altre due carrozze, riservate solo ai pendolari casertani.

 

Un giorno, i pendolari videro accolta la loro richiesta: alla stazione di Benevento vennero montate le carrozze, così che, quando il treno arrivava a Caserta, aveva due carrozze vuote in testa. Ora, quasi tutti i pendolari casertani erano (e sono) degli impiegati ministeriali, tranquilli e pacifici. Lo erano sempre, tranne all’arrivo del treno. Quando l’altoparlante annunciava il treno, i pendolari si avviavano di corsa verso la fine del marciapiede, perché l’espresso era lungo e le carrozze vuote erano in testa. Il treno si mostrava d’improvviso, accendeva il faro sopra la locomotiva e spesso fischiava un paio di volte. A questo punto poteva capitare che qualcuno, giovane o vecchio, basso, secco, muscoloso o grasso, veramente il fisico non importava, cominciasse a correre verso il treno, e tu pensavi, oddio, adesso s’ammazza.

 

Il fatto è che per molto tempo l’espresso delle 5.30 ha portato a Roma quelli che dal sud cercavano lavoro nella capitale

E invece scoprivi che il pendolare era uno che praticava sport estremi. Perché saltava sul treno ancora in corsa, s’aggrappava alla maniglia, poggiava il piede sull’abbozzo di pedalina, apriva la porta e correva nel corridoio a occupare un intero scompartimento. Gli altri da terra assaltavano il treno, non c’era cavalleria verso donne o bambini, ognuno per sé, tutti che spingevano per salire. E se capitavi davanti alla ressa, potevi essere sollevato da terra e ritrovarti nel treno, poi spinto nei corridoi e quindi gettato nel primo scompartimento vuoto. Così che spesso ti ritrovavi seduto senza sapere come.
Quando c’era folla, come di lunedì mattina, ed erano in molti a salire sulle carrozze, per dieci minuti buoni le uniche frasi che sentivi erano: occupato? Sì! Al che seguiva una maledizione o una bestemmia da parte del ritardatario che subito correva altrove per cercare un posto libero, oppure ne seguiva una discussione: occupato, da chi? E da uno che mo’ viene. E via con il litigio.

 

Poi, a cose fatte, qualcuno andava alla toilette, prendeva una ventina di asciugamani di carta e li distribuiva. I pendolari più esperti utilizzavano la carta come rivestimento per i poggiatesta. Con una scheda telefonica (erano ancora in uso, allora) infilavano i lembi di carta nella fessura tra il vano divisorio e il sedile, così trasformavano il poggiatesta in un cuscino. Altri si limitavano a sgrassare i sedili. Mostravano a chiunque fosse nello scompartimento il nerume che insozzava la carta, dicevano a voce appena sussurrata: guarda qui che schifo, poi buttavano i fazzoletti il più lontano possibile.

  

Ricordi di viaggi per Roma, partendo da Caserta all’alba su un treno del sud. La malinconia delle serate estive, la speranza di un collegamento veloce. Le case con le ruote e quelle fatte con la calce impastata con l’acqua piovana. La felicità di sentirsi parte di un gruppo

 

Quindi appena il treno partiva, si spegneva la luce, si tiravano giù le tendine e si provava a dormire. Così, i neofiti o i viaggiatori occasionali si trovavano al buio improvvisamente e se avevano l’ardire di dire: ma… venivano tacciati con la frase: qui si dorme! Si provava a dormire, ma non sempre ci si riusciva. Perché di tanto in tanto arrivava il controllore a gridare: biglietti! Qualcuno rispondeva: abbonamento; giusto un filo di voce, un tono tenue e stanco, sperando che il bigliettaio non dicesse: me lo fa vedere per favore? C’era qualcun altro che dormiva con l’abbonamento in mano, così alla richiesta, senza neppure aprire gli occhi, lo sollevava quel tanto che bastava per farlo vedere al controllore.

 

Poi si arrivava a Formia, e quelli di Formia entravano negli scompartimenti senza creanza alcuna, facevano rumore, svegliavano gli occupanti e dicevano: ma che buio qui, fuori c’è un bel sole, aprite. E se si resisteva all’assalto di quelli di Formia, si cedeva poi quando salivano quelli di Latina. Oramai il sole era alto e i passeggeri appena entrati aprivano le tendine, e capitava sempre che un raggio di luce colpisse negli occhi qualche pendolare che si svegliava come scosso da una tortura. Eppure quasi tutti, pure quelli di Formia e di Latina, si addormentavano dalle parti di Roma, solo qualche minuto, ma di sonno profondissimo, tanto che spesso qualcuno rimaneva addormentato, addirittura russava, nonostante il treno fosse già fermo in stazione. E bisognava scuoterlo per svegliarlo.

 

Ora, il pendolare casertano era una persona normale, cercava di stare sempre con gli occhi aperti e di non mostrare la stanchezza, solo che in certi momenti della giornata si sentiva terribilmente triste. Poteva capitare che in alcune serate estive, dolci e lievi, qualche amico o un parente lo invitasse a uscire per un gelato o una passeggiata. E lui scuoteva la testa, amareggiato: niente, non può venire, l’indomani deve alzarsi alle 4.00. Poi nel letto, con le finestre aperte, sentiva lo sciamare lento delle auto e delle persone, e gli prendeva una malinconia così forte da non riuscire più a dormire. In qualche mattina invernale, con il freddo che seccava la pelle, saliva sul treno e non aveva voglia di parlare con nessuno. Si accoccolava nel sedile e cercava di dormire. Niente. Allora nei pressi di Formia sollevava un po’ la tendina e guardava il mare. Certe mattine il colore del cielo assomiglia a quello del sangue e pian piano si espandeva a colorare anche il mare. E genera una luce così malata che a guardarla gli occhi si feriscono. Se invece il tempo è cattivo e magari soffia la tramontana, allora il mare avrà un colore cupo e viscerale, come se il vento sollevasse la superficie delle acque e mostrasse il fondo. In quei momenti il pendolare si sentiva come scoperto e indifeso, si alzava, usciva dallo scompartimento e andava in corridoio a fumare una sigaretta (allora si poteva). Nel corridoio incontrava un altro pendolare, anche lui con il medesimo spleen e parlavano. Viviamo – dicevano – in una landa arretrata, con treni arretrati, carri bestiame, basterebbe così poco – si era nel 1989 – una linea veloce, sì, l’alta velocità. Un’ora e cinque per essere a Roma… immaginate – dicevano – come sarebbe più facile la nostra vita? Avviarsi alle 7 e alle 8.05 essere già a Roma. E facevano l’elenco: abbiamo i migliori ingegneri, progettisti, operai, molti dei quali hanno fondato una parte d’Italia, bella e solida, ebbene che ci vuole a costruire una linea dell’alta velocità? Lo stato fa da garante e noi arriviamo a Roma senza questo strazio. Poi l’alta velocità è arrivata, con molto ritardo, ed ecco: chi l’avrebbe detto che magari i figli di quegli stessi pendolari, quelli che insieme a me hanno visto cambiare la loro vita, quelli che sono passati da assalitori di treni a normali clienti di ferrovie, che quei figli, diventati economisti, poeti, narratori, filosofi, grazie alla luce e alla velocità degli spostamenti, sarebbero andati in tv per dire: a che serve l’alta velocità? Per arrivare un’ora prima? Per fare arrivare le merci (simbolo del capitale ecc.) 45 minuti prima?

 

Chi l’avrebbe detto che magari i figli di quegli stessi pendolari, diventati economisti, poeti, narratori, filosofi, grazie alla luce e alla velocità degli spostamenti, sarebbero andati in tv per dire: a che serve l’alta velocità?

I sentimenti e la vita delle persone sono cambiati in meglio grazie alle grandi opere e nello stesso tempo si è persa fiducia nello stato. Che peccato. La Napoli-Roma è partita nel 1994. Che c’è voluto per quell’ora e cinque. Fermate non previste, stop burocratici, infiltrazioni mafiose, costi dilatati. Che peccato questa perdita di fiducia, questo spreco di energia. Ma siamo sempre lì, a quella sfida: trasformare l’illecito in lecito, evitare che le cose lecite diventino illegali. Bisogna illuminare le stanze delle nostre figlie, abbassare il tempo di percorrenza dei tragitti e ci vogliano allora i viadotti dell’alta velocità, le gallerie, i tralicci e che sfidino la gravità e ci portino più avanti possibile, dall’altra parte della vallata c’è gente che ci aspetta, non vogliamo vedere che faccia hanno? Cosa hanno da offrirci? Se portiamo doni riceviamo doni.

 

E invece. Che peccato. Anche perché la perdita di fiducia nelle grandi opere, insomma nel progetto collettivo di cui erano portatrici, non ha generato un analogo sentimento propositivo e migliorativo, ma un ripiegamento su se stessi. E’ strano, ma esiste una correlazione tra assenza di grandi opere o il no alle grandi opere, e una sorta di preferenza per le piccole opere fai da te. Quando nel 1989 tornavo da Roma durante i weekend, a volte giravo per le campagne del sud. Ero fissato, da pendolare volevo inseguire i pendolari, miei simili. Da dove venivano, che storie avevano. Alcuni se ne tornavano in campagna, alla casa di famiglia. Basta città: campagna, relax, sapori veri (tanto c’era la luce, l'acqua e il gas, generi di conforto e abbondanza di merci, mica abbattevi gli alberi). Si sperava nello stato eppure qualcosa suggeriva che non ci si poteva fidare, troppo corrotto. Non ci si sbagliava, i fatti non dimostrano il contrario, ma forse la colpa era del ripiegamento su sé stessi, se in quelle campagne non si pensava alle grandi opere e ai grandi messaggi. Anzi siccome lo stato non era garante tanto valeva arrangiarsi.

 

Non ci crederete, ora c’è Google Earth, ma all’epoca per mappare il territorio c’erano solo l’aerofotogrammetria. E forse vi risulterà strano ma nelle campagne si vedevano un sacco di case con le ruote. Incredibile. Proprio con le ruote. Strutture in legno, marcite, monolocali con tetto spiovente e ruote. A che servivano? A parte qualcuna che era occupata da extracomunitari paganti – anche loro si spostavano a piedi o in pullman maledetti per raggiungere i campi, uno strazio – in realtà, mi spiegavano quei pendolari sfiduciati e in vena di relax, le case con le ruote servivano a occupare il territorio. Passava l’aereo e fotografava la casa, dall’alto non sembrava una casa di legno con le ruote ma una casa vera e propria.

 

Meglio una grande opera che una piccola fai da te. Meglio la fiducia e i controlli sulle opere che i trucchetti da quattro soldi per impastare la calce

Certo, lì non ci poteva stare la casa, quindi quella struttura era abusiva, ma intanto occupava il territorio. Metti che venivano i vigili per un controllo? Niente, si prendeva il trattore, si legava la casa e la si trasportava altrove. Ma metti invece che un giorno, foto dopo foto, si prendeva atto della situazione esistente e si decideva per il condono, bè, allora io, proprietario della casa con le ruote, visto che dall’alto passavo per uno che aveva già la casa, e quindi alla fine mi condonavano, sapete cosa facevo? Prendevo il trattore, spostavo la casa e al suo posto, tempo una paio di settimane, ne costruivo una nuova, tetto spiovente, stessa metratura, senza ruote: nasceva abusiva ma già condonata.

 

Siccome la sfiducia per lo stato e per le grandi opere era massima, tanto valeva costruirsi una piccola opera fai da te. Piccoli imprenditori che affittavano case con le ruote a extracomunitari, i lavoratori in nero, che a un certo punto cominciavano a sognare in grande e intanto, nel proprio piccolo, mettevano al mondo figli che avrebbero poi detto no alle grandi opere perché lo stato è corrotto e c’è il turbo capitalismo ecc. Figli che magari avrebbero chiesto la pubblica abiura al padre per la casa con le ruote (di cui non sapevano niente, ovvio) e intanto si garantivano una piccola opera che avrebbe aumentato il loro capitale. C’è una correlazione tra sfiducia nello stato e fiducia nella casa con le ruote, ma non riesco a dimostrarla analiticamente, vado a intuito. Una sorta di: quello che fa lo stato o che fanno i grandi gruppi è grande, attira interessi ed è potenzialmente corrotto. Quello che faccio io, singolarmente, è piccolo, autentico e gratis. Un concetto che lo scrittore Erri De Luca, con la sua notevole prosa performativa è riuscito a chiarire meglio. L’ho ascoltato una volta durante “I visionari” (un programma che andava su Rai 3). C’era da commentare la parola “nuvole” ed Erri De Luca disse di aver fatto parte di quella generazione che ha impastato la calce per farsi la casa con l’acqua piovana, l’acqua che cadeva dalle nuvole e veniva raccolta in contenitori. Gratis. E poi ha aggiunto: ora quelli che a dispetto dei referendum vogliono privatizzare l’acqua, dovrebbero dimostrare di essere i padroni delle nuvole. Porca puttana, ho pensato. Bella. Ho votato No ai referendum sull’acqua e per poco De Luca non mi convinceva, tardivamente. Mi sono detto, questo è il problema: alle grandi opere manca il racconto, il mito, lo storytelling e il resto della litania, tipica delle agenzie di comunicazione. Siamo cresciuti con la luce e il gas e ora, abbiate pazienza, semo stanchi, basta, lasciateci sta’, tranquilli lì a impastare la calce.

 

Certo, ammetto, mi è venuto un sospetto: ma non è che De Luca si è costruito una casa abusiva? No, non voleva dire quello, dài. Mica ha impastato la calce con l’acqua gratis e ha costruito una casa verso la quale poi è stato necessario portare l’acqua potabile e il gas e l’impianto fognario? Non è che alla fine di questa bella storia, ho pagato io per l’acqua, io stato, attraverso una grande opera? No, mi sono sbagliato, non sarà così, non voleva dire questo con la bella storia. Non è il suo caso. Però in tanti l’hanno fatto, intere borgate edificate impastando calce, e allora quante nuove condutture gli operai hanno messo in posa per portare a loro acqua pubblica, e quanti costi, di manutenzione e gestione, a carico dello stato. Mi sa che pure l’acqua che scende dalle nuvole non è completamente gratis. Vediamo la trave nell’occhio delle grandi opere e ignoriamo la pagliuzza, che però pagliuzza dopo pagliuzza… Che sfiga, era una così bella storia. Ma in conclusione, troviamo un punto in comune? Forse un paese cresce meglio se c’è un progetto collettivo, non fa niente se è grande o grandissimo, perché il mondo lo è, grande e grandissimo, sicuramente il mondo ha molte potenzialità ed è meglio incontrarci che scontrarci. Meglio una grande opera che dimostri un disegno alla portata di tutti, che una piccola fai da te. Meglio la fiducia e i controlli (in grande e seri) sulle opere che i trucchetti da quattro soldi per impastare la calce. Meglio crescere insieme che privatamente. Pare tra l’altro, almeno a leggere gli studi sulla felicità, che un popolo si reputi più felice se sente di far parte di una squadra che stia scalando tutta insieme la classifica. Alla luce, all’aperto e in grande è meglio, così pare.

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