Marco Travaglio (foto LaPresse)

Contro il metodo Travaglio

Federica Graziani e Luigi Manconi

Il vocabolario aggressivo e militarizzato. Le fantasie punitive e vendicative. L’esasperazione del sospetto. Una concezione paranoica e delatoria della società. Inchiesta su un sistema che ha fatto da miccia, veicolo e megafono al violento giustizialismo morale che oggi guida l’Italia

Tra gli autori di questo articolo, l’uno è troppo vecchio, l’altra troppo giovane per essere stati compagni di scuola, alle elementari o alle medie, di Marco Travaglio. Non essere gravati anche di questo fardello ha in qualche modo aiutato lo sviluppo delle nostre vite. Se, al contrario, avessimo trascorso le nostre infanzie sugli stessi banchi delle stesse aule del suo stesso edificio scolastico, non avremmo potuto sottrarci al destino fatale della deformazione in senso comico-puerile dei nostri rispettivi cognomi. Manconi sarebbe diventato inevitabilmente – c’è da giurarci – almeno un Minchioni, un Monconi o un Manicomi e Graziani non si sarebbe sottratto a un Disgraziani o alla scansione scurrile: Graziani, Grazi-ani, Grazi-culi. Sia chiaro: a noi queste alterazioni fanno ridere. Ci piacciono tutti (o quasi) i giochi delle parole, gli strappi linguistici, le forzature parodistiche. E senza alcun pregiudizio snob: ci attraggono anche l’infantilismo e l’indecenza della derisione elementare, primitiva, demenziale. Abbiamo letto il Rabelais di Bachtin, siamo affezionati a Massimo Boldi in Max Cipollino e nella sublime maschera del culturista, amiamo le inchieste sui danni che il consumo di acqua provoca all’organismo di Maccio Capatonda.

   

Giochi di parole, forzature parodistiche che ci deprimono perché non c’è allegria, ma tutto il tedio della politica politicante

Insomma, ci fanno ridere i nomignoli derisori e gli sberleffi da circolo dell’Azione cattolica e da festa delle matricole. Perché, allora, tutto questo ci deprime quando lo troviamo reiterarsi nella prosa di Travaglio? Perché non vi scorgiamo in alcun modo l’efferata innocenza adolescenziale e lo splendido primitivismo della beffa da avanspettacolo. Non c’è, in quegli articoli, l’oltraggiosa ottusità di certi comici inventati da Antonio Ricci negli anni 80 né l’ebetudine sorniona e sbertucciante dei post de Lo Sgargabonzi. C’è, invece, un sottogenere del linguaggio politico che – come già si è nutrito sciaguratamente del gergo calcistico – oggi ricorre allo slang di Drive-in, ma con oltre trent’anni di ritardo, e della Gialappa’s, nei casi migliori. E che, calato nella politica quotidiana, non può che risentire di tutta la sua meschina miseria. In quei gracili giochini di parole e in quelle deformazioni onomastiche, insomma, non c’è allegria. C’è, al contrario, tutto il tedio e l’angustia della politica politicante e del politichese da politicastri. E delle sue cronache, dei suoi retroscena, delle sue ricostruzioni.

   

Ecco, alla rinfusa, un primo e parzialissimo elenco, stilato grazie alla collaborazione di alcuni redattori del Fatto Quotidiano e alla generosa acribia di loro colleghi di altre testate (la gran parte dei nomignoli sono proprietà intellettuale esclusiva di Marco Travaglio, alcuni invece si devono a ritrovamenti sul blog di Beppe Grillo, ma sono stati adottati dal Fatto Quotidiano):

Disguido Bertolaso o Guido Bertolaido,

il Banana e Al Tappone (Berlusconi),

Giuliano l’Aprostata (Ferrara),

Littorio Feltri,

Pigi Cerchiobottista,

Angelino Al Fano, Angelino Jolie,

Maurizio Belmento (Belpietro),

Augusto Scodinzolini o Minzolingua,

Umilio Fede,

Giorgio Ponzio Napolitano, Napolituhm,

Rigor Montis,

Elsa Frignero (Fornero),

Gargamella (Bersani),

Forminchioni (Formigoni),

Cancronesi (Veronesi),

Gad Vermer o Gad Merder,

Fabio Strazio,

Azzurro Caltagirone (Casini),

Violante voce del verbo violare,

Maria Elena SottoBoschi, Maria Etruria Boschi,

Pisapippa, Pisalfano,

M’annoi (Mannoni),

Sabino Incassese,

Carlo Calende greche,

Benvenuti in Culonia (episodio di Merkel),

Giovanhard,

Pizza e Fico,

Giorg-exit (Giorgetti),

Renzusconi, Renzaleggio,

Cazzoli e Bazzullo (Cazzullo e Bazoli),

Errani humanum,

Genticloni,
Un pesce di nome Zanda,

Silvio Boldrinoni,

Ballusti.

  

Tendenze che mirano a schernire le identità politico-culturali, a mortificare le indoli e talvolta le fattezze fisiche

Va da sé, è solo un florilegio casuale e la “storpiatura” (definizione dello stesso autore) talvolta dà risultati spassosissimi, talaltra mediocri. Nella dimensione politica a questo espediente hanno fatto ricorso sia Palmiro Togliatti, sebbene solo in forma orale, che Guglielmo Giannini. E molti dopo di loro. Un gioco a volte addirittura innocente, più spesso variamente insolente. Qui merita una particolare attenzione perché si collega ad altre tendenze della lingua utilizzata da Travaglio e dalla sua area politica e culturale di riferimento, o di cui è riferimento. E’ del senso comune e del lessico di questa intera area, nelle sue molte espressioni, articolazioni e correnti, che dunque discuteremo. Tendenze che mirano tutte a schernire le identità politico-culturali, a mortificare i tratti psicologici, le indoli e talvolta le fattezze fisiche, a intaccare la credibilità dei propri interlocutori fino a lambire la diffamazione della reputazione. 

     

Marco Travaglio (foto LaPresse)


   

La deformazione del cognome, quando ridicolizza ossessivamente un tratto o un singolo episodio cristallizzandoli intorno a un’indignazione morale che rimanda immancabilmente a un risentimento travestito da ironia, fa parte di questa procedura di stigmatizzazione. Si pensi al rimando costante e sempre dispregiativo all’età degli avversari: la vecchiaia di Giorgio Napolitano, e ora quella di Sergio Mattarella, risultano capi d’imputazione, descritti – per esempio dai dirigenti dei 5 stelle – come altrettanti fattori invalidanti. Morfeo-Napolitano e La Sfinge-Mattarella si “abbioccherebbero” durante gli incontri con i rappresentanti dei diversi partiti, e se al primo Travaglio consiglia: “Se proprio non sa come impegnare il tempo libero, dia retta all’ultimo monito di Osho: “Ma perché ’n te trovi ’n bel cantiere stradale come tutti l’anziani normali?” (2 febbraio 2017), al secondo destina un augurio: “Mattarella non ha alcun ruolo nella scelta del presidente Rai, e infatti non risultano sue dichiarazioni in merito, né acquisti di congelatori supplementari per l’occasione. Ammesso e non concesso che Mattarella sia rimasto gelato, pazienza: prima o poi qualche anima pia provvederà a sbrinarlo dal freezer” (29 luglio 2018). Fino a Stefano Rodotà che, dopo aver goduto della massima stima da parte dei 5 stelle, si vide liquidato da Beppe Grillo così: un “ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo dove era stato confinato dai suoi”.

    


Il regime dell’inquisizione a nudo. Un’idea di democrazia e di giustizia violenta, dove le virtù apprezzate si basano sulla forza (certo, democratica), sulla coercizione (certo, legale), sulla repressione (certo, regolata)


   

Il rimando costante e sempre dispregiativo all’età degli avversari: la vecchiaia di Napolitano e ora quella di Mattarella risultano capi d’imputazione. Nel paragonare i politici agli autistici, Grillo sembra non rendersi conto che il bersaglio finale risultano essere proprio questi ultimi

Qui il terreno si fa friabile. Se l’età avanzata, da dato neutrale diventa elemento su cui appuntare della riprovazione, il rischio è temibile. Il passaggio dall’evidenziazione di un processo naturale – l’invecchiamento – a quella di un deficit psico-fisico è breve. Ancora la piccola esperienza personale di uno degli autori di questo articolo, notoriamente cieco. Un editoriale interamente dedicato a Luigi Manconi si apre così: “Siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire né peggior cieco di chi non vuol vedere, siamo passati dal ‘fuori le prove’ all’‘embè’” (5 agosto 2017). E’ altamente probabile che il riferimento all’handicap non sia affatto intenzionale e che si debba a un modo di scrivere frettoloso e sbrigativo, e in ogni caso guai a cedere alle paranoie e a condividere la drammatica assenza di autoironia così frequente in chi nell’ironia si esercita. A far immaginare, però, che una qualche intenzione vi fosse intervengono numerosi indizi, che segnalano una irresistibile vocazione alla mancanza di gusto e di senso del limite (criteri tutti soggettivi, certo, ma insomma…).

 

Lo scorso 21 ottobre, annunciato come “il padre di tutti noi”, sorridente e brandendo una manina di plastica gigante, sale sul palco della festa romana di Italia a 5 stelle Beppe Grillo. Dopo diversi minuti dedicati alle “piccole battutine” che “in forma anonima e semplice” si indirizzano a vari ruoli istituzionali (tra cui il presidente della Repubblica) che “sono cose dell’Ottocento” e “non vanno più col nostro modo di pensare”, Grillo parla del “pazzesco analfabetismo di ritorno” che imperversa nel paese. Il 45 per cento degli italiani capisce sommariamente quello che gli viene detto, farfuglia concetti, è pieno di malattie nevrotiche. Insomma, continua Grillo, “siamo pieni di autismi. L’autismo è la malattia del secolo, signori, e l’autismo non lo riconosci. […] in televisione è pieno di questi filosofi che hanno la sindrome di Asperger, che è la sindrome di quelli che parlano in un modo e non capiscono che l’altro non sta capendo e vanno avanti. Fanno esempi che non c’entrano niente con quello che stanno dicendo, hanno quel tono sempre uguale”. Alle molteplici repliche, sconcertate e ferite, delle persone che vivono la condizione dell’autismo, dei loro familiari e delle associazioni per la tutela dei loro diritti, Grillo risponde: “Quando mai un comico cita delle patologie, o qualsiasi altra cosa molto seria, se non con l’intento di usarne la chiave metaforica? […] Non esiste il politically correct nel mio mestiere, se vuoi essere davvero un comico” (la dichiarazione viene pubblicata, senza alcun commento, in un articolo redazionale sul Fatto Quotidiano il 23 ottobre 2018). Non vogliamo qui entrare nell’antico dibattito sulla libertà di espressione e su quella di offesa, né rinvigorire lo scontro stantio e astratto sul politicamente corretto. Per qualcuno, le frasi di Grillo sull’autismo sono state evidentemente comiche e ne ha riso, qualcun altro non gli attribuisce gran importanza, altri ancora, non apprezzandone la portata metaforica, ne hanno potuto percepire piuttosto la carica irrispettosa e mortificante. Il fulcro non è qui. Dopo aver ribadito la classica missione della satira, quella di critica radicale di ogni sistema di potere, Grillo cade proprio su quello che considera lo strumento essenziale di quella critica: il ricorso alla metafora. Nel paragonare i politici agli autistici sembra non rendersi conto che il bersaglio finale risultano essere proprio questi ultimi, sui quali viene scaricato anche il peso dell’evocazione oggi più disonorevole: ovvero il mestiere del politico. Vittima delle sue parole non è dunque un qualsiasi regime di potere, bensì una condizione di estrema debolezza. La libertà di parola non c’entra assolutamente nulla. Incondizionato è il diritto di Grillo di pronunciare tutto quel che pronuncia, incondizionato è il nostro diritto di reagire contrastandone le violenze ideologiche e le miserie verbali parola per parola.

 

   

Sono solo battutine? Torniamo a Travaglio. In una polemica all’arma bianca con Carlo Bonini, riferendosi a quanto detto da quest’ultimo a proposito di Giuseppe D’Avanzo, il direttore del Fatto parla di “sedute spiritiche” tra lo stesso Bonini e il suo collega, morto nel luglio del 2011 (“Nella prossima seduta spiritica, potrebbe domandare al collega scomparso perché negli ultimi mesi non firmava più i pezzi con lui e gli aveva levato il saluto”, 11 agosto 2018). Il rispetto della persona, per quel già poco che il concetto serve a limitare le sofferenze arrecate agli altri, non sta evidentemente al centro delle preoccupazioni di questo tipo di cultura.

  

Nella scrittura e nell’oratoria di Travaglio, di tanti articoli del Fatto, del M5s e della sottocultura loro collegata emergono due costanti, due veri e propri disturbi del linguaggio. Il primo: un vocabolario militarizzato. Il secondo: un’idea di democrazia e di giustizia molto violenta

E’ questa sua inclinazione che rende Travaglio tanto vulnerabile. Quando, alla vigilia della campagna elettorale del 2018, il Partito democratico rimproverò al direttore del Fatto l’uso disinvolto e sventato della formula “sciogliere con l’acido”, ne era evidente la forzatura polemica. Ma la difesa fatta a proposito del ricorso a quelle parole non fu efficace: la cosa non poteva giustificarsi, quasi fossimo in presenza di un’ardita metafora, di un’immagine forte, di un paradosso linguistico. Leggiamo quella frase: “La legislatura che sta per essere sciolta (si spera nell’acido) è stata una delle peggiori della storia repubblicana”. E’ ovvio, almeno per noi, che Travaglio non auguri ad alcuno di venire sciolto nell’acido. Figuriamoci. Ma perché quella frase orribile è apparsa così immediatamente nuda, priva del filtro dell’iperbole che la astraesse da qualunque rapporto con la realtà dei cattivi pensieri e dei desideri indicibili? Perché, per un effetto paradossale del linguaggio immaginifico, appare più realistico ciò che più sfida la realtà. Ma se questo accade, nel caso specifico, si deve al fatto che nella scrittura e nell’oratoria di Travaglio, di tanti articoli del Fatto Quotidiano (qui, come ogni volta che citeremo il Fatto, stiamo volutamente generalizzando la considerazione su una redazione che vanta giornalisti di diversi orientamenti politici e culturali, spesso molto bravi e che conducono battaglie condivisibili), del Movimento 5 stelle e di tutta la sottocultura loro correlata emergono due costanti, due tic, due veri e propri disturbi del linguaggio. Il primo: un vocabolario agonistico e aggressivo, militarizzato e bellico, dove ogni confronto porta a una resa dei conti e dove la sconfitta e la vittoria sono, in tutti i campi, un gioco a somma zero. Il secondo: un’idea di democrazia e di giustizia, che è quella che illustreremo oltre in questo articolo, molto – come dire? – violenta, dove le sole virtù apprezzate si basano sulla forza (certo, democratica), sulla coercizione (certo, legale), sulla repressione (certo, regolata). L’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni, le forme di comunicazione, i prodotti culturali: tutto è descritto a tinte forti e a tratti ben marcati, tutto è pronunciato con toni vibranti, tutto si affida a gesti robusti, a conflitti brutali e a una lunga sequenza di categorie e di procedure simil-giudiziarie: imputazioni, chiamate in causa, colpe, responsabilità, prove, indizi, condanne, sentenze, sanzioni, castighi. Nel ritmo parossistico di una messa in stato d’accusa generalizzata, si alza il volume e si inaspriscono le pene. Si pubblicano editti e si annunciano misure repressive. E si agitano i castighi come corpi contundenti. Se non come strumento di purificazione, di emancipazione dal male, di lavacro. Più la pena è pena, più è capace di dare sofferenza e afflizione, più sarà in grado di svolgere una funzione salvifica. 

  


Un clima in cui il rigore rifiuta la clemenza, in cui non c’è punizione che sembri eccessiva se meritata. La volontà di rivalsa che si trova alla radice del giustizialismo morale. Grillo che al primo Vaffa-Day indica Travaglio come futuro ministro di Grazia e Giustizia. La delazione ininterrotta, l’epurazione


  

In questa esasperata rappresentazione penitenziaria, le fantasie punitive e le paranoie vendicative, in un quadro alterato e deformato da diffuse patologie sociali, possono arrivare a suggerire associazioni mentali che assegnino all’acido la funzione svolta dal fuoco nei roghi e nelle pire. Cosa c’entra tutto ciò con Travaglio e con le sue responsabilità culturali? Nulla ovviamente, se non per il contributo da lui dato alla creazione di un clima. Un clima dove, come si diceva, le virtù apprezzate sono solo quelle forti, molto forti. E dove l’esecuzione della pena non ne prevede la sospensione; il rigore rifiuta la clemenza; la certezza respinge l’indulgenza; la severità disprezza la mitezza. In quell’atmosfera segnata dalla richiesta di “più condanne” e “più carcere”, non c’è punizione che sembri eccessiva se considerata meritata.

  

Ecco la trappola semantica in cui si è cacciato Travaglio. L’andamento ordinario della sua scrittura e di quella di larga parte degli articoli del Fatto e di molti dei post dei militanti ed elettori del Movimento 5 stelle manifesta quella componente violenta. Va ribadito ancora una volta: non è solo e non è tanto il potenziale di minaccia che contiene, bensì il tono e il colore ferrigno e cruento del vocabolario utilizzato. E ciò avviene come inavvertitamente, a tal punto quelle parole si sono andate via via corazzando, diventando sempre più combattive e agguerrite, perdendo la distinzione tra descrizione della realtà e sua traduzione in immagini, metafore, iperboli. La realtà stessa diventa tutta un’iperbole. Un minuscolo esempio tra i mille possibili. Nel richiamare le feroci contestazioni subite da Oscar Luigi Scalfaro durante i funerali degli agenti della scorta di Paolo Borsellino nel luglio del 1992, Travaglio scrive che l’allora capo dello Stato venne “sottratto al linciaggio” (19 agosto 2018). Capite bene che se una simile affermazione viene presentata come un inoppugnabile dato di fatto e una protesta che arrivò – certo – fino al punto di spintonare il presidente della Repubblica viene proposta come il tentativo di un’esecuzione sommaria, è l’intera scrittura di quell’articolo (e di chissà quanti altri) che ne sarà invalidata. Prevarrà una lettura sempre visionaria del reale. Una sorta di mitologia della cronaca. In questo linguaggio gonfio e traslato, l’acido non risulta così fuori luogo.

  

E’ ovvio che si tratta di parole, e solo di parole. Ma quando alcuni di noi, poco più che ventenni, scrivemmo parole sicuramente più efferate, ne dovemmo rispondere e tuttora, in qualche modo, ce ne si chiede conto. E se pure così non fosse, possibile che non si impari niente dagli errori del passato?

  

Di lotta e di governo

Non fidatevi delle apparenze (e nemmeno dell’eventuale titolo redazionale). Questo non è un articolo su o contro Marco Travaglio. Se lo fosse, sarebbe perlomeno tardivo. Avremmo dovuto scriverlo anni fa, ma – come avrebbe detto Chicco Pavolini in un’epoca la cui foschia è incommensurabilmente più fitta di quella odierna – “un s’ebbe tempo”. Anni fa, infatti, Travaglio – uomo dichiaratamente e inequivocabilmente di destra – si proponeva come giornalista anti sistema. E, in quanto tale, concorrente e avversario della critica anti sistema proveniente da alcuni settori della sinistra. E’ allora, qualche tempo fa, che sarebbe stato utile condurre una battaglia culturale, la più aspra possibile, contro la natura antigarantista, illiberale, infine reazionaria, di quel tipo di contestazione. E parallelamente dirigerla contro la montante ideologia del partito 5 stelle, di cui il Fatto Quotidiano è stato miccia e megafono. Ma ora?

 

Che fare ora che i già “caustici” e “urticanti” dissacratori del sistema sono diventati turibolanti corifei e colonne portanti dell’attuale governo? C’è meno gusto a criticare Travaglio, oggi che è diventato a pieno titolo uomo del regime: c’è meno gusto, ma forse qualche ulteriore motivo per farlo

Ora che il partito 5 stelle ha trionfato e tutti noi critici, qualunque fosse la nostra collocazione culturale e politica, siamo stati mestamente e sonoramente sconfitti? Ora che i già “caustici” e “urticanti” dissacratori del sistema sono diventati turibolanti corifei e colonne portanti dell’attuale governo, ora che fare? Certo, c’è meno gusto a criticare Travaglio, oggi che è diventato a pieno titolo uomo del regime: c’è meno gusto, ma forse qualche ulteriore motivo per farlo. Travaglio è un uomo facoltoso, presente in televisione più di qualunque leader politico e di qualsiasi star dello spettacolo o dello sport, unanimemente osannato dall’intero arco politico-culturale, e da tempo. Una volta arrivati gli encomi di Silvio Berlusconi (e di Daniela Santanché), cosa manca ancora perché il conformismo nazionale lo riconosca come sua massima e più mirabolante espressione, capace di tenere insieme governo e opposizione, destra e sinistra, apocalittici e integrati, underground e mainstream?

 

La predestinazione di Travaglio a rinfocolare e a identificarsi nel processo costituente del Movimento 5 stelle ha una storia antica. Era il settembre del 2007 quando si tenne il primo Vaffa-Day. Verso la sua conclusione, Beppe Grillo annunciò: “Ora vi voglio presentare quello che io vorrei come ministro di Grazia e Giustizia, eccolo lì: Marco Travaglio”. Scoppiano gli applausi. Il discorso fatto allora da Travaglio – meno di un comizio, una specie di invettiva per marcare la presenza e “lasciare il segno” – è comunque molto significativo. E tutto incentrato sull’esecuzione penale. Il primo bersaglio, facile, facilissimo, è Cesare Previti, perfetta rappresentazione iconica – per giunta titolare di una faccia, alla lettera, patibolare – dell’impunito, nelle diverse accezioni del termine (compresa quella vernacolare). Ad ascoltarlo, si deduce che la giustizia, ma anche la Giustizia, è punire. Il disordine e l’ingiustizia nascono dall’assenza, dalla non applicazione o dalla tenuità delle pene. L’irrilevanza del sistema penale e la sua inefficacia corrispondono a una situazione di generalizzata impunità. Che non è la manifestazione, certo, di una società responsabile, capace di garantire l’ordine e la convivenza pacifica tra cittadini mediamente ossequiosi verso la legge. Quell’impunità, all’opposto, è la condizione di un anarchismo di fatto. Un sistema, cioè, privo di leggi o dotato di leggi non applicate e non applicabili perché tutti, esattamente tutti, le violano. E’, appunto, l’Italia a delinquere di un memorabile titolo a piena pagina del Fatto (29 settembre 2012). Ovvero una concezione paranoica e regressiva della società dove la politica è “liquame”, gli immigrati sono “clandestini” e non c’è possibilità alcuna di emancipazione se non attraverso un’attività delatoria di massa.

 
Lo ripetiamo: siamo nel settembre del 2007 quando Beppe Grillo formula l’auspicio e la profezia di un Travaglio “ministro di Grazia e Giustizia”. E lui la prende maledettamente sul serio. Da allora a oggi il percorso pubblico di Marco Travaglio è di una coerenza allucinata. Non solo ribadisce quotidianamente quelle sue quattro idee sulla pena, ma si comporta come ministro ombra, controllore e monitore di quanti sono in carica come ministri della Giustizia nel governo. Dileggiando e mettendo al bando i provvedimenti non condivisi, definendo criminali quelli considerati lassisti, gridando allo svuotacarcere per ogni misura che rispetti i diritti fondamentali della persona. E ciò fino a quando all’incarico di ministro della Giustizia non arriverà un esponente dei 5 stelle come quell’Alfonso Bonafede che vorrebbe segnalarsi quale smantellatore del principio garantista e liberale della prescrizione: in presenza di una figura così sbiadita, non c’è alcun bisogno che Travaglio assuma in prima persona l’impegno così oneroso (e così noioso) del dicastero della Giustizia. E’ comunque lui – come nel caso della prescrizione (“Stupri, truffe, spaccio: i reati che la Lega vuole prescritti”, il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2018) – a condurre la battaglia per la liquidazione di una norma che considera letale. Ennesima profezia che si autoavvera.

 

Tutto ciò emergeva già analizzando con attenzione due sue performance televisive. La prima risale alla puntata di “Servizio pubblico” (11 gennaio 2013), in cui Marco Travaglio e Silvio Berlusconi, campioni dei due schieramenti chiamati allo scontro ultimo, finirono per avvinghiarsi in una simbiosi da coppia consumata. E non poteva essere altrimenti: stessa accidia morale (tetra nel primo, ilare nel secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza. Non uno scontro, e neanche una mediazione, ma una sintonia perfetta. Fino alla conclusione. Basti pensare al gesto finale di Berlusconi, quando si alzò per spolverare con un fazzoletto la sedia del suo avversario. Gesto che avrebbe ben potuto compiere, con le medesime movenze, lo stesso Travaglio.

  

A distanza di cinque anni, a “Otto e mezzo” (15 giugno 2018), Travaglio ha assunto uno stile militante, una postura aggressiva, una retorica partigiana. In discussione c’è il ruolo dell’avvocato Luca Lanzalone, messo a capo dell’Acea da alcuni dei massimi esponenti dei 5 stelle e accusato di corruzione e traffico di influenze illecite. Il direttore del Fatto replica ai suoi interlocutori con un unico argomento, enfaticamente reiterato in un crescendo esasperato della tonalità vocale: “E allora Sala?” (il sindaco di Milano che ha ricevuto finanziamenti dalla stessa fonte ma, avendoli dichiarati, non ha commesso alcun illecito). Nel corso dell’intera esibizione, insomma, la strategia oratoria di Travaglio si avvale di uno e un solo espediente dialettico, una delle tante declinazioni possibili del sintagma del riflesso: “e allora il Pd?”. La tensione crescente, la gestualità che si irrigidisce, la voce che si fa querula formano l’immagine perfetta dello Zelante. Di chi interpreta il proprio ruolo con un eccesso di identificazione nella difesa eroica dell’indifendibile.

 

Siamo in presenza di un perfetto esponente dell’attuale sistema di potere. La critica nei suoi confronti è quindi tanto più necessaria in quanto il suo oggetto corrisponde a un processo storico non irrilevante.

 

Ritorniamo sul senso di quelle due trasmissioni televisive. Il peso politico di Berlusconi si è oggi drasticamente ridotto e resta, pur significativamente ridimensionata, solo la sua capacità evocativa, il richiamo simbolico a un sistema di potere e a una mentalità tuttora diffusa. Berlusconi rimane sì il nemico principale, ma come maschera della scena pubblica e simulacro di un carattere nazionale. Nel momento in cui Berlusconi si riduce a un Tipo antropologico, perde gran parte del suo interesse perché – non va mai dimenticato – lo sguardo di Travaglio è sempre politico-giudiziario. E, infatti, il ruolo svolto da Berlusconi è stato assunto, in quella cosmogonia, da Matteo Renzi. Sullo sfondo c’è il dirompente successo elettorale dei 5 stelle (febbraio 2013), che si consolida nel corso dell’intera legislatura fino alle elezioni politiche del 4 marzo del 2018, quando i 5 stelle conquistano oltre il 32 per cento dei consensi. E’ questa la traiettoria che promuove e accelera il processo di istituzionalizzazione di Travaglio e la sua consacrazione in uomo di regime. E’ fisiologico che ciò accada. Tutti i giornalisti sono di parte: poi, alcuni lo dichiarano, altri lo dissimulano. Di Travaglio, non si può dire che si sia trovato dalla parte dei vincitori o che sia saltato sul loro carro. Significherebbe sottovalutarlo. Travaglio, quella vittoria, ha contribuito a costruirla più di tanti altri. Ha seminato, più di tanti altri, la mentalità che ha agevolato quel successo. E’ naturale che ora se ne faccia orgoglioso alfiere. Ed è proprio qui che rivela la sua debolezza. E che la condivisione dei contenuti e del programma diventa adesione militante, eccesso di zelo, entusiasmo non controllato. E’ quanto si manifesta in numerosissimi episodi, quando diventava necessario difendere i 5 stelle, le loro scelte, i loro esponenti (esemplare la trattazione della vicenda giudiziaria di Raffaele Marra).

 

Con il voto del 4 marzo 2018 e la formazione del governo 5 stelle-Lega è andato al potere qualcosa che è stato definito “populismo”. Al di là dell’inutile disputa sulla maggiore o minore appropriatezza del termine, non c’è dubbio che esso evochi bene quell’agglomerato di umori e passioni, sentimenti ed emozioni che, dopo aver covato nel profondo silenzioso e rimosso e dopo periodiche emersioni, finalmente si appropria della scena e la occupa con tutti i mezzi disponibili. Oggi, allora, criticare Travaglio equivale a criticare la cultura dominante, il senso comune, la mentalità corrente. E le loro forme di rappresentanza istituzionale e il sistema mediatico che li esprimono e di cui sono espressione (oltre al web e a un incalcolabile numero di trasmissioni televisive, innanzitutto giornali come il Fatto Quotidiano, ma anche la Verità e in parte Libero).

 

C’è poi un significativo tratto, diciamo così, di disinvoltura della direzione del Fatto, rivelato dagli stessi giornalisti del quotidiano. In un comunicato dell’assemblea di redazione del 19 giugno del 2018, di cui quelli che lo stesso Travaglio chiama “giornaloni” hanno taciuto, si può leggere: “Non possiamo che rallegrarci della circostanza che, nelle casse dell’Editoriale Il Fatto Spa, ci fossero risorse tali da indurre gli azionisti, compresi i soci giornalisti, ad assegnarsi, lo scorso maggio, un dividendo di due milioni di euro. Tutto ciò è soprattutto merito di chi lavora senza risparmio nel giornale […]. Desta tuttavia qualche perplessità, al di là della legittimità formale che non è in discussione, la scelta di dividere tra gli azionisti anche la riserva straordinaria che non viene certamente prosciugata […], ma che poteva essere impiegata per aumentare già quest’anno la produzione e accrescerne la qualità. […] Da almeno tre anni l’azienda non paga il premio di produzione annuale e ci invita ad accettare sacrifici in nome del comune interesse ogni volta che poniamo il problema degli orari di lavoro che, per molti di noi, superano qualsiasi limite contrattuale e sottolineiamo le carenze d’organico, nonché la situazione di collaboratori inquadrati e retribuiti in modo inadeguato”.

 

La presidente Cinzia Monteverdi risponde così: “E’ con discreto stupore che la Società Editoriale Il Fatto legge il comunicato dell’assemblea di redazione del Fatto Quotidiano e de ilfattoquotidiano.it che interviene sulle decisioni adottate, in piena legittimità, dall’assemblea degli azionisti. Si tratta di un’interferenza senza precedenti perché nessuna società editoriale fa le sue scelte sulla base delle richieste della rappresentanza sindacale […]”.

 

D’altra parte, poiché Travaglio è indubitabilmente persona intelligente e accorta, non stupisce che, in un editoriale del 27 ottobre del 2018, egli arrivi a criticare severamente il vicepremier Luigi Di Maio. Le cui repliche al presidente della Bce (“Draghi avvelena il clima invece di tifare per l’Italia”) sono definite da Travaglio come “sgangherate”, segno di “una buona dose di infantilismo e di inadeguatezza”, “non degne di un vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo” e “neppure di un leader politico che dovrebbe essere sintonizzato con i cittadini o, quantomeno, con i suoi elettori”. In quello stesso articolo, Salvini ottiene nuovamente l’epiteto di Cazzaro Verde, che si era guadagnato a meno di un mese dall’insediamento del governo Conte quando l’editoriale di Travaglio si intitolava proprio a lui e ne ripercorreva la carriera politica. “Diversamente da Di Maio, che per tentare di fare un governo, anziché cambiare tutto subito, s’è accontentato di cambiare qualcosa nel tempo, il Cazzaro Verde ha continuato a ripetere – restando serio – che gli basta l’incarico per, nell’ordine: trovare una maggioranza (in due minuti), fare il governo (subito), espellere tutti i clandestini e bloccare tutti i nuovi sbarchi (oggi pomeriggio), cancellare la Fornero (domattina), tagliare le tasse all’aliquota unica del 15 per cento (domani sera) e accontentare il M5s con mezzo reddito di cittadinanza (entro dopodomani al massimo). E solo nei primi due o tre giorni: seguiranno altre cuccagne” (6 maggio 2018).

 

Travaglio intuisce che un surplus di identificazione col nuovo potere, uno zelo troppo ossequioso e gregario possono danneggiarlo, allontanando coloro che, pur consenzienti, intendono conservare spirito critico e autonomia di giudizio. Il Fatto, dunque, non rinuncia a una quota (variabile) di contestazione, ma la devia, indirizzandola pressoché sempre verso una sola componente del sistema: quella impersonata dalla Lega. Si produce, così, un singolare fenomeno politico: la mezza opposizione (che non è l’opposizione a metà, ovvero moderata). L’opposizione a targhe alterne, part time, a cottimo, vedo-non vedo. L’opposizione a taglio, come la pizza bianca. Dunque, favorevole a Di Maio, contraria a Salvini (il che consente ad altri giornalisti, al Giornale e a Forza Italia di fare esattamente l’opposto).

 

Travaglio e la vittoria dei Cinque stelle. Ha seminato, più di tanti altri, la mentalità che ha agevolato quel successo. E’ naturale che se ne faccia alfiere. Ma è proprio qui che rivela la sua debolezza: la condivisione dei contenuti e del programma diventa adesione militante, eccesso di zelo, entusiasmo non controllato

E tuttavia, secondo molti osservatori, la Lega sta “mangiando” una porzione considerevole dell’elettorato 5 stelle: tra i votanti delle due formazioni si evidenzia una progressiva sovrapposizione, in particolare su alcuni temi e specialmente su quello della giustizia. Tra i molti dati che lo confermano, anche un recentissimo sondaggio dell’Istituto Ipsos che segnala come su questioni cruciali, quali l’inasprimento delle pene per i reati di corruzione, la riforma della legittima difesa, l’impiego di agenti infiltrati, le posizioni tendono a coincidere.

 

Al di là, insomma, di differenze di programma anche profonde, in quell’agglomerato di umori e passioni andati al governo del paese, pure sfilacciato e sfrangiato, ci sono un filo conduttore e un collante comune. Il primo è lo spirito di rivalsa, il fattore unificante è una certa idea di giustizia. Mettendo insieme le due componenti tutto finisce col chiarirsi nitidamente. La tendenza generale è quella di un movimento revanscista per la giustizia. Per questo riteniamo che siano la concezione e la pratica della stessa giustizia, come emergono confusamente da quell’agglomerato di umori e passioni e come si esprimono chiaramente nelle parole, negli atti e nei programmi degli attuali governanti, a dover essere la materia privilegiata da analizzare.

 

Con due avvertenze. La prima: per quanto riguarda la proiezione governativa esistono indubitabilmente differenze significative tra i due partiti della coalizione. La seconda è che, a questo punto, il ruolo di Travaglio risulta ormai ridotto al lumicino in quanto le forze che ha contribuito a suscitare si sono rese autonome e possono fare a meno di lui. Tuttavia, prenderlo seriamente e riconoscergli un peso, ancorché oggi assai minore, è utile sul piano della battaglia culturale e ideologica.

  

Verbali volant

Come si incarna quel movimento revanscista per la giustizia in una vicenda specifica di particolare rilevanza e nell’interpretazione che ne dà Marco Travaglio?

  

Nei primi giorni di luglio, dopo la dichiarazione di chiusura dei porti italiani alle imbarcazioni delle Ong e la morte di tanti profughi nel tratto di mare davanti alle coste libiche, Libera e diverse associazioni lanciano una iniziativa che invita a indossare una maglietta rossa per “fermare l’emorragia di umanità e per un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà”. Il direttore del Fatto Quotidiano, toccato dal ritrovare tra i testimonial incamiciati più ardenti “decine di amici che hanno partecipato a tante battaglie del Fatto”, scrive il 10 luglio un editoriale teso a liberare “una bella iniziativa per non dimenticare una tragedia quotidiana” dal rischio di trasformarsi in “arma di distrazione di massa dai veri responsabili”. L’opera di salvaguardia della bella iniziativa procede per progressivi circoli fraseologici di ristabilimento della verità. Tutti svarioni o errori, puntualmente segnalati da decine di dati e analisi che a quell’articolo rispondono. Qui ne ricordiamo uno fra i tanti.

   


Il connubio “acclarato” tra Ong e scafisti: un metodo che invece di andare dalla prova alla verifica e dalla verifica al pronunciamento, fa il percorso inverso. Il sublime aforismo di Lec: “Beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati”. La purezza come categoria assoluta e tratto identitario


  

Il “metodo Travaglio” procede imperterrito nel tempo e ha una formidabile potenza onnipervasiva, applicandosi implacabile anche nei confronti di ciò che può venir considerato “di sinistra” (e dunque gradito a una parte dei suoi lettori). Ma la sinistra a cui guarda Travaglio è, oggi più che mai, una sinistra di regime

Travaglio sostiene che ci sia un legame fra alcune Ong e gli scafisti libici “ormai acclarato e addirittura rivendicato dalle interessate”. Il che costituirebbe non ancora un reato, dal momento che nella stramba materia penale che si risolve in un confessionale “i reati presuppongono il dolo, cioè l’intenzione di sostenere i trafficanti, che non è il movente delle Ong”, ma un fatto, un fatto vero, scrive Travaglio. Che esista una corrispondenza biunivoca tra l’insieme della verità e quello dei fatti è materia tutta aperta e sono tanti i commentatori che rimangono dubbiosi circa la tautologica inferenza che proverebbe, nella prosa nudista di Travaglio, il connubio tra Ong e trafficanti. Fra gli altri, il conduttore televisivo Diego Bianchi, in arte Zoro, che formula una richiesta di spiegazioni: “per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio “acclarato” da chi e “rivendicato” da chi”. La mattina dopo, 11 luglio, un nuovo editoriale raccoglie la risposta di Travaglio, che così argomenta: “Gentile Zoro, sul web può trovare i filmati, le fotografie e l’audio delle intercettazioni dei responsabili di un’Ong, la tedesca Jugend Rettet, e della sua nave Iuventa sequestrata un anno fa a Trapani perché – spiegò il procuratore Ambrogio Cartosio – “è accertato che i migranti vengono scortati dai trafficanti libici e consegnati non lontano dalle coste all’equipaggio che li prende a bordo della Iuventa. Non si tratta dunque di migranti ‘salvati’, ma recuperati, consegnati. E poiché la nave della Ong ha ridotte dimensioni, questa poi provvede a trasbordarli presso altre unità di Ong e militari”. Le indagini, avviate dalla procura di Trapani nell’ottobre del 2016, conducono alla raccolta di elementi indiziari in ordine all’utilizzo della motonave Iuventa (della Ong tedesca Jugend Rettet) per condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; il 2 agosto del 2017 il fascicolo d’inchiesta, ancora a carico di ignoti, sfocia nel sequestro della Iuventa, fermata alcune ore prima dalle motovedette della Guardia costiera e scortata fino a Lampedusa per accertamenti. In quella stessa data il procuratore di Trapani afferma che “un collegamento stabile tra la Ong e i trafficanti libici è pura fantascienza” e da quel giorno trascorre quasi un anno senza che l’indagine porti all’avvio di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna sentenza. Ma per Travaglio l’indagine ha già dimostrato che le Ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa. Per favolosa coincidenza, notata da Massimo Bordin nella sua rassegna stampa quotidiana su Radio radicale, il giorno successivo agli editoriali di Travaglio, 12 luglio, il Fatto pubblica che la procura di Trapani il giorno precedente (11 luglio), ha fatto partire venti avvisi di garanzia per il personale della nave Iuventa e di altre Ong coinvolte nella vicenda, che rimanda al sequestro della nave avvenuto più di un anno prima. Esattamente quella vicenda richiamata da Travaglio nell’editoriale dell’acclaramento e della rivendicazione. “Tanto è acclarata la faccenda che gli avvisi di garanzia sono partiti ieri, non la sentenza, ma gli avvisi di garanzia, che in un anno non erano mai partiti”, conclude Bordin.

 

Certo, è possibile che la vicenda giudiziaria della Iuventa conduca a una serie di rinvii a giudizio e sia l’andamento delle indagini che l’orientamento più recente della procura sembrano procedere proprio in tal senso. Ma questo non modifica di una virgola il giudizio espresso: mentre infatti la polemica si sviluppava, sui giornali e sui social media, nulla di acclarato né tantomeno di rivendicato si era mai manifestato.

  

Dedicare tanto spazio a questo singolo episodio ha un senso preciso: innanzitutto perché dimostra che il “metodo Travaglio” procede imperterrito nel tempo e ha una formidabile potenza onnipervasiva, applicandosi a una questione che – in apparenza – sembrerebbe confermare l’imparzialità dello stesso Travaglio, implacabile anche nei confronti di ciò che può venir considerato “di sinistra” (e dunque gradito a una parte dei suoi lettori). Le cose non stanno così. La sinistra a cui guarda Travaglio è, oggi più che mai, una sinistra di regime, una sinistra che si fonderebbe sulle idee e sulle aspettative che politicamente si esprimono nel partito 5 stelle e che non ha alcuna simpatia, in realtà, per il mondo dove operano le Ong, i movimenti sociali, i conflitti collettivi.

  

In seconda battuta, quella esasperazione della cultura del sospetto di chi, per dimostrare le proprie tesi, pubblica verbali fino a quel momento sconosciuti conduce a un rovesciamento quasi completo del procedere logico del giudizio, che invece di andare dalla prova alla verifica, e dalla verifica al pronunciamento, fa il percorso inverso. Un meccanismo paradossale che, senza sollevare perplessità, è diffusamente accettato. Ed è lo stesso che guida la mobilitazione morale e culturale che costituisce la molla del movimento revanscista per la giustizia di cui qui scriviamo.

 

Per questo, altrettanto paradossalmente, il Movimento 5 stelle e la sua area di consenso non inseguono l’onestà, quanto piuttosto la punizione della disonestà. La differenza è enorme. Nel primo caso, si fa un percorso virtuoso che può riguardare esclusivamente minoranze circoscritte e fasi temporali brevi e febbrili. Possono affermarsi minoranze intransigenti e incorruttibili, che assumono provvisoriamente la leadership, ma il sentimento popolare al cui interno si muovono è tutt’altro. Non un percorso di ascesi, ma una guerra di rappresaglia. Non una missione penitenziale, ma una strategia di scorribande. Ciò che muove, allora, ciò che sta nel fondo e nell’oscurità è propriamente un umore. Ed è lo stesso che si agita nelle viscere del cittadino, sia che si rivolga al Movimento 5 stelle, sia che si rivolga alla Lega.

 

Nel secondo caso, tutte le energie e tutti i sentimenti, le passioni e le aspirazioni, la domanda di equità e quella di redistribuzione del reddito e del potere finiscono con il concentrarsi in un bisogno di giustizia interamente volto all’indietro. Regressivo e repressivo. Nel clima attuale quel rancore appena sopra richiamato si indirizza sì contro i potenti, o presunti tali, ma più per umiliarli e mortificarli che per sovvertirli. E a questo sembra limitarsi l’equità sociale che sarebbe propiziata ora dalla volontà divina, ora da una rivoluzione dal basso o da una politica di egualitarismo imposta autoritativamente. In questo modello di relazioni sociali, la giustizia sta solo in quell’arretramento generalizzato, in quel processo di livellamento verso il basso. L’equivoco si basa su un luogo comune diventato ormai un consolidato modulo interpretativo. L’idea, cioè, che elettori e militanti ritengano la leadership nazionale e quelle locali dei 5 stelle costituite dai “migliori”, da coloro che si presume siano i più onesti, i più incorrotti, i più virtuosi. Non è affatto così. Elettori e militanti ritengono, all’opposto, che le leadership 5 stelle siano esattamente come loro: onesti ma non perfettamente, corrotti ma non troppo, un po’ virtuosi e un po’ viziosi. Come tutti noi. Come tutti, cioè, rubano le penne ovunque le trovino, non pagano il biglietto dell’autobus e, se possono, non battono lo scontrino. Questa lettura disincantata e nichilista ha perso ogni tratto drammatico e qualunque dimensione, per così dire, antropologica, per immeschinirsi in un dozzinale cinismo e in un indifferentismo da quattro soldi. Insomma, l’esaltazione della mediocrità e della contraffazione come carattere nazionale. In questo scenario, la classe dirigente 5 stelle non costituisce una élite titolare di una qualunque superiorità morale, ma si riduce alla rappresentanza di poveracci, come noi, che si arrabattano per evitare il peggio e per dare l’immagine migliore possibile di sé stessi. Questa classe dirigente dispone di tutt’altre doti: ed è in ragione di queste che si definisce, appunto, classe dirigente. Doti propriamente agonistiche: energetiche, tecniche, organizzative, oratorie, agitatorie, declamatorie, gestuali, attoriali, insomma “espressive”. Al punto che l’annuncio, il più tonitruante possibile, funziona in sé e per sé: senza alcuna necessità di applicazione e, tantomeno, di verifica. E’ questo il solo fine perseguito e l’unico obiettivo di equità prospettato. Ancora è questa, a ben vedere, la radice più profonda del giustizialismo: una volontà di rivalsa, che prevede sanzioni uguali al fine di una perequazione obbligata e non di una libera competizione per l’eguaglianza capace di “innalzare”. Emancipare, cioè.

  

Il peccato non è reato. E amen

Per dimostrare il carattere strumentale e pretestuoso delle accuse loro rivolte, i giustizialisti spesso replicano evidenziando come, nella lingua inglese, la categoria che li denota – il giustizialismo, appunto – non esista. E questo, e davvero non capiamo il perché, viene considerato un ottimo argomento. Quasi che la parola esaudisse il concetto e fosse una sorta di mera espressione dialettale, un epiteto provinciale, una definizione interamente dipendente da un esausto chiacchiericcio domestico. Ma – oh sorpresa – la parola esiste nella lingua tedesca (Gerechtigkeitsfimmel) e il suo significato nel dibattito pubblico contemporaneo è esattamente corrispondente a quello italiano. In tedesco, per la verità, il termine è ancora più illuminante, dal momento che il secondo termine (der Fimmel) che compone quel Gerechtigkeitsfimmel in italiano è traducibile con: fissa, mania e addirittura “fregola”. Il significato è, dunque, univoco e richiama orientamenti tutti relativi all’area della patologia, più o meno acuta; siamo in presenza di qualcosa di molto simile a una nevrosi, che porta a comportamenti esasperati o, comunque, alterati. L’amore per la giustizia che trascende in uso deformato della stessa. Ma non si tratta solo di un’interpretazione scorretta o squilibrata, e nemmeno di un abuso: ciò cui si assiste è una sorta di rovesciamento della giustizia – attraverso una sua applicazione paranoica (ecco la mania) – nel suo contrario. E’ la giustizia che diventa l’ingiustizia.

 

Viene in mente un sublime aforisma di Stanislaw Jerzy Lec, “beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati”. Gli “affamati” di Lec bramano a tal punto la giustizia da correre il rischio e pagare il fio del suo ottenimento: l’assoluto affermarsi del Giusto può essere a tal punto totalizzante da comportare il sacrificio di coloro che l’hanno perseguito e che per esso si sono immolati. Al di là delle apparenze, non c’è alcun gioco di parole, se non quello voluto dal divertito esercizio letterario, bensì un lungimirante monito morale. E un richiamo a due riflessioni: la prima attiene all’idea stessa di assoluto, qui inteso come concetto opposto a quello di finitezza (non l’assoluto, pertanto, come evocazione del trascendente, bensì come pretesa di totalità). L’affamato di giustizia che finisce giustiziato conosce sulla propria pelle il connotato onnicomprensivo di un valore (quello della giustizia) che si afferma senza contraddizione e senza eccezione, senza limiti e senza vincoli. Esattamente un assoluto, che nega la finitezza propria dell’attività umana, e, tanto più, di quella attività così profondamente calata dentro la materialità delle relazioni sociali e dentro la pesantezza e la fatica del conflitto e della sua composizione, del danno e della sua riparazione, della ferita e della sutura. Che è, poi, l’aspirazione più alta, ma comunque finita, dell’amministrazione della giustizia umana in una società umana. Non un’ambizione globale, dunque, né una meta finale e nemmeno un disegno generale: un’attività, piuttosto, che si muove tra mille insidie, percorre terreni sdrucciolevoli, rischia costantemente di mettere un piede in fallo.

   

   

Non solo: quell’attività di giustizia è sempre necessariamente imperfetta, controversa, contraddittoria. Ed è appunto questo l’ulteriore fondamento della sua finitezza: essa lascia sempre vittime, anche quando rende loro giustizia. Non risarcisce mai quando risarcisce. Non compensa quando vuole equilibrare. Non soddisfa mai, in altre parole, la fame di giustizia e, se lo facesse, dovrebbe andare fino in fondo. Fino, cioè, a giustiziare chi giustizia esige. Se si persegue un’idea di giustizia assoluta e senza contraddizione (senza limiti e vincoli) sarà fatale, insomma, che gli affamati di giustizia vengano giustiziati.

 

Ma quelle due righe di Lec consentono di trarre un’altra, ancor più essenziale, lezione. La giustizia non può essere assoluta non solo perché è affare di uomini, ma anche perché la sua ipostatizzazione – da regolazione del conflitto e sanzione del reato a virtù suprema – porta a una conseguenza fatale: o la giustizia diventa pura astrazione e mero paradigma di riferimento ideale e, così, si separa dalla vita sociale, oppure si fa religione. Ovvero quella sua qualità astratta diventa teologia, speculazione intellettuale sul rapporto col trascendente, che infine precipita nel mondo aggregando un certo numero di seguaci. In questi ultimi, il culto della giustizia come astrazione virtuosa si traduce, nel concreto della vita quotidiana, in una identità confessionale. Tale identità parte dal presupposto dell’appartenenza a una comunità titolare di ciò che costituisce il fondamento di ogni teologia: la conoscenza della verità e l’accesso al bene.

   

La giustizia non può essere assoluta non solo perché è affare di uomini, ma anche perché la sua ipostatizzazione, da regolazione del conflitto e sanzione del reato a virtù suprema, porta a una conseguenza fatale: o la giustizia diventa pura astrazione e, così, si separa dalla vita sociale, oppure si fa religione

Ma l’aforisma di Lec si presta a un’ulteriore lettura, che ne evidenzia il suo significato più semplice e perfino elementare. Quegli “affamati di giustizia” che finiranno giustiziati richiamano un dato di bruciante attualità, che percorre la cronaca politica lungo gli ultimi due decenni. Un detto popolare, attribuito non sappiamo quanto giustamente a Pietro Nenni, recita così: il puro più puro che epura l’impuro. Anche in questo caso, oltre lo scintillio del funambolismo delle parole, emerge una lezione morale quanto mai coerente con quanto finora detto. Anche la purezza (“onestà, onestà”) è per sua stessa natura categoria assoluta. In altre parole, non si può essere “un po’ puri” o “abbastanza puri”. Se a quello stato si attribuisce un limite o si riconosce una carenza, crolla l’intera costruzione etica che si pretendeva di assegnargli. Ma proprio l’orrore per ogni limite e per ogni carenza di quello stato di purezza costituisce il vincolo essenziale di quanti a quello stesso stato guardano come alla fonte dell’autorità da cui dipendono. La preservazione di quella purezza diventa allora, oltre che il legame associativo fondamentale, il primo e unico tratto identitario, la missione da perseguire, il campo della battaglia da combattere. Ne derivano una mentalità e una postura belligeranti, un vocabolario militare, un repertorio d’azione marziale. L’appartenenza o meno a quel sodalizio, fondato sul riferimento a quello stato di purezza, si trasforma necessariamente in quello che, per alcune congregazioni religiose, è il voto di castità. La corrispondenza tra purezza e castità, che secondo dottrina e pastorale non è perfetta, risulta nei fatti pienamente sovrapponibile in quanto richiede una coerenza assoluta tra categoria astratta e comportamenti pratici. La disciplina che ne discende è di tipo forzatamente monacale, regolamentata da un codice meticoloso, causidico, parossisticamente rigido. Ciò finisce col determinare un clima generalizzato di costante sospetto e reciproca diffidenza, in cui ogni associato ha il duplice ruolo di sorvegliato e sorvegliante, investito da una funzione assai simile a quella di “poliziotto del cielo” (Büchner). Ora, tutto ciò potrebbe avere un suo senso all’interno di uno spazio circoscritto, definito da ragioni extramondane, come potrebbe essere appunto un monastero, un carmelo, una comunità di ricerca spirituale: ma nella società secolarizzata e nello spazio della vita pubblica, e tanto più in quello della sfera politica, quella purezza semplicemente non si dà (“Il peccato non è reato”, come ha ricordato in ultimo Annalena Benini su queste colonne). E non perché tutto è corrotto, ma perché è l’attività umana stessa che presuppone l’impurità. O meglio: la contraddizione, la caduta e la ripresa, l’errore e la riparazione. Dunque quella comunità fittizia, fittiziamente aggregata attorno a un ideale assoluto di purezza, è in realtà costantemente esposta e vulnerabile, e chi ne è parte sa che la propria permanenza dipende e dalla propria capacità di tenuta e dalla selezione degli associati. Ne deriva che il vero vincolo, quello più robusto e cogente, più che la reciproca solidarietà, è la delazione ininterrotta, e il meccanismo più incisivo di fidelizzazione è rappresentato dalle procedure dell’epurazione (ciò che soltanto può – attraverso l’atto di espulsione dell’impuro, appunto – restaurare l’originaria purezza). Tutto ciò, in quella dimensione ancora più fittizia del fittizio che è per sua natura lo spazio virtuale di Internet, diventa parossistica paranoia. Il sospetto e la denuncia ne sono le manifestazioni più frequenti e più efficaci. Se trasferiamo tutto ciò dal piano teorico a quello della cronaca politica quotidiana, l’effetto è addirittura grottesco. Basti un esempio. Dal maggio del 2012, quando Federico Pizzarotti venne eletto sindaco di Parma, all’ottobre del 2018, quando i ministri dei 5 stelle accettarono la realizzazione della Tap, molta acqua è passata sotto i ponti. E quello stato di purezza è come evaporato. O meglio: è stato strappato, sgualcito, sporcato. L’assolutezza della Regola ha subito pressioni, strattoni e lacerazioni. Ne sono conseguite deroghe, eccezioni e abusi. Ma, soprattutto, c’è stata una vera e propria Rivelazione. E’ emerso nitidamente un tratto culturale e antropologico dell’elettore-tipo dei 5 stelle, che aiuta a spiegare come non hanno incrinato il consenso – anzi – fatti quali la mancata “restituzione” di parte dei contributi promessi, gli episodi di acclarato malcostume o la grottesca vicenda di rimborsi spese equivalenti a tre volte un salario operaio. O ancora: quella sorta di condono che permise al senatore Elio Lannutti di candidarsi nonostante la regola che impone ai candidati grillini di non aver svolto incarichi con altri partiti; le mancate dimissioni di tre parlamentari del movimento (Sarti, Lannutti e D’Ippolito) condannati per diffamazione in primo grado; le frequenti anomalie nella documentazione dei rimborsi (il sito che li rendiconta è fermo da mesi) e la disparità di trattamento riconosciuta a diversi parlamentari; l’inosservanza dell’articolo del nuovo Statuto, che imporrebbe la formazione delle “liste dei candidati provvisorie nei Collegi metropolitani” “secondo il requisito della residenza all’interno del collegio plurinominale”.

 

La successione di questi fatti, e molti altri ancora, hanno indotto gli avvocati di Virginia Raggi a dichiarare, 48 ore prima della sua sentenza di assoluzione, che “il codice etico non è stato mai applicato”.

   

Nel ventre dello Stato

Infine. Colui che oggi è, per successione dinastica, il più importante leader – insieme a Beppe Grillo – del Movimento 5 stelle, intervistato dal Corriere della Sera, ha dichiarato: “Oggi possiamo conquistare grandi obiettivi e sono fiducioso che tra dieci anni magari non ci sarà nemmeno più la necessità di un Movimento perché la partecipazione dei cittadini sarà già intrinseca nello Stato” (Davide Casaleggio, 22 ottobre 2018). Concetto tanto fondamentale nella filosofia politica del Movimento 5 stelle quanto inquietante, e ultima, coerente e saldissima articolazione di quanto ricostruito fin qui.

  

Mantenendo i nervi saldi, senza enfatizzare l’allarme né esacerbare le grida di al lupo, al lupo, ma come si può non notare che l’idea che spinge la partecipazione collettiva verso l’assorbimento completo, verso la perfetta sussunzione, infine verso il divenire intrinseca allo stato (nello stato, secondo Casaleggio) costituisce il fattore essenziale di ogni totalitarismo?

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