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Elogio dei nuovi poteri forti

Stefano Cingolani

Dimenticate i vecchi borghesi. Dal magma del ceto medio emergono le nuove tribù che stanno cambiando il volto del paese. Non più banchieri o industriali ma avvocati, medici, architetti, commercialisti. Inchiesta su un’Italia formidabile che combatte a mani nude i deliri populisti

Per ritrarli non serve Pellizza da Volpedo, nonostante le manifestazioni torinesi delle “madamine” Sì Tav (così le hanno chiamate i pentastellati) o le mobilitazioni in stile sindacale delle associazioni “padronali”. La loro marcia è stata finora silenziosa, hanno scavato nel profondo come talpe, tuttavia adesso si chiedono se non sia arrivato il momento di esercitare un ruolo pubblico, quasi un paradosso per chi ha fatto del privato una ragion d’essere. “Presentatevi alle elezioni”, intima Matteo Salvini nella sua ebbrezza demoscopica. Forse prima o poi lo faranno, ma non è questo il punto. Stanno prendendo consapevolezza di sé ceti sociali che finora avevano guardato sostanzialmente a “lo suo particulare”, quasi orgogliosi di perseguire i propri interessi in splendida solitudine. Potremmo chiamarli i neoborghesi, certo diversi rispetto alla borghesia cantata da Karl Marx; sì cantata, non c’è parola che esprima meglio quel che è riuscito a scrivere nel “Manifesto” del 1848: “La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche… Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi”. Solo settant’anni dopo Max Weber terrà all’università di Monaco le sue lezioni sulla scienza e la politica come professione. La eulogia marxiana non si ferma qui: “La borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi” (che cos’è se non la globalizzazione contro la quale si rivoltano oggi i populisti?). E ancora: “La borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare” (sembra quasi Rudyard Kipling e la sua difesa del colonialismo). Insomma, “durante il suo dominio di classe appena secolare ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero fatte tutte insieme le altre generazioni del passato”. E Marx non aveva ancora idea di che cosa avrebbe generato 170 anni dopo.

 

La loro marcia è stata finora silenziosa, tuttavia ora si chiedono se non sia arrivato il momento di esercitare
un ruolo pubblico

Industriali e banchieri vecchio stile sono sempre più chiusi nelle loro roccaforti, trasformati in una aristocrazia del capitale

Secondo il filosofo di Treviri, che a Londra impara l’economia e pratica l’agitazione politica, la borghesia nutre in seno la propria distruzione: è la classe operaia e la rivoluzione comunista. Oggi potremmo dire che ha covato altri rancori, altre invidie e altri soggetti sociali, non più la classe, ma il general-generico popolo si ribella contro la rivoluzione borghese e cosmopolita con la sua controrivoluzione plebea e sovranista. L’Italia è la punta avanzata di questo sommovimento con una sua chiara specificità perché, sostiene Giuseppe De Rita, “a differenza della Germania, della Francia, dell’Inghilterra, qui il ceto medio non è riuscito a diventare borghesia. E’ sempre rimasto sostanzialmente un ceto medio, un magma sociale che sobbolle proprio perché non riesce a fare quel salto. La borghesia ha coscienza di sé e delle proprie responsabilità sociali. Si fa anche carico di un interesse generale. Il ceto medio no. Aspira a diventare borghesia, ma non ci riesce”. Mentre in Francia la borghesia creava un Secondo impero con Luigi Bonaparte detto Napoleone III, in Inghilterra ricacciava i Lord nelle loro tenute di campagna e nella Germania bismarckiana si nutriva di junker diventati industriali, in Italia il censimento del 1881 contava, su una popolazione attiva di 16 milioni di persone, solo 650 mila capitalisti (proprietari, imprenditori, dirigenti, commercianti), 6 milioni di braccianti e 3 milioni di operai, 6 milioni di artigiani, coltivatori diretti, fittavoli e coloni, insomma i ceti medi. Le cose cambieranno in parte nell’età giolittiana e nel secondo dopoguerra con il miracolo economico, cioè le due uniche epoche di intenso sviluppo e forte modernizzazione del paese, ma resterà una debolezza di fondo fino ad arrivare alla decomposizione sociale contemporanea. Eppure, dal magma deritiano si stacca qualcosa che proprio in Italia non si era ancora visto.

 

I nuovi borghesi non sono gli industriali o i banchieri vecchio stile sempre più chiusi nelle loro roccaforti, le torri di vetro e cemento nel cuore delle città globali, trasformati ormai in una aristocrazia del capitale. Molti di loro vivono di rendita, altri hanno tirato i remi in barca (anzi nel loro caso sarebbe più appropriato parlare di panfilo). Ma c’è anche chi si è fatto professionista. Prendiamo Carlo Pesenti, erede di una delle grandi famiglie del capitalismo italiano, per decenni simbolo dell’establishment: venduta la Italcementi, gestisce denari suoi e di altri con il fondo Clessidra e la società di famiglia. Che cosa fa se non il professionista della finanza? Gianni Tamburi, uno dei primi in questo campo, ha introdotto in Italia la formula del club deal, che significa mettere insieme le competenze di industriali, dirigenti d’azienda e finanzieri; così, ha raccolto l’adesione di nomi come Marzotto, Branca, Lavazza e molti altri. Non è una novità assoluta, nei paesi anglosassoni esiste da tempo, Tamburi, un romano che si è milanesizzato, ha avviato questa attività nel 2002, ma è la grande crisi ad averla rilanciata. La professionalizzazione del capitale s’accompagna con la trasformazione dei professionisti in capitalisti e questa è la novità. Non solo diventano consulenti di imprese medie e anche grandi, ma si fanno imprenditori essi stessi. Ciò vale per gli avvocati, per gli architetti e gli ingegneri, per i commercialisti, e anche, nel loro specifico, per i medici, che tra tutti sono emersi come punte di eccellenza in Italia e all’estero.

 


Illustrazione di Makkox 


 

Racconta al Foglio Francesco Gianni, uno dei maggiori avvocati d’affari italiani: “Quando trent’anni fa io e Gianbattista Origoni abbiamo fondato questo studio, eravamo dei pionieri. Dopo la laurea alla Sapienza decisi di andare a Londra e poi negli Stati Uniti alla Michigan Law School. Pensi che in Inghilterra ero l’unico italiano a studiare Legge”. Sembrava una scelta eccentrica, invece ha fatto da apripista. “Eravamo io e Roberto Casati, con il quale ci siamo incrociati a Detroit: io dal King’s College, lui dalla Columbia di New York. Non c’è dubbio che in Italia siamo stati lenti rispetto non solo agli anglosassoni, ma anche ai francesi e ai tedeschi. Oggi la mentalità sta cambiando ed è arrivata alla ribalta una generazione più aperta al mondo, pronta a cogliere le nuove opportunità create dalla globalizzazione”. Ricorda Casati, che da marzo è diventato partner di Linklaters, law firm britannica fondata nel 1836, una del “cerchio magico” londinese, oggi multinazionale con oltre duemila avvocati in 20 paesi: “Credo di essere l’unico avvocato italiano della mia generazione ad aver passato circa otto anni negli Stati Uniti conseguendo una vera e propria laurea in Legge alla Columbia Law School ed esercitando poi la professione come avvocato americano a Wall Street da Sullivan & Cromwell, a New York. La mia idea è sempre stata quella di uno studio internazionale, col desiderio di lavorare nel mondo e in una struttura meritocratica”. Quando decise di andare all’estero “in Italia non c’erano studi stranieri, se non il piccolo californiano Graham & James e Baker McKenzie. Era ancora quel mondo in cui dopo aver fatto il praticante, se non eri figlio d’arte dovevi crearti il tuo studio, altrimenti eri destinato a rimanere il secondo, terzo, quarto. Per me l’internazionalità è stata una via di emancipazione professionale e culturale: scelsi di sparigliare le carte e di andarmene. Sono anni antecedenti ai grandi investimenti stranieri in Italia, con un sistema economico e finanziario molto chiuso”. E poi la chiamano fuga di cervelli: l’esperienza di professionisti come Gianni e Casati ha aperto le finestre, ha portato aria fresca, conoscenza del mondo, un modo nuovo di intendere la professione rispetto all’èra dei principi del foro o dei prestigiosi studi dei baroni, le boutique dei professori universitari, alcuni dei quali passavano alla politica, due nomi per tutti: Bruno Visentini e Guido Rossi, o Manlio Brosio che per fare il diplomatico ha lasciato lo studio torinese a Franzo Grande Stevens, “l’avvocato dell’Avvocato”.

 

Non amano essere chiamati rainmaker, all’americana, eppure sono maghi della pioggia, quelli che fanno accadere le cose, che trasformano le aziende, che cambiano il volto dell’industria e dei servizi. Hanno curato la maggior parte delle fusioni e delle acquisizioni dando una spinta all’economia italiana in cerca di una flebile ripresa, una funzione di carattere collettivo, dunque, anche se ha fruttato loro fior di profitti. I principali studi italiani sono ormai delle imprese di media taglia, con fatturati annui che superano i cento milioni di euro. In testa c’è una trojka: oltre a Gianni Origoni Grippo Cappelli, spiccano Bonelli Erede guidato da Stefano Simontacchi che ha da poco avviato anche un “progetto Africa”, e Chiomenti che punta molto sull’innovazione digitale. “Anche la nostra professione – spiega il managing partner Filippo Modulo – attraversa una distruzione creativa. Così abbiamo promosso il primo Premio Chiomenti Diritto e Innovazione digitale per selezionare neolaureati e laureandi in Giurisprudenza con una specifica competenza nelle tecnologie. Ogni anno arrivano migliaia di curricula. Noi cerchiamo eccellenza e passione: è questa che muove tutto e la cerchiamo nei giovani”. Media di voti del 28,5 o voto di laurea non inferiore a 107 unito a una conoscenza evoluta delle tecnologie dell’informazione. Chi supera la selezione s’aggiudica un tirocinio retribuito di sei mesi e (per il primo classificato) un premio extra di cinquemila euro. E’ una professione che vive di osmosi con concorrenti stranieri. L’ingresso delle law firm anglo-americane non ha rubato il mestiere, ma ha fatto da stimolo, creando nuove occasioni ai professionisti italiani. La Orrick di San Francisco, ad esempio, entrata nel 2003, occupa oggi cento avvocati tra Milano e Roma, senior partner è Alessandro De Nicola che si è formato alla Ernst & Young.

 

Sono le punte di un iceberg pronto a emergere dalle acque profonde. E non solo in campo legale. In un mondo ipercompetitivo vanno di moda le classifiche, i top 10 o magari i top 20. Sugli studi delle archistar si sono scritti fiumi di parole. Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Stefano Boeri, tra schegge di vetro e acciaio, nuvole trasparenti e boschi verticali sono sempre sotto i riflettori, mentre Aldo Rossi, Ettore Sottsass, Gae Aulenti fanno già parte nella storia del Novecento. Anche gli architetti vivono il difficile passaggio dall’era dell’artista solitario a quella industriale, con una distanza di decenni dal resto del mondo, l’America che vanta un primato anche in questo, ma sono molto avanti anche la Gran Bretagna o il Giappone. Colpiti duramente dal blocco delle costruzioni per colpa della recessione, della burocrazia e dell’ideologia pentastellata, sugli architetti italiani s’è abbattuta la scura della selezione darwiniana, e adesso stanno attraversando ancora una fase di transizione. Ma anche per loro la strada è quella che gli avvocati hanno imboccato prima di loro. Perché la grande trasformazione è segnata da una forza che nessun sovranista è in grado di fermare: lo scambio basato sulla concorrenza.

 

La medicina vive di questo, non ne può fare a meno fin dall’antichità, quando rivaleggiavano la scuola egiziana, quella greca e quella salernitana. Gli italiani sono ormai eccellenze su scala mondiale. Alberto Mantovani è tra i migliori 400 scienziati al mondo secondo la classifica dello European Journal of Clinical Investigation. Insieme a lui Antonio Colombo del San Raffaele, Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, Giuseppe Mancia dell’Università di Milano Bicocca, Vincenzo Di Marzo del Cnr di Pozzuoli. In questa classifica emergono altri professionisti che operano all’estero, come Carlo Croce all’Università dell’Ohio e Napoleone Ferrara all’Università di California a San Diego. Mancano, invece, stranieri di alto livello che vengano a lavorare in Italia. “E’ una realtà – lamenta Mantovani – che purtroppo conosciamo bene: siamo bravi a esportare scienziati di qualità, ma non riusciamo ad attirare quelli di altri paesi”. Questo ha a che fare con i limiti strutturali, ma anche con un misto di provincialismo e sciovinismo. Eppure, l’apertura è tutto per la ricerca, per la scienza, per ogni professione. In molti seguono le orme di Mantovani, che con l’immunoterapia ha rivoluzionato la lotta al cancro. E’ stato anche lui un “cervello in fuga”, tornato con un bagaglio di conoscenze ed esperienze inimmaginabile restando “a casa propria”. Dopo la laurea a Milano e la specializzazione in oncologia a Pavia, ha lavorato in Inghilterra al Chester Beatty Research Institute di Belmont in cui ha approfondito gli studi di Robert Evans e Peter Alexander sui macrofagi (scoprendo che, anziché ridurre il tumore, lo aiutano a progredire), negli Stati Uniti, presso i National Institutes of Health di Bethesda e a Milano, all’istituto Mario Negri e all’Istituto clinico Humanitas, di cui dal 2005 è direttore scientifico nonché presidente della fondazione per la ricerca. Considerato un luminare nella immunologia, ha aperto un campo ancora tutto da esplorare. Andare all’estero, dunque, non significa scappare, ma migliorare. Il patavino Simone Speggiorin cardiochirurgo pediatrico che nel 2010 a 33 anni ha fatto fagotto stanco di precariato, non lascerà facilmente Londra dove ormai lo chiamano “re del bisturi”. Ha scelto invece di rimanere nella natia Sicilia Giuseppe Migliore, premiato negli Stati Uniti come “miglior chirurgo radialista del 2015” perché effettua gli interventi di angioplastica con una tecnica innovativa, ovvero attraverso l’arteria radiale, riducendo i rischi ed i tempi (oltre che i costi) dell’operazione, che normalmente viene praticata attraverso l’arteria femorale. Ma importa davvero dove stanno? Importa quel che fanno?

 

Queste “nuove tribù” come le chiama Francesco Maietta, responsabile dell’area politiche sociali del Censis, possono diventare nuclei di aggregazione in controtendenza rispetto alla “disintermediazione orizzontale”, la società appiattita dalla pialla populista. “E’ possibile immaginare – si chiede ancora il Censis – un ruolo per ‘caste’ del merito e della competenza, cioè per soggetti che rompono la logica dell’uno vale uno, tipica dell’orizzontalità estrema, grazie al sapere esperto che incarnano e applicano?”. La risposta dipende dalla volontà (e dalla capacità) di uscire dal proprio particolare per assumere una dimensione pubblica.

  

La libera professione, ormai un servizio avanzato legato alle imprese private e alla pubblica amministrazione. Le riforme bloccate dalla paura dell’industrializzazione. “Dobbiamo passare dall’io al noi”. Dalla nuove tribù un’articolazione della rappresentanza che nasce dal sociale e si fa politica

“Se per pubblica lei intende politica, allora la debbo deludere – dice ancora Gianni – Se invece significa la possibilità di diventare un punto di riferimento anche culturale, allora sì, auspico proprio che accada”. I professionisti, del resto, stanno dimostrando un dinamismo sorprendente, in gran parte inatteso e stanno cambiando pelle. Agli avvocati, diventati prima consulenti, poi supporto alla governance delle società, spesso tocca costruire strategie e scenari futuri, con una propensione al rischio e una immaginazione maggiore rispetto alle banche d’affari, senza bisogno di impiegare grandi capitali. Gli architetti e per molti versi anche gli ingegneri propongono soluzioni urbane complesse alle quali nessun amministratore avrebbe mai potuto pensare. Quanto ai medici, si spingono oltre le frontiere della vita e della morte, facendo cadere le barriere tra la cura e la ricerca, tra il bisturi e la provetta. Lavorano in organismi complessi come gli ospedali moderni, vere macchine della salute, al tempo stesso sanatori e laboratori che gestiscono bilanci da grande azienda. La Humanitas presieduta da Gianfelice Rocca (Techint) fattura 800 milioni di euro. Tra gli azionisti figura anche la banca Ubi. Il Policlinico Agostino Gemelli, che dal 2015 fa capo a una fondazione, ha chiuso il 2017 con 372 milioni di euro. Sul futuro dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi insieme a Enrico Cuccia, si stanno confrontando i big della finanza e dell’industria, Mediobanca, Unicredit, Unipol, Intesa e Leonardo Del Vecchio, il fondatore di Luxottica che intende donare ben mezzo miliardo di euro. Un tempo il risiko aveva come pedine i padroni delle ferriere, oggi al tavolo giocano i professionisti dei servizi.

 

In tutta Europa il numero di donne e soprattutto uomini impegnati in attività professionali, scientifiche e tecniche e nella sanità è salito costantemente negli ultimi anni, crescendo di oltre 100 mila unità ogni anno: dai 4 milioni 800 mila del 2009 agli oltre 5 milioni 600 mila del 2016. Mediamente, il tasso di crescita nel periodo è stato pari al 15,2 per cento. E’ un fenomeno in controtendenza rispetto alle altre tipologie di lavoro indipendente, che appaiono complessivamente in calo nel decennio della lunga crisi. Mentre l’occupazione crollava sotto i colpi della recessione, i liberi professionisti hanno continuato a moltiplicarsi, in parte grazie a giovani al primo ingresso nel mercato del lavoro, in parte perché ex lavoratori dipendenti, qualificati, sono stati spinti verso la libera professione dalle crisi aziendali e dal calo delle assunzioni. Dal 2004 al 2016 il numero è aumentato del 22,6 per cento (oltre 250 mila persone) a fronte di una diminuzione del 12,9 per cento degli indipendenti.

 

In Italia non esiste una definizione universale di “libero professionista”, certo è che nell’accezione comune si tende spesso a confonderlo con il “lavoratore autonomo”. Secondo la letteratura, prerogativa fondamentale è svolgere un’attività intellettuale a favore di terzi, altamente qualificata e specialistica, che comporta il prendersi la responsabilità del proprio operato, il rispetto di regole deontologiche, la correttezza e la specializzazione dell’offerta dei servizi. Tale attività non deve necessariamente essere esclusiva o prevalente, basta solo che sia abituale. Ogni ente, istituto, ministero, fornisce una propria definizione, in base alle tematiche da esso trattate. Quindi è necessario riunire queste diverse ottiche per costruire una visione d’insieme del libero professionista in tutte le sue sfaccettature.

 

Un professionista su cinque dell’intera Unione europea è italiano. Unica a superare il milione (a partire dal 2012), l’Italia conta 17 liberi professionisti ogni mille abitanti, seconda solo ai Paesi Bassi che ne hanno 19 (la media è 10,9 per mille). Al contrario di quel che si pensa, non è una manifestazione di scarso sviluppo. Sono le regioni del nord Italia a mostrare la maggior densità. Il divario territoriale è rilevante: si passa da 30 unità per 1000 abitanti in Emilia Romagna a 14 in Calabria e, in generale, in tutto il Mezzogiorno tale valore non supera le 21 persone. Dunque il sud non è più il regno di avvocati, medici e farmacisti. Al contrario, c’è una relazione diretta con il prodotto lordo e con il reddito pro capite. Quindi Emilia, Lombardia, Lazio e centro Italia, un po’ meno il Piemonte. La libera professione è ormai un servizio avanzato legato alle imprese private e alla pubblica amministrazione. Si è, insomma, industrializzata anche sul piano organizzativo, ma è rimasta in grandissima parte un’attività maschile. Le donne costituiscono il 37 per cento del collettivo al centro-nord mentre nel Mezzogiorno questa percentuale si riduce al 30 per cento. L’età media è elevata, 46,4 anni. La metà è occupata nelle attività legali, di contabilità e di consulenza aziendale o architettura e ingegneria (51 per cento); ingegneri e architetti sono il 18 per cento, poi vengono commercio e finanza, sanità, servizi diretti alle imprese, attività legale. La sanità ha compiuto un balzo (+37 per cento) dal 2011 al 2016. Gli avvocati sono 205 mila, seguiti da medici (130 mila), commercialisti (116 mila), architetti (101 mila), ingegneri (78 mila). Notai, farmacisti e medici guadagnano in media più degli altri, i dentisti più degli avvocati.

 

La crisi non è passata indenne sulla libera professione, aumentando anche qui la divaricazione economica. Chi opera nei servizi finanziari e assicurativi e nell’informatica si è arricchito. Invece, l’impoverimento relativo ha colpito i servizi di ingegneria integrata, la compravendita e l’intermediazione immobiliare. Questa lunga sfilza di numeri e statistiche sarà pur noiosa, ma chi legge è gentilmente invitato a non saltarla perché in genere giornali, televisioni, mezzi di comunicazione di massa, fanno di tutt’erba un fascio, mettendo insieme categorie sociali diverse che hanno avuto una dinamica specifica, creando così una indistinta poltiglia. Ciò non significa che le avanguardie, i campioni nazionali, rappresentino esattamente il “popolo delle professioni”. Molti restano ancora legati a un mondo medievale, alle gilde, agli ordini, non sono in grado di compiere il salto e chiedono protezione, non innovazione.

 

Prendiamo gli avvocati. Negli Stati Uniti si dice che c’è un lawyer sotto ogni pietra eppure sono solo 750 mila, tre volte più dell’Italia, ma con un mercato 70 volte più grande. Ragionando secondo una logica industriale si direbbe che c’è sovraoccupazione e scarsa produttività, quindi non esiste alternativa a razionalizzare e concentrare. Insomma, imboccare la via degli studi multifunzionali, come abbiamo già raccontato. Andrea Mascherin è stato eletto nel Consiglio nazionale forense con l’obiettivo di “promuovere una modernizzazione della professione senza paura delle novità”. Marcello Adriano Mazzola, che ricopre un ruolo anche negli organismi dell’avvocatura, dipinge una categoria litigiosa, individualista, con spazi di mercato più ristretti e complessi del passato, parla addirittura di “proletarizzazione” e calcola che il reddito medio è sceso da 54 mila euro del 1996 a 34 mila euro, poco più di un operaio specializzato. La riforma della professione viene bloccata da questa “paura dell’industrializzazione”, spiega Alberto Pera, già segretario generale dell’Antitrust, economista con una lunga esperienza al Fondo monetario internazionale, oggi avvocato specializzato in regolazione e concorrenza. Ma la globalizzazione che si vuole far uscire dalla porta, rientra dalla finestra. “Mi colpisce la dinamicità della nuova generazione – sottolinea Pesa – Non riusciamo a trovare giovani che vogliano stare in Italia; certo non a Roma, semmai la loro meta può essere Milano. Tuttavia la maggior parte vuole andare a Londra o Bruxelles”. Non scappano, compiono una scelta razionale, perché non si fa più carriera “a casa propria”.

 

Di “fuga dei bisturi” si discute, invece, tra i chirurghi italiani anche se chi va all’estero in genere non s’affida alla ventura con la valigia di cartone, ma vince una borsa di studio o un concorso. C’è una “circolazione in uscita” come la chiama Marco Montorsi, presidente della Società italiana di chirurgia che riguarda anche gli altri paesi, si guardi in particolare a Francia e Gran Bretagna. Non la pensa così il suo collega Pierluigi Marini, presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri, secondo il quale “i percorsi formativi italiani non sono adeguati e gli specializzandi hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. Lunghe attese, precariato. Chi emigra difficilmente rientra perché non è poi facile rifarsi una carriera in patria”. Le ragioni sono senza dubbio complesse e tra queste c’è una sostanziale diffidenza rispetto alla competizione aperta, basata sul merito e non sulla clientela o sul familismo. Le professioni, del resto, sono rimaste per troppo tempo chiuse in una dimensione domestica e la fine del protezionismo viene vissuta da molti come una privazione, mentre è una grande risorsa. Nella libera professione scatta la stessa sindrome da accerchiamento che si diffonde in molti mestieri, nei gruppi sociali e nei settori economici meno attrezzati, quelli che chiedono sicurezza domestica senza capire che la rottura degli steccati e il superamento delle frontiere nasce non tanto da eccentriche scelte individuali, ma dal cambiamento del paradigma. Difficile superare incrostazioni, pregiudizi, difese anacronistiche della società chiusa e di un esistente che fra un attimo non esiste già più. Eppure, con tutti questi limiti, il variegato e contraddittorio mondo delle professioni si sta riorganizzando. Nascono banche ritagliate su misura, come la Banca Igea per farmacisti e operatori sanitari, e torna su basi diverse la mutualità che era nata cent’anni fa per la classe operaia. Le stesse associazioni non servono solo a fare lobbismo, ma vogliono diventare parte di una riorganizzazione complessiva. Giorgio Ambrogioni, presidente della Cida, la confederazione dei dirigenti d’azienda, ha organizzato un tavolo di consultazione con le organizzazioni di medici, magistrati, avvocati in cerca di una nuova rappresentanza.

 

La società “disintermediata” e indifferenziata, senza più cerniere istituzionali, cerca di aggregarsi dal basso. Ma non tutto può venire dal mondo di sotto, occorrono punti di riferimento più in alto. Dice l’avvocato Gianni: “Finite le scuole di partito che hanno formato generazioni di politici e amministratori, finite le scuole economiche e industriali che hanno formato generazioni di manager, delegittimata la scuola come palestra di valori e non solo di sapere, il rischio è che non ci sia più nessuno in grado di proiettare lo sguardo oltre la contingenza. E chi lo fa viene percepito come un lupo solitario o diventa bersaglio dei populisti”. Secondo De Rita questa “società lasciata a se stessa vive una sua pericolosa solitudine. La realtà dei rapporti tra vita politica e cultura collettiva richiama alla mente una diatriba tra Aldo Moro e Giulio Andreotti all’inizio degli anni 70: il primo scriveva che la politica deve orientare la società verso il futuro, mentre il secondo rispose che la politica deve solo rassomigliare alla società”. La filosofia morotea implicava la capacità di leggere i processi e programmarne gli sviluppi, la seconda una sostanziale stabilità sistemica. Oggi non esiste più nessuna delle due condizioni. “Anche per questo – sostiene Gianni – dobbiamo compiere un salto in avanti, dobbiamo passare dall’io al noi: è un passaggio storico, ma innanzitutto un passaggio mentale”. Il “ciclo dell’io”, quello della società narcisistica, è durato a lungo e sta producendo i suoi frutti bacati, chi può rappresentare un nuovo “ciclo del noi”? Quale contributo possono dare i professionisti? Possono diventare come la borghesia di un secolo fa che seppe, perseguendo i propri interessi, avrebbe detto Adam Smith, realizzare l’interesse generale?

 

Ricomincia dalle nuove tribù “una re-intermediazione” non corporativa, cioè una articolazione della rappresentanza che nasce dal sociale e si fa politica, magari non in forma partito, ma tale da ridefinire la forma stato. L’ideologia populista nella sua variante di destra (autoritaria e monocratica) o di sinistra (anarcoide e plebiscitaria) non concepisce la delega. Uno vale uno, ma non è così, non solo perché si cancella il merito, ma perché ogni società che non sia la più elementare, lo “stato di natura” roussoviano, si articola in gruppi d’interesse (se non vogliamo chiamarle classi) che diventano gruppi di pressione politica. Negarli o reprimerli non serve. I regimi totalitari ci hanno provato e hanno fallito. La borghesia ha creato i parlamenti, i sanculotti li hanno saccheggiati, ma poi non è restato che il capitano, il generale, il duce. La borghesia, sorta dagli uomini delle arti e dei mestieri nei comuni e nelle città libere, a Firenze, a Rotterdam, ad Amburgo, rinasce ora dalle professioni: sarà in grado di esprimere la sua rappresentanza, nel momento in cui avrà preso consapevolezza di sé? Non è mai opportuno concludere un articolo, e tanto meno un’articolessa come questa, con una domanda. Ma questa volta non se ne può fare a meno.

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