La permanenza del capitalismo di stato

Stefano Clò*

Negli anni Ottanta la ricetta proposta era privatizzare tutto e subito. Oggi molti governi vogliono tenere alcuni settori strategici sotto controllo. Non resta che spingere per un miglioramento nella gestione delle aziende pubbliche

Alla fine del secolo scorso, l’internazionalizzazione dei mercati finanziari e i processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi di interesse generale hanno favorito il consolidarsi un modello economico liberale, in cui il ruolo dello Stato veniva profondamente ridisegnato: da attore principale (attraverso le proprie imprese e banche pubbliche) ad arbitro (attraverso istituzioni di regolazione). Sebbene alcuni studi avessero profetizzato il definitivo consolidamento del modello liberale in tutto il mondo (nelle parole di Francis Fukuyama, “l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano”), le riforme pro-mercato avviate alla fine del secolo scorso non hanno in realtà appiattito le differenze che storicamente hanno caratterizzato i diversi modelli di capitalismo. E’ bastato un decennio a rimettere in discussione le profezie di Fukuyama. Recenti dinamiche evidenziano un rallentamento nei processi di privatizzazione, un ritorno dell’impresa pubblica sia nei paesi emergenti sia in quelli Ocse, un’emergente ondata di protezionismo, portando molti studiosi e opinion leader a proclamare la fine dell’èra del libero mercato. Mentre alcuni, come il politologo Ian Bremmer, considerano questo fenomeno come una conseguenza temporanea e imprevista della crisi finanziaria globale, secondo altri, come Aldo Musacchio (Brandeis International Business School), il nuovo capitalismo di Stato era “alive and kicking” già prima della crisi e deve essere interpretato alla luce delle riforme che hanno ridisegnato la struttura organizzativa e la corporate governance delle imprese pubbliche e dei mercati in cui operano. Imprese pubbliche che sono “here to stay”. Il capitalismo di Stato contemporaneo è stato descritto come un nuovo sistema prevalente caratterizzato da forti legami tra i politici che governano i paesi e i manager che gestiscono le imprese, i cui investimenti e strategie tendono a essere guidati principalmente da una logica politica piuttosto che economica. E’ stato definito come un sistema “in cui lo stato funziona come attore economico principale e utilizza i mercati principalmente per guadagno politico” o in cui “lo stato sta usando i mercati per creare una ricchezza che può essere indirizzata nel modo in cui i funzionari politici ritengono opportuno. [Dove] il motivo ultimo non è economico (massimizzare la crescita) ma politico (massimizzare il potere dello stato e le possibilità di sopravvivenza della leadership)”. Sono queste alcune definizioni usate da Bremmer per descrivere un modello che sembra condividere caratteristiche comuni con quello sviluppatosi durante la seconda metà del XX secolo: la rilevanza di imprese e banche pubbliche e il controllo diretto di risorse naturali strategiche per il perseguimento di obiettivi sociali o politici. Il capitalismo di Stato contemporaneo presenta, tuttavia, profonde diversità rispetto al modello novecentesco. Riforme di governance e di mercato hanno esposto le imprese pubbliche a un nuovo set di incentivi, incidendo sui modelli interni di management, sulle strategie di mercato, su produttività e crescita economica.

 

Le imprese pubbliche erano interamente controllate dal governo e operavano all’interno dei confini domestici in una condizione di monopolio legale per fornire strutture o servizi essenziali al benessere sociale. Oggigiorno, mostrano un’elevata eterogeneità in funzione delle riforme di governance e di mercato a cui sono state sottoposte. I mercati in cui le imprese pubbliche operano in una posizione monopolistica sono stati liberalizzati con intensità diverse tra paesi e settori. Gli attori controllati dal governo sono stati progressivamente esposti a nuovi incentivi di mercato e sono stati portati a competere con imprese private ​​in un contesto globalizzato. Le imprese pubbliche sono state profondamente riformate anche internamente. In molti casi, al controllo diretto ed esclusivo si è sostituito un controllo indiretto e misto. La struttura proprietaria si è aperta al capitale privato. Molte imprese a controllo pubblico sono state quotate in Borsa.

 

Il tipo (e la qualità) di interferenza del governo nella gestione delle banche e delle imprese a controllo pubblico dipende dall’intensità delle riforme che hanno conosciuto, incidendo su strategie e sugli obiettivi stessi che i manager pubblici sono tenuti a perseguire. Oggigiorno, varie banche sotto controllo pubblico in cui il governo detiene una maggioranza relativa (ma non assoluta) di azioni, come la Banca di sviluppo di Singapore, sono gestite come normali banche commerciali e sono note per le loro strategie business-oriented. Altre banche in cui il controllo governativo è più elevato sono suscettibili di adeguare le loro strategie alle istruzioni del governo. Per esempio, la Business Development Bank of Canada ha il chiaro mandato di promuovere obiettivi politici come il sostegno finanziario delle piccole e medie imprese nazionali. Le imprese a controllo pubblico non quotate, e che operano in mercati non competitivi, esistono ancora e riflettono il modello tradizionale di impresa pubblica: forniscono servizi di interesse generale, adottano strategie che deviano dalla massimizzazione del profitto. Spesso incorrono in perdite economiche, che ricadono sulle finanze pubbliche. Viceversa, le imprese quotate, che competono in mercati liberalizzati e globalizzati, hanno orientato le loro strategie verso modelli che sono caratteristici del settore privato in termini di struttura aziendale e orientamento alla redditività. Dati recenti mostrano che il numero di State owned enterprises (Soe) nelle prime 500 aziende quotate di Fortune del mondo è aumentato dal 9,8 per cento nel 2005 al 22,8 per cento nel 2014, con una crescita di dimensioni simili in termini di profitti, occupazione e altri indicatori di performance.

 

Una nuova e inaspettata caratteristica del capitalismo di stato moderno è che le imprese di stato tradizionalmente orientate ai mercati interni sono oggi sempre più in competizione con i privati nel mercato globale: giocano un ruolo sempre più attivo nei mercati finanziari per diversificare le loro attività e espandersi a livello internazionale attraverso le fusioni e acquisizioni transfrontaliere. Uno studio empirico pubblicato sull’European Journal of Political Economy mostra come la crescente espansione dei soggetti a controllo pubblico attraverso operazioni di M&A non inficia sulle proprietà efficienti del market for corporate control. In particolare, le imprese a partecipazione statale non mostrano alcuna differenza statisticamente significativa rispetto alle imprese private nelle loro strategie di targeting di società da acquisire.

 

La letteratura recente ha evidenziato che le distorsioni che possono influenzare le imprese di investimento a controllo pubblico non dipendono probabilmente dalla proprietà pubblica di per sé, ma piuttosto dalla qualità istituzionale del governo che le controlla e dall’intensità delle riforme a cui sono state esposte (o forzate). Per esempio, imprese pubbliche operanti in Norvegia (Telenor), Svizzera (Swisscom) o Giappone (Ntt) presentano una performance economica e una capacità innovativa superiori dei rispettivi concorrenti privati. Altrettanto non può dirsi di imprese provenienti da paesi a bassa qualità istituzionale, in cui logiche non meritocratiche di gestione sono ancora causa di inefficienze organizzative e produttive.

 

Questa nuova consapevolezza sta portando a un cambio di prospettiva. Se negli anni Ottanta la ricetta proposta dagli istituti internazionali era privatizzare tutto e subito, oggi, preso atto della volontà politica di molti governi a mantenere alcuni settori strategici sotto la propria sfera di influenza, le proposte politiche sono molto più orientate verso il miglioramento di modelli di governance e di promozione di pratiche di trasparenza e accountability.

 

*Stefano Clò, Università degli Studi di Milano

Di più su questi argomenti: