Indro Montanelli (foto) era controcorrente, era la stecca nel coro e ne fece il vezzo di una vita (Foto LaPresse)

La trasformazione dei figli putativi di Montanelli da coro in linciatori

Guido Vitiello

I giornalisti conservatori fanno i gianburrasca per la gloria di Salvini

Chi ha ucciso Laio? Che domande, è stato Edipo! Una baruffa stradale finita in tragedia, una questione di precedenza nel passaggio dei cocchi, ai tempi anarchici prima dell’invenzione del semaforo. Eppure non tutti presero per buona la sentenza suffragata dall’oracolo, dall’indovino e dallo stesso reo confesso. Karl Harshbarger, nel saggio “Who killed Laius?” (1965), riesaminò il fascicolo di Sofocle e propose una revisione del processo: “Se è possibile che Edipo non abbia ucciso Laio, possiamo determinare a partire dal dramma se c’è qualcun altro che avrebbe potuto farlo? Penso di sì. Ho scelto un sospetto che potrebbe apparire il meno probabile: il coro”.

 

È cosa buona sospettare dei cori, ma bisogna guardarsi anche da chi troppo ostentatamente se ne chiama fuori. Indro Montanelli ne fece il vezzo di una vita: era controcorrente, lui, era la stecca nel coro. Sennonché quando Giovanni Minoli, intervistandolo per “Mixer” nel 1985, gli chiese a bruciapelo quale fosse questo coro rispetto al quale tanto si compiaceva di stonare, Montanelli ebbe un momento di abissale imbarazzo, e lo colmò con una risposta lambiccata, tentennante. Fu una piccola epifania: il coro, dunque, non esisteva. O meglio, neppure lui sapeva quale fosse, era una finzione teatrale adattabile alle esigenze drammaturgiche che serviva a presentare come stecca qualunque sua opinione, anche un’opinione qualunque, anche il borbottìo del benpensante. “Troppo facile, Indro / Scriver Controcorrente / Traendo dal cilindro / Quel che pensa la gente”, scrisse l’epigrafico Giorgio Calcagno giocando sul titolo di una sua rubrica.

  

Dar voce al coro muto della maggioranza silenziosa vestendo i panni del maestro di stonature: ecco il capolavoro teatrale di Montanelli, che lasciò in dote ai conservatori italiani un modo gratificante di stare in scena. Ma se il progenitore qualche coraggiosa stecca la prese davvero, lo stesso non si può dire della sua sterminata progenie (a prender per buone le pretese dei suoi figli putativi, Montanelli ne ha messi al mondo più di Fidel Castro). La cosa si è fatta spiacevole e un po’ losca, da quando le maggioranze silenziose sono diventate maggioranze chiassose e il coro si è trasformato in un coro di linciatori.

 

Posatori di vario taglio sartoriale e di varia attrezzeria scenica, con il cravattino o la giacca di tweed, la pipa o il sigaro toscano, hanno presentato all’anagrafe una smorfia sarcastica, un mezzo sorriso di falsa bonarietà, qualche aforisma dispettoso o anche solo gretto, molta indignazione pantofolaia e trombona, una misantropia che nel patriarca era genuinamente melanconica e in loro è spesso comune burberaggine, e hanno preteso gli fosse rilasciata a vista la patente di steccatori montanelliani. Molti l’hanno ottenuta senz’altre credenziali: un vastissimo clan interredazionale, una marea umana che segue la corrente fingendosi controcorrente. E così, la scena del nostro dramma è calcata da uno strano coro greco: tutti con la stessa maschera, quella del bastian contrario, indossata però per amplificare la voce del padrone e farla arrivare in ogni angolo della cavea. Che teatro!

 

Spalleggiare un governo applaudito da sei italiani su dieci e presentarsi, ciononostante, come nemici del Pensiero unico, della Dittatura del politicamente corretto, del Finto buonismo, delle Elite di Capalbio, dei Salotti buoni, di una Certa sinistra e di altri fantocci di scena cuciti alla bell’e meglio. Fare i Gianburrasca a maggior gloria del ministro di polizia. Vien da chiedersi come riescano a non ridersi in faccia da soli, ma sono domande da non fare mai a un attore. Il punto di approdo più deprimente di questa lunga saga familiare è un signore spiritato (attore pedestre, oltretutto) che strilla come un gallinaccio “ruspa! ruspa! ruspa!” contro i nemici del governo e del superministro, meglio se disgraziati o inermi, in una rubrica su Retequattro – dove già predicava il capostirpe negli anni Ottanta – che s’intitola, naturalmente, “Fuori dal coro”.

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