Nino Di Matteo, pm del processo sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia, ha dichiarato di "non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo" (foto LaPresse)

Il Csm e il toto con-correnti

Ermes Antonucci

Dopo gli scandali, una campagna elettorale super populista e piena di grottesche rivendicazioni di indipendenza. Così stravincono Di Matteo e Davigo, i più politicizzati

Un’ondata di populismo e di retorica anti establishment senza precedenti, in pieno stile grillino, sta sommergendo in questi giorni la campagna elettorale delle elezioni suppletive del Consiglio superiore della magistratura, previste il 6 e 7 ottobre, rendendo ancora più grottesca la crisi delle toghe italiane. Circa novemila magistrati saranno chiamati a eleggere due componenti appartenenti alla categoria dei pubblici ministeri, che andranno a sostituire i due consiglieri togati (Antonio Lepre, di Magistratura indipendente, e Luigi Spina, di Unicost) dimessisi in seguito allo scandalo sulle nomine che ha travolto l’organo di autogoverno della magistratura, con gli incontri notturni tra alcuni consiglieri del Csm, il pm romano (ora sospeso e indagato per corruzione) Luca Palamara e i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti. Alle ultime elezioni, infatti, tutte le correnti (da Area, che riunisce Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, ad Autonomia e indipendenza, il gruppo guidato dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo) decisero di stringere un patto per candidare solo quattro candidati (uno per gruppo) nella categoria dei magistrati che esercitano funzioni requirenti, con il risultato che attualmente non vi è nessun “non eletto” in grado di succedere ai consiglieri pm che si sono dimessi per lo scandalo. Il problema non si è posto invece per gli altri due consiglieri dimissionari, i giudici Corrado Cartoni (Mi) e Gianluigi Morlini (Unicost), già sostituiti da Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, entrambi facenti parte del gruppo di Davigo, che ha così raddoppiato la sua presenza a Palazzo dei Marescialli.

Il bollettino di guerra dello scandalo del Csm tra dimissioni, indagati e la corsa a rifarsi un pedigree anti establishment

 

E’ notizia di ieri, però, che anche per la categoria giudici il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua qualità di presidente del Csm, sarà costretto a indire altre elezioni suppletive, probabilmente nel mese di dicembre. Serviranno per sostituire il quinto togato coinvolto nella vicenda, in quanto presente agli incontri tra magistrati e politici, il giudice Paolo Criscuoli (Mi), che si è dimesso mercoledì scorso dopo un lungo periodo di autosospensione e di pressioni per un suo passo indietro (sollecitazioni, si vocifera, provenienti anche dal vicepresidente David Ermini). L’ultimo rimasto dei non eletti che poteva subentrargli, Bruno Giangiacomo, attualmente presidente del tribunale di Vasto (corrente Area), ha infatti deciso di rinunciare per ragioni di opportunità, visto che su di lui pende un’azione disciplinare incentrata su una relazione che egli avrebbe intrattenuto per quattro anni, quando era gip a Bologna, con un’avvocatessa (causa di incompatibilità).

 

Il bollettino di guerra dello scandalo togato, nato dalle intercettazioni ricavate da un virus trojan iniettato nel cellulare dell’ex consigliere ed ex leader di Unicost Luca Palamara, si conclude con il nome di Riccardo Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione (che, oltre a essere membro di diritto del Csm, è titolare dell’esercizio del potere disciplinare), che ha lasciato il suo ruolo chiedendo e ottenendo il collocamento a riposo anticipato.

 

Ma torniamo alle elezioni suppletive del 6 e 7 ottobre. In tutto sono sedici i candidati che si contenderanno i due posti da consigliere. Il più conosciuto è sicuramente Nino Di Matteo, pm del processo sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia, ora sostituto alla procura nazionale antimafia. E’ l’eroe per eccellenza dell’antimafia attivista e mediatica, forse fin troppo, visto che a fine maggio il suo capo Federico Cafiero de Raho ha deciso di estrometterlo dal pool che indaga sulle stragi proprio per aver parlato troppo in un’intervista televisiva. Dalla Dna proviene anche Anna Canepa, ex segretario di Magistratura democratica, titolare di importanti inchieste antimafia e tra i pm nel processo per i fatti del G8 di Genova. Un altro volto noto è quello di Tiziana Siciliano, capo del pool “Ambiente, salute e lavoro” della procura di Milano e pm del processo Ruby ter e sul suicidio assistito di Dj Fabo. C’è poi Fabrizio Vanorio, sostituto alla Dda di Napoli, che ha rappresentato l’accusa nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi (una sorta di talismano per la visibilità delle toghe) per la compravendita dei senatori e in quello all’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino. Infine, emergono le candidature anche del procuratore di Pisa, Alessandro Crini, che ha indagato sulla morte di Emanuele Scieri, il paracadutista morto in circostanze misteriose nella caserma “Gamerra” nell’agosto 1999, del procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Alessandro Milita, titolare delle inchieste sulla “Terra dei fuochi”, e anche del pm romano Simona Maisto, che si è occupata del caso delle sparizioni di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.

Quasi tutte le toghe che hanno deciso di correre per le suppletive del Csm si sono improvvisamente riscoperte “indipendenti

 

 

Lo scandalo che ha travolto l’organo di autogoverno della magistratura, con le correnti accusate di spartirsi le nomine più importanti negli uffici giudiziari (principalmente, guarda caso, nelle procure) dialogando con alcuni esponenti politici, ha inevitabilmente condizionato la campagna elettorale in vista delle elezioni suppletive, aprendo la strada a una marcata retorica contro le correnti, che nelle ultime settimane è andata di pari passo con una vera e propria campagna populista. A dare il calcio d’inizio è stata l’Associazione nazionale magistrati, che ha deciso di indicare una serie di “cause di incandidabilità” per le toghe intenzionate a correre per un posto al Csm, prevedendo che non possano candidarsi i magistrati fuori ruolo o che ricoprono un incarico nell’Anm e nei gruppi associativi. Il risultato è stato doppiamente paradossale: da un lato, un’associazione privata come l’Anm si è intestata il compito di definire le modalità di elezione di un organo costituzionale come il Csm; dall’altro, quasi tutte le toghe che hanno deciso di correre per le elezioni suppletive del Csm si sono improvvisamente riscoperte “indipendenti”, rivendicando la loro lontananza dalle correnti, spesso pur provenendo chiaramente da specifici gruppi associativi. Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, per esempio, pur essendo iscritto a Magistratura indipendente e pur avendo rivestito fino a qualche mese fa l’incarico di segretario distrettuale di Mi a Napoli, ha sottolineato il carattere “totalmente autonomo” della sua candidatura. Anche Nino Di Matteo ha dichiarato di “non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo”, e di voler rappresentare una candidatura “autonoma e indipendente”, eppure Giovanni Jacobazzi sul quotidiano Il Dubbio ha ricordato che il pm fu candidato e venne eletto nelle liste di Unicost (la corrente di cui per anni è stato leader Palamara) alla giunta dell’Anm di Palermo, per poi diventarne presidente per un intero mandato.

 

Insomma, tra i candidati al Csm è partita una sorta di gara di “purismo” in stile grillino, in cui ciascun magistrato è intenzionato a dimostrare di essere “più indipendente degli altri” e l’unico vero interprete delle reali istanze dell’elettorato togato. Le tensioni non mancano. In un dibattito elettorale tenutosi a Torino sono volati gli stracci, come raccontato alcuni giorni fa dalla Stampa. “Prendi le distanze dalla tua corrente o no?”, ha chiesto Fabrizio Vanorio (candidato di Area) a D’Amato. “No, ma la mia candidatura è totalmente autonoma”, ha replicato il pm napoletano, facendo scattare la reazione della collega milanese Tiziana Siciliano: “Tanto autonoma che partecipi a cene elettorali organizzate dalla tua corrente”. “Di cene elettorali proprio tu parli – ha risposto D’Amato a Siciliano – che da due mesi ne fai a Milano con Fabio Roia” (ex membro del Csm, esponente di Unicost). “Mi ha tirato un colpo basso”, avrebbe aggiunto D’Amato lasciando la sala, mentre i suoi sostenitori accusavano Siciliano di aver “istruito un processo proletario degno dei Khmer rossi”.

 

Ma in questo clima da caccia alle streghe tra i magistrati, lo show più grottesco è quello andato in scena due domeniche fa nella sede dell’Anm, nella conferenza stampa dedicata alla presentazione di tutti i candidati alle elezioni suppletive del Csm. L’incontro, voluto dal presidente del sindacato dei magistrati Luca Poniz con l’obiettivo di dare un segnale di discontinuità e trasparenza, e promuovere candidature indipendenti “per elezioni vere”, è stato anche trasmesso in streaming su Radio radicale. Una scelta, questa dello streaming, definita dal vicesegretario del Pd (ed ex ministro della Giustizia) Andrea Orlando “l’ennesima concessione al populismo”. “Peccato, non è così che si rigenerano le istituzioni”, ha scritto su Twitter l’ex Guardasigilli, non con tutti i torti, visto che, a dispetto dell’occasionale ricorso allo streaming, resta scarsissima la trasparenza dei lavori del Csm, in particolare delle sue commissioni.


Un’associazione privata come l’Anm si è intestata il compito di definire le modalità di elezione di un organo costituzionale come il Csm


 All’incontro ciascun candidato ha avuto 15 minuti per presentarsi ai colleghi e illustrare le proprie proposte da portare in Csm. Chi si attendeva, però, che i candidati si sarebbero confrontati sui problemi veri che affliggono il Csm e la magistratura, e che hanno contribuito a determinare una crisi epocale delle toghe in termini di legittimazione di fronte all’opinione pubblica, è rimasto deluso. Gli interventi hanno infatti seguito il solito copione e i soliti slogan: stop allo strapotere delle correnti nella magistratura, stop a ogni forma di contatto con il mondo politico e stop al “vecchio” modello di rappresentanza degli interessi delle toghe. Così, D’Amato ha rivendicato di nuovo una candidatura “che non risponde a logiche di appartenenza, anche se faccio parte di Magistratura indipendente”, Francesco De Falco (sostituto a Napoli) ha sottolineato che la sua è una candidatura “non calata dall’alto ma che viene dalla base, sottratta al gioco-giogo correntizio”, Francesco De Tommasi (sostituto a Milano) ha dichiarato che “mai come questa volta il compito di chi sarà eletto sarà quello di fare emergere tutto il marcio che abbiamo visto rappresentato”, perché “non si può correre il rischio di diventare pedine inconsapevoli di gruppi di potere”, Tiziana Siciliano ha invocato “trasparenza, trasparenza, trasparenza”, assicurando che “se eletta non rappresenterò nessun gruppo”, mentre Paola Cameran (sostituto procuratore generale a Venezia) ha addirittura espresso l’intenzione di rinunciare, se eletta, all’indennità prevista per i consiglieri, escluso il rimborso spese, “per dare un segno tangibile di disinteresse” (mancava solo la proposta di un “restitution day” in salsa grillina).

 

A toccare però la vetta più alta di questo climax anticorrentista e populista è stato Nino Di Matteo, che ha persino paragonato le correnti togate alla mafia. “L’appartenenza a una cordata è l’unico mezzo per fare carriera e avere tutela quando si è attaccati e isolati, e questo è un criterio molto vicino alla mentalità e al metodo mafioso”, ha dichiarato il pm antimafia, prima di celebrare la propria immagine di magistrato in trincea: “Al Csm vorrei fare soprattutto il giudice dei magistrati fuori dal sistema, di quei colleghi che sono stati ostacolati nella loro attività”. Le parole di Di Matteo sui “metodi mafiosi” delle correnti sono state criticate dal gruppo di Area (“Da magistrati sappiamo che evocare a sproposito la criminalità organizzata significa minimizzarne la gravità”) e anche dal deputato di Forza Italia, ed ex membro laico del Csm, Pierantonio Zanettin, che ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere di valutare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio di iniziative di carattere disciplinare nei confronti del pm antimafia.

I casi Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, e Di Matteo: con passati incarichi nelle correnti

 

Insomma, in linea con i mutamenti radicali vissuti dalla politica italiana negli ultimi anni, anche il mondo della magistratura sembra essere travolto dall’onda populista e anti establishment. Anche in questo caso, però, i presunti portatori dello spirito di cambiamento non sembrano andare oltre la mera retorica e gli slogan, preferendo quest’ultimi a ogni forma di autocritica e di seria riflessione sui motivi della crisi della magistratura. La cortina di fumo del populismo rischia, così, di distogliere l’attenzione degli osservatori dal vero gioco di potere che la magistratura si trova ad affrontare in queste elezioni suppletive del Csm. Un gioco incentrato sulle idee, dal carattere profondamente politico, portate avanti dai vari candidati. E il candidato dalle idee politiche più note, e più preoccupanti, è proprio Nino Di Matteo, il favorito della tornata elettorale. Paradossalmente, nonostante la campagna elettorale di stampo populista, è lui il candidato più vicino a una forza politica, il Movimento cinque stelle, che avrebbe voluto nominare il pm come ministro della Giustizia del primo governo grillino. Nell’aprile 2018 il pm antimafia prese anche parte alla tradizionale convention a Ivrea del M5s, illustrando a una platea estasiata gli interventi legislativi che occorrerebbero al nostro Paese per “(ri)scrivere la giustizia”. Le ricette elencate costituivano il trionfo del giustizialismo: più intercettazioni, più arresti, più sequestri preventivi, pene più alte, uso di agenti sotto copertura, abolizione della prescrizione.

 

E’ questo il vero programma politico di Di Matteo, peraltro molto simile a quello portato avanti dal consigliere Davigo. Sono queste le posizioni che rischiano di sbarcare al Csm il 6 e 7 ottobre, condizionando il futuro dell’organo di autogoverno della magistratura, a partire dalle nomine dei vertici di alcuni dei principali uffici giudiziari del paese che i consiglieri saranno chiamati ad effettuare: il nuovo procuratore generale della Cassazione, il successore di Giuseppe Pignatone alla guida della procura di Roma (vacante da maggio), il nuovo procuratore di Brescia (assente da ottobre), il presidente del tribunale di Salerno, il procuratore di Torino (vacante da dicembre) e via via tutti gli altri.