Parlermo, via d'Amelio, 19 luglio 1992. Il giudice Paolo Borsellino viene ucciso in un attentato insieme ai cinque agenti della scorta (foto LaPresse)

Il romanzo della Trattativa smontato per via giudiziaria

Ermes Antonucci

Non c’è stato patto tra lo stato e Cosa nostra. Paolo Borsellino ucciso per vendetta e per le inchieste su mafia e appalti. Due sentenze contro una. E contro la narrazione dominante

C’è un’altra verità sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”. Una verità che non ha trovato posto nella narrazione che ha anticipato, accompagnato e seguito la sentenza di primo grado del processo sulla trattativa, emessa dalla Corte d’assise di Palermo il 20 aprile 2018, che ha condannato gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni (12 anni per entrambi) e Giuseppe De Donno (8 anni), l’ex senatore Marcello Dell’Utri (12 anni), Massimo Ciancimino (8 anni) i boss Leoluca Bagarella (28 anni) e Nino Cinà (12 anni). La sentenza ha affermato che la trattativa ci fu, che pezzi dello stato minacciarono lo stato stesso (nonostante il paradosso) e che questo dialogo con la mafia accelerò l’omicidio di Paolo Borsellino. Ma c’è un’altra verità, che non ha ancora ricevuto la minima attenzione da parte dei diligenti oracoli dell’antimafia, che da anni sfornano articoli, libri e persino film sul tema con la medesima trama: ultima uscita, due settimane fa “#LaTrattativa”, il docufilm di Sabina Guzzanti del 2014, in prima serata su Rai2. Una verità che, però, è anch’essa di carattere giudiziario e che quindi, in teoria, avrebbe dovuto ricevere un’attenzione pari a quella posta alla sentenza di Palermo (per giunta solo di primo grado), se non superiore, essendo basata su due sentenze che fanno anche riferimento a fatti accertati da pronunce passate in giudicato: da un lato, la sentenza del 4 novembre 2015 con cui il giudice per le udienze preliminari del tribunale di Palermo ha assolto l’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio (in rito abbreviato) sulla presunta trattativa stato-mafia; dall’altro, la sentenza del processo “Borsellino quater”, sulla strage di Via D’Amelio, pronunciata dalla Corte d’assise di Caltanissetta il 20 aprile 2017 e depositata nel giugno 2018, e che fa riferimento a molte risultanze della sentenza definitiva del processo “Borsellino ter”, pronunciata il 22 aprile 2006 dalla Corte d’assise di appello di Catania (n. 24/2006).

 

Le due sentenze ci consegnano un quadro completamente opposto a quello raffigurato dalla sentenza di Palermo e riassumibile così: non ci fu nessun patto tra lo stato e la mafia, né fu questo fantomatico accordo ad accelerare l’assassinio brutale di Paolo Borsellino, che invece fu ammazzato per vendetta per la sentenza del maxiprocesso e per l’impegno crescente che stava dedicando ad alcune inchieste scomode a Cosa nostra, in particolare in materia di mafia e appalti.

 

L’assoluzione di Calogero Mannino

Secondo i pm palermitani (Antonio Ingroia, che poi abbandonò l’incarico in procura, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e, prima di loro, Roberto Scarpinato) fu Mannino a promuovere la trattativa tra lo stato e Cosa nostra in un momento da collocarsi tra l’attentato a Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la strage di Via D’Amelio (19 luglio 1992). L’obiettivo su larga scala sarebbe stato quello di concedere benefici a esponenti di Cosa nostra in cambio dell’abbandono del piano stragista, mentre sul piano personale l’intento di Mannino sarebbe stato salvare la propria vita e recuperare il “rapporto affaristico-elettorale” con la mafia. 

 


 

Aprile 2018, da sinistra i magistrati Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene (foto LaPresse)


 

Fu dunque Mannino, sempre secondo la procura, a spingere gli allora vertici del Ros – il capo Antonio Subranni, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno – a farsi intermediari della trattativa, incontrando Vito Ciancimino, già allora condannato come intraneo a Cosa nostra e in strettissimi rapporti d’affari con i suoi compaesani corleonesi Provenzano e Riina.

Da questo incontro sarebbe scaturito il famoso “papello” con le dodici proposte di Riina, documento fornito (in fotocopia) ai pm dal figlio di Vito, Massimo Ciancimino. Sarebbe stato questo segnale di debolezza mostrato dallo stato a spingere Riina a uccidere, dopo Falcone, anche Borsellino. La trattativa poi – secondo il disegno dei pm – avrebbe conosciuto un’evoluzione con la sostituzione di Provenzano a Riina (arrestato il 15 gennaio 1993) e la sostituzione di Marcello Dell’Utri a Vito Ciancimino come intermediario tra la politica e Cosa nostra.

  

Questo il castello accusatorio messo in piedi dalla procura, e interamente bocciato dalla giudice per le udienze preliminari di Palermo, Marina Petruzzella, nella sentenza che assolve Mannino.

Nota, innanzitutto, Petruzzella che sono stati gli stessi Mori e De Donno a non fare mai mistero degli incontri avuti con Vito Ciancimino, sostenendo che la finalità di quel dialogo era “esclusivamente quella di cercare un modo per catturare i latitanti di Cosa nostra più pericolosi e di porre rimedio al rischio della prosecuzione dell’attacco stragista”. Inoltre, i due “hanno sempre negato di essere stati emissari di Mannino o di altri politici, ma di essere andati da Ciancimino come rappresentanti di loro stessi e del loro superiore generale Subranni, che tali tentativi con Vito Ciancimino abortirono subito e che quindi per conto loro la trattativa di cui sono accusati in qualità di mandatari di Mannino, nel senso inteso dalla pubblica accusa, non è mai esistita”.

  

Un quadro opposto a quello raffigurato anche nel film di Sabina Guzzanti “#LaTrattativa”, visto di recente in prima serata su Rai2

  

Fatta questa premessa, la giudice esamina tutti i presunti elementi probatori forniti dall’accusa per sostenere la tesi della “trattativa” e conclude senza mezzi termini: “Non c’è qualcosa, come delle fonti orali o documentali, che dimostri il collegamento tra l’iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governo”. “Allo stato degli atti – prosegue Petruzzella – appare improvabile, da un punto di vista processuale – che applica i canoni della gravità e della precisione indiziaria degli elementi di fatto su cui fondare un ragionamento probatorio – collegare il fatto che Mannino si raccomandasse con i Ros alla interlocuzione tra i Ros e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelli”. Insomma, mentre secondo la procura la nomina di Mancino al Viminale al posto di Scotti avrebbe rappresentato un segnale di cedimento dello stato alla mafia, con l’allontanamento di un ministro ritenuto troppo rigoroso, la giudice riconosce che alla base della nomina vi furono solo esigenze politiche, come spiegato dallo stesso Mannino in processo (semplicemente era necessario trovare una collocazione a Mancino visto che il posto che ricopriva, come capogruppo al Senato, era andato al collega di partito Antonio Gava).

 

“E’ ragionevole – afferma inoltre Petruzzella – ritenere che i descritti comportanti di Mannino con Guazzelli (il maresciallo dei carabinieri al quale Mannino si rivolse per chiedere protezione, ndr) e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico”. In altre parole, Mannino si rivolse a Guazzelli e ai Ros non per avviare una fantomatica trattativa con la mafia, ma solo per ottenere protezione di fronte alla condanna a morte che Cosa nostra aveva da tempo decretato nei suoi confronti.

 

Le “interpretazioni indimostrate” dei pm

La decostruzione delle tesi dei pubblici ministeri da parte della giudice Petruzzella non si ferma.

Nella sentenza, la giudice sottolinea come la requisitoria dei pm si basasse su una serie di fatti storici: dai timori di Mannino per la propria vulnerabilità fisica e politica all’indagine sull’anonimo “Corvo 2”, che aveva raccontato di fantomatici incontri tra lo stesso Mannino e Totò Riina, dalle vicende attorno al carcere duro alla sostituzione di Scotti con Mancino e quella di Martelli con Conso. Ma – nota la giudice – si tratta di “fatti ai quali i canoni della conoscenza e dell’esperienza possono attribuire varie ragionevoli interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal pm”. In sostanza, nell’articolata ricostruzione dei pm “elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo di un complesso disegno sottostante – la trattativa con Cosa nostra – e delle mosse per la sua attuazione”. Questi vengono poi accostati ad altri “elementi considerati cause presunte della condotta dell’imputato”. Infine, “tutti questi elementi – accusa Petruzzella – vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria”.

  

Paolo Borsellino ucciso anche per reagire a un’azione repressiva nei confronti della mafia che mai come allora era stata così incisiva  

 

Eppure, si ripete, “ciascuno dei fatti ‘politici’ valorizzati dal pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis o. p. (come quella che, in realtà, veniva all’epoca propugnata da Nicolò Amato, rivelata dalle note che questi all’epoca scriveva al ministro), ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa. E ciò sia se le medesime situazioni si considerino autonomamente l’una dall’altra sia se si considerino nel loro insieme”.

 

I casi Amato e Conso

E’ proprio la complessa vicenda che coinvolse l’allora capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap), Nicolò Amato, a risultare “emblematica di come elementi di sospetto, che non abbiano quindi una grave e autonoma natura indiziaria, se invece considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi a interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale”.

Secondo i pm, fu l’allora capo dello stato, Oscar Luigi Scalfaro, a adoperarsi per rimuovere dal Dap Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. “Invero – nota la giudice Petruzzella – ricorrendo a criteri indiziari elastici, come quelli utilizzati dal pm, avrebbero potuto individuarsi anche a carico di Nicolò Amato una serie di situazioni sospette e astrattamente indicative di una sua volontà di favorire l’abolizione del 41 bis, con l’intento di favorire la mafia e quindi la trattativa”.

Come a dire che adoperando il fantasioso criterio interpretativo dei pm, si potrebbero rintracciare elementi di sostegno alla trattativa con Cosa nostra nell’operato di innumerevoli esponenti delle istituzioni che in quegli anni ebbero un ruolo nella lotta alla mafia.

 

Amato, ad esempio, non solo divenne in seguito avvocato di Vito Ciancimino, ma fu autore il 6 marzo 1993, poco prima di essere rimosso dal Dap e diversi mesi dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, di una missiva indirizzata all’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, subentrato da poche settimane a Claudio Martelli, in cui si proponeva al Guardasigilli di revocare i decreti di carcere duro per i boss mafiosi (“salvo ricorrervi successivamente nella malaugurata, deprecabile ipotesi di un ripresentarsi delle situazioni eccezionali che li giustificano”), in modo da uscire da una situazione emergenziale e tornare a “un regime penitenziario normale”.

 

D’altra parte, però, nota la giudice Petruzzella, “un modo elastico di attribuire natura indiziaria ai fatti, dovrebbe portare a prendere in considerazione anche che nello stesso ‘Appunto’ del 6 marzo 1993 Amato aveva indicato in alternativa al 41 bis una serie di misure, come la registrazione dei colloqui e le videoconferenze per evitare il ‘turismo giudiziario’ dei mafiosi (che se ben applicate avrebbero ostacolato concretamente le comunicazioni con i detenuti e quindi ostacolato la mafia), e tale fatto che porterebbe a ribaltare le valutazioni negative su di lui indotte da tutti quegli altri elementi sospetti”.

 

Lo stesso si potrebbe dire dei comportamenti tenuti dal ministro Conso, accusato dai pm di non aver rinnovato, nel novembre 1993, i decreti che prevedevano il carcere duro per 334 mafiosi, con lo scopo di lanciare un messaggio di “dialogo” a Cosa nostra. La giudice Petruzzella, però, ricorda come Conso nel luglio 1993, vale a dire alla prima scadenza annuale dei primi decreti di 41 bis, rinnovò quei decreti (emessi all’indomani della strage Borsellino) e nota: “La circostanza che tra il 27 e il 28 luglio dello stesso anno vi furono gli attentati di Roma e Milano, e che dopo quegli attentati, a novembre, il ministro Conso, prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41 bis, coerentemente dovrebbe deporre nel senso sostenuto da Conso, che la sua cioè fu una decisione autonoma, presa sotto la pressione del senso di responsabilità che gravava sulla sua coscienza”.

 

Il castello accusatorio messo in piedi dalla procura interamente bocciato dal gip Marina Petruzzella nella sentenza che assolve Mannino 

 

Insomma, gli esempi di Amato e Conso, spiega Petruzzella, “dimostrano a quale circolarità inestricabile e a quali vani risultati probatori porti l’attribuire valore dimostrativo a fatti non gravemente e precisamente significativi dell’assunto da provare”. Talmente gravi sono le lacune dei pm palermitani sul piano probatorio che Petruzzella, come in una sorta di lezione di diritto processuale penale, si spinge a ricordare agli inquirenti alcune basilari sentenze della Cassazione “secondo cui il semplice assemblaggio e la mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nell’interpretazione dei risultati probatori”: “Secondo i rigorosi criteri legali dettati dall’art. 192 comma 2 cod. proc. pen. gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, per accertarne il valore probante individuale in base al grado di inferenza dovuto alla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati unitariamente per porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo. Ogni ‘episodio’ va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della ‘storia’ racchiusa nell’imputazione”. Una procedura ignorata dai pm.

 

 

 

Le patacche di Massimo Ciancimino

Nella sentenza, la giudice Petruzzella sottolinea l’assoluta mancanza di credibilità delle testimonianze fornite da Massimo Ciancimino, per anni icona dell’antimafia prima che la sua vena pataccara emergesse in tutta la sua chiarezza, anche in sede giudiziaria (è stato condannato in via definitiva a tre anni di reclusione per detenzione abusiva di materiale esplosivo – arsenale ad altissimo potenziale che deteneva in giardino ma che sostenne gli fosse stato recapitato per metterlo a tacere – e in primo grado a sei anni per le calunnie rivolte all’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro).

Scrive Petruzzella: “L’analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l’assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale del Ciancimino, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere ‘sulla corda’ i pubblici ministeri col protrarre la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia” (e qui il pensiero va alla celebrazione di Ciancimino fatta da Michele Santoro e Marco Travaglio in tv, e dal Fatto quotidiano e dal gruppo Espresso).

 

In particolare, Ciancimino – prosegue Petruzzella – “sul finire del 2008 creava abilmente nei pm l’aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009 (e solo quando vi era costretto dall’aut aut ricevuto dai pm, che se non lo avesse consegnato avrebbero provveduto d’ufficio), dopo averli inondati di documenti del padre, selezionati a suo piacimento e consegnati nei tempi da lui prescelti, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando”.

 

Petruzzella sottolinea, allo stesso tempo, come il papello infine consegnato ai pm, e “su cui si fonda buona parte del costrutto accusatorio”, sia da ritenersi “frutto di una sua grossolana manipolazione”: “Lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale; è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l’originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita ‘consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros’, attaccato alla fotocopia del papello; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm; ha detto di non conoscere l’autore del papello (non glielo ha rivelato, questa volta, nemmeno il signor Franco/Carlo; ndg); e naturalmente non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti dal Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale”.

 

La trattativa che non ci fu

Demoliti i teoremi dei pubblici ministeri, la giudice Petruzzella trae le conclusioni: “Resta accertato che l’omicidio di Lima, la strage di Capaci, la strage di Via D’Amelio e tutti gli eccidi posti in essere da Cosa nostra fino al ’94, assunsero un’indubbia finalità politico eversiva e implicarono una minaccia anche al governo, che era diretta a condizionare l’azione repressiva contro la stessa organizzazione. Resta inoltre accertato che Mannino fu ben in grado di comprendere, almeno fin dalla fine del 1991, che i corleonesi nutrissero propositi di vendetta anche nei suoi confronti (ne ebbe conferma anche dagli atti intimidatori subiti, di tipico stampo mafioso), e che in tale contesto si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi a Subranni, Mori, a Contrada e altri, per ottenerne protezione”. Poi sottolinea di nuovo che gli elementi concreti per collegare l’interlocuzione tra Mori e Ciancimino con l’iniziativa di Mannino di chiedere protezione ai Ros “appaiono fragili, come pure, si ribadisce, gli elementi per attribuire a Mori una volontà di patteggiare, attraverso Ciancimino, benefici per Cosa nostra”.

 

Inoltre, scrive Petruzzella, “va preso in considerazione il contesto in cui Mori e De Donno si trovavano, che rende molto difficile formulare giudizi negativi o meno sul loro operato. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il ’91 e il ’92, i corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Riina, il suo sentirsi a capo di un’organizzazione che potesse contrastare lo stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con il partito di maggioranza assoluta”.

“Resta il fatto – conclude Petruzzella – che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerasi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi di ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina”.

 

La sentenza Borsellino quater

Se la sentenza di assoluzione nei confronti di Mannino demolisce le fondamenta delle ricostruzioni fatte dalla procura di Palermo sul presunto patto tra stato e mafia, la sentenza del processo “Borsellino quater” pronunciata dalla Corte d’assise di Caltanissetta il 20 aprile 2017 smentisce un altro dei punti fondamentali della recente sentenza palermitana sulla trattativa, vale a dire la teoria secondo cui sarebbe stato il dialogo tra lo stato e Cosa nostra a determinare “l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino”.

Per la sentenza “Borsellino quater”, infatti, le indagini hanno dimostrato che i motivi che spinsero Cosa nostra a uccidere Borsellino furono di tutt’altro genere. E’ stato provato, infatti, che la strategia stragista adottata da Cosa nostra aveva un triplice obiettivo: “La reazione vendicativa susseguente al previsto esito sfavorevole del ‘maxiprocesso’, la destabilizzazione della compagine statale e la ricerca di referenti politici in sostituzione dei precedenti dimostratisi inaffidabili”.

 

Vendetta contro il maxiprocesso

Sul primo obiettivo (le stragi come reazione vendicativa alla sentenza del maxiprocesso contro Cosa nostra del 30 gennaio 1992), i giudici fanno riferimento alle risultanze evidenziate anche dalla sentenza n. 24/2006 della Corte d’assise di appello di Catania nel processo “Borsellino ter”, passata in giudicato: “Il Riina si è impegnato, in modo spasmodico, onde ottenere un esito favorevole di tale maxiprocesso per gli interessi di Cosa nostra. Non era per lui importante la conferma delle statuizioni di responsabilità per i reati associativi, era invece fondamentale che venisse smentita l’impostazione data dal giudice Falcone in merito alla struttura organizzativa di Cosa Nostra ed alla responsabilità dei suoi organi di vertice. Era in gioco la credibilità del Riina nei confronti dell’intera organizzazione e anche la stessa immagine di Cosa nostra”. Il fatto che Riina riponesse la massima attenzione sull’esito del maxiprocesso trova conferma anche nelle parole di uno dei pochi collaboratori di giustizia ascoltati durante le indagini sulla strage di Via D’Amelio e ritenuti credibili, vale a dire Antonino Giuffrè: “Il maxiprocesso era la spina nel fianco di Salvatore Riina, (…) l’esito positivo era di importanza vitale”.

 

Riina si impegnò “in modo spasmodico” per un esito favorevole del maxiprocesso. Falcone e il carattere unitario di Cosa nostra

   

Ma per comprendere a pieno i motivi per i quali Riina temeva così tanto l’esito della sentenza occorre considerare il principio fondamentale che fu effettivamente affermato dalla Cassazione con la sentenza del 30 gennaio 1992, vale a dire “il principio, sul quale Giovanni Falcone aveva impostato tutto il suo lavoro, del carattere unitario di Cosa nostra e, quindi, della riconducibilità degli ‘omicidi eccellenti’ alla volontà della ‘commissione’ provinciale di Palermo”. “Come è stato sottolineato dalla sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte d’assise di Caltanissetta nel processo ‘Borsellino ter’ – ricordano i giudici – una tale impostazione aveva effetti devastanti per l’intera organizzazione, poiché chiamava a rispondere dei delitti più gravi i soggetti che avevano ruoli direttivi, compromettendo la stabilità di una struttura le cui fortune si fondavano essenzialmente sull’impunità dei suoi componenti, impunità che operava con gradazioni diverse e crescenti a seconda del ruolo ricoperto. Se, infatti, coloro che intervenivano nella fase esecutiva del delitto si esponevano in certa misura al rischio dell’intervento repressivo, specie nella flagranza del reato, coloro che deliberavano il delitto e svolgevano solo il ruolo di mandanti erano sottratti anche a tale rischio e l’omertà per lungo tempo imperante all’interno del sodalizio criminale impediva l’accesso ai segreti della fase decisionale e quindi la verifica delle responsabilità penali. L’accertamento, invece, del meccanismo di formazione del consenso per le deliberazioni più importanti, unitamente alla nascita del fenomeno delle collaborazioni di coloro che si dissociavano dall’organizzazione, scardinava tali certezze ed esponeva al concreto pericolo di una lunga detenzione anche i titolari del potere decisionale in Cosa nostra”.

 

Chiarita l’importanza cruciale per Cosa nostra della sentenza è facile comprendere perché, come affermano i giudici, la condanna a morte nei confronti di Falcone e Borsellino venne decretata da Cosa nostra sul finire del 1991, quando ormai era diventato chiaro per Riina che i tentativi compiuti per condizionare la sentenza del maxiprocesso (come quello di far presiedere il processo al giudice Corrado Carnevale, anziché ad Arnaldo Valente, ipotesi su cui si era opposto Falcone in persona) non erano andati in porto e che dunque era ormai da ritenersi certa una sentenza sfavorevole: “Non vi è dubbio – scrivono i giudici – che al momento della riunione della Commissione provinciale di Cosa nostra svoltasi tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre del 1991, i vertici dell’organizzazione mafiosa fossero nelle condizioni di prevedere, fondatamente, un esito per loro negativo del ‘maxiprocesso’, e considerassero questa prospettiva come una minaccia gravissima per gli assetti di potere su cui poggiava l’illecito sodalizio”. Prima ancora, era stata la Corte d’assise di appello di Catania a rilevare che “nella riunione in esame, caratterizzata dalla fondata certezza che il maxiprocesso avrebbe avuto un esito negativo per Cosa nostra, è stato affermato un obiettivo strategico che si può definire come quello della reazione vendicativa”. Infatti, come più volte raccontato dallo stesso Giuffrè, è in quell’occasione che fu “messo in evidenza da Salvatore Riina che eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti, (…) cioè verrà attuato quel piano che è andato maturato nel tempo e sono stati fatti i nomi di Falcone, di Borsellino e di Lima”.

 

Dietro la strage di Via D’Amelio le inchieste sugli appalti e sulla morte di Falcone, la possibile nomina alla Procura nazionale antimafia

 

I giudici di Caltanissetta sottolineano come il piano vendicativo di Cosa nostra “si indirizzasse, oltre che nei confronti di Giovanni Falcone, anche contro Paolo Borsellino, il quale aveva intrapreso con gli altri colleghi del ‘pool’ antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, diretto prima da Rocco Chinnici e successivamente da Antonino Caponnetto, la straordinaria attività investigativa sfociata nell’ordinanza di rinvio a giudizio del ‘maxiprocesso’”.

Il piano stragista, affermano sempre i giudici, “assunse un contenuto strategico più ‘esteso’ nel corso delle successive riunioni ristrette di febbraio-marzo 1992, mirando anche alla ‘destabilizzazione’ della compagine statale e alla ricerca di referenti politici in sostituzione dei precedenti dimostratisi del tutto inidonei”.

 

La volontà di Riina di destabilizzare lo stato, tuttavia, non traeva origine dai segnali di debolezza che l’apparato statale avrebbe palesato mostrandosi disponibile a trattare con Cosa nostra (come affermato dai giudici palermitani della sentenza sulla trattativa), bensì proprio dalla necessità di reagire a un’azione repressiva nei confronti della mafia che mai come allora era stata così incisiva. In questo senso, si richiamano gli “approfonditi rilievi” formulati dalla Corte d’assise di Caltanissetta nel 1999 nel processo Borsellino ter: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato e indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”.

 

L’inchiesta mafia-appalti

Ad accelerare l’uccisione di Borsellino fu anche la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti dopo l’omicidio del collega Falcone: “Se il desiderio di vendetta che animava gli affiliati di Cosa nostra nei confronti di Paolo Borsellino per l’attività giudiziaria che egli aveva saputo svolgere costituiva un forte movente per volerne l’uccisione – scrivono i giudici di Caltanissetta – altrettanto certo appare che tale volontà era rafforzata dalla precisa consapevolezza che il magistrato rappresentava anche per il futuro un concreto pericolo per l’organizzazione mafiosa proprio a causa del particolare impegno e della straordinaria efficacia della sua attività professionale, che si avvaleva della profonda conoscenza e della memoria storica da lui acquisite su quel fenomeno criminale. Tale pericolo nasceva sia dalle funzioni giudiziarie allora svolte dal magistrato, nonché dallo specifico oggetto delle attività di indagine da lui espletate nel periodo in esame, sia dalla prospettiva che egli fosse nominato Procuratore nazionale antimafia”.

“Al riguardo – aggiungono i giudici – deve osservarsi che l’attività svolta da Paolo Borsellino nei 57 giorni intercorrenti tra la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio si riferiva sia alla raccolta delle dichiarazioni rese da Gaspare Mutolo a seguito della sua scelta di collaborazione con la giustizia, sia alla gestione mafiosa degli appalti pubblici, sia ad una coraggiosa ricerca della verità sulle ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare l’eliminazione di Giovanni Falcone, a breve distanza di tempo dall’omicidio Lima”.

 

La condanna a morte di Falcone e Borsellino quando era diventato chiaro che condizionare la sentenza del maxiprocesso non era possibile 

 

Su questo punto si fa riferimento alle conclusioni raggiunte dalla Corte d’Assise di Caltanissetta con la sentenza n. 23/1999: “Le dichiarazioni di Giovanni Brusca, che ha riferito che Cosa nostra era a conoscenza del fatto che Borsellino voleva capire le ragioni dell’attentato a Falcone e voleva continuarne l’opera, dimostrano inequivocabilmente come non fosse sfuggita a quella consorteria criminale la manifestazione di intenti coraggiosamente enunciata dal magistrato in un momento in cui un senso di frustrazione poteva assalire gli investigatori per la gravità del reato che tale sodalizio era stato in grado di porre in essere. Ben comprensibile doveva essere, quindi, l’allarme suscitato in Cosa nostra dalle esternazioni del magistrato, allarme destinato ad acuirsi quando nel giugno del 1992 incominciarono, dopo un lungo periodo di interruzione di nuove scelte collaborative, le collaborazioni del Mutolo e del Messina, ed entrambi vennero sentiti tra il giugno e il luglio di quell’anno da Borsellino, di cui si aveva ragione di temere che potesse nuovamente ripetere, dall’alto della sua grande esperienza e capacità e grazie alle più recenti acquisizioni probatorie che i predetti consentivano, le fruttuose inchieste che avevano portato al primo maxiprocesso. Ed appare ovvio che le indagini che maggiormente si prospettavano dannose per gli esponenti di Cosa nostra erano da una parte quelle aventi a oggetto i delitti di sangue, puniti con la pena perpetua, veramente temuta dagli affiliati (…), dall’altra le indagini che toccavano gli interessi strategici dell’organizzazione, e cioè le sue fonti di arricchimento e i collegamenti con ambienti del mondo politico e imprenditoriale”.

 

Per i giudici furono i timori di Cosa nostra legati al crescente impegno profuso da Borsellino nell’inchiesta mafia-appalti, di cui si era occupato Falcone prima della morte, ad accelerare l’esecuzione del magistrato: “Varie deposizioni dimostrano che Borsellino aveva mostrato particolare interesse dopo la morte di Falcone alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti, e ciò non solo perché lo riteneva di fondamentale importanza per quella organizzazione ma anche perché convinto che potesse lì rinvenirsi una delle principali ragioni della strage di Capaci”.

Borsellino “stava già traducendo in atti questo progetto”, come dimostra l’incontro da lui avuto con Mori e De Donno il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, in cui venne proposta “la costituzione presso il Ros dei carabinieri di un gruppo coordinato dal De Donno che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia e appalti, riferendo direttamente ed esclusivamente a Borsellino”. Anche la scelta da parte di Borsellino degli investigatori cui affidare l’inchiesta che maggiormente gli stava a cuore in quel momento “non era casuale”, scrivono i giudici, se si considera che De Donno era l’autore delle indagini che avevano portato alla stesura del rapporto su mafia e appalti che era stato inizialmente consegnato a Falcone.

 

Borsellino era così convinto dell’importanza dell’inchiesta mafia-appalti che ne parlò anche con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini su Mani pulite, come da questi rivelato nel corso di una testimonianza nel processo: “Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione”. Dal momento che dalle indagini effettuate dai Ros stavano emergendo nomi che rientravano anche nell’inchiesta di Mani pulite, Di Pietro e Borsellino si mostrarono intenzionati a “sviluppare di comune intesa delle modalità investigative, fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove”.

Le dichiarazioni rilasciate nel processo da Brusca e, soprattutto, da Angelo Siino, colui al quale era stato affidato il compito di gestire per conto di Cosa nostra l’intero sistema di appalti pubblici a Palermo, per i giudici “hanno confermato che ancora una volta l’acume investigativo di Borsellino aveva colto nel segno, intuendo ben al di là di quanto ancora era emerso dal primo rapporto del Ros quanto fosse strategico per Cosa nostra il suo coinvolgimento nella gestione degli appalti”. In particolare, “Siino ha riferito che Cosa Nostra sapeva che anche Borsellino aveva espresso sui giornali la conoscenza su quel fenomeno e la convinzione che uno dei motivi dell’attentato a Falcone risiedesse proprio nell’acquisita consapevolezza da parte sua di quel collegamento perverso”.

 

Massimo Ciancimino e il papello “su cui si fonda buona parte del costrutto accusatorio… frutto di una sua grossolana manipolazione” 

  

Borsellino fu quindi ucciso proprio per i crescenti timori di Cosa nostra circa l’inchiesta mafia-appalti: “Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Costa nostra, tuttavia l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini, unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta e ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone”.