Quel processo non deve finire

Riccardo Lo Verso

Guardate che cosa s’è inventata la Procura generale di Palermo per bloccare le cinque assoluzioni di Mannino

Ormai siamo all’ultima sfida, corpo a corpo. Stavolta viene giù tutto. Se la Cassazione rende definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino crolla l’intera impalcatura della trattativa Stato-mafia. La posta in gioco è altissima, specie per chi, come il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il filo della Trattativa lo segue da anni.

 

Scarpinato e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera fanno ricorso e sollevano una questione di illegittimità costituzionale. Si giocano l’ultima carta di fronte ai teoremi che crollano e allo tsunami che travolge i pentiti.

  

I processi di oggi sono figli dell’inchiesta sui “sistemi criminali” teorizzati dal procuratore Scarpinato. Una inquisitio generalis

I processi di oggi sono figli della inchiesta sui “sistemi criminali” teorizzati da Scarpinato. Altro non era che una inquisitio generalis, un calderone chiuso e riaperto, morto e risorto, in cui si sosteneva che fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 la mafia cambiò i suoi referenti politici. Due associazioni criminali, una mafiosa e l’altra sovversiva, avevano attentato all’ordine democratico con le bombe.

  

Il processo sulla Trattativa si è inserito nel solco tracciato dai “sistemi criminali”, nonostante lo stesso Scarpinato, allora procuratore aggiunto, avesse chiesto l’archiviazione. Perché? Perché i teoremi vanno dimostrati e le prove non c’erano.

 

Se la Cassazione dovesse mettere il sigillo sull’innocenza di Mannino prima che si arrivi alla sentenza di appello nel troncone principale del processo sulla Trattativa (chiuso con condanne pesantissime), si dovrebbe recitare il de profundis per quei teoremi tanto cari prima a Scarpinato e poi ad Antonio Ingroia.

  

La Corte di assise, nel procedimento con il rito ordinario, ha inflitto dodici anni di carcere ciascuno agli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Da icona dell’antimafia a “calunniatore”. Prescritte le accuse nei confronti di Giovanni Brusca. Una vittoria netta per i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.

 

Il processo a Mannino, giudicato a parte perché ha scelto l’abbreviato, ha demolito le certezze. Se l’ex ministro non chiese aiuto ai carabinieri, temendo di essere ammazzato, e non diede il via al patto scellerato con i boss la ricostruzione diverrebbe, come appare già oggi, illogica.

 

Siamo all’ultima sfida, pancia a terra e coltello fra i denti. Scarpinato e i sostituti tentano di arginare gli effetti della sentenza di appello che non ha negato solo la responsabilità di Mannino, ma ha anche affermato l’insussistenza delle contestazioni. La Trattativa non ci fu per buona pace di chi ne ha fatto uno slogan, una bandiera.

 

La Procura generale, dunque, fa ricorso in Cassazione contro il proscioglimento di Mannino. Si affida a due pentiti, due sacchi vuoti, e chiede ai supremi giudici di sollevare un conflitto di costituzionalità.

 

Ormai è un tratto distintivo della magistratura requirente che non riesce ad affrancarsi dal pentitismo. Passa il tempo, ma continua a restare aggrappata ai collaboratori di giustizia nella speranza che diventino l’ancora di salvezza. Di più, l’approdo sicuro per evitare la deriva. Processuale, s’intende. La trattativa Stato-mafia non fa eccezione. I collaboratori sono un baluardo. E non importa se la loro credibilità sia stata picconata, se la memoria si illumini a decenni di distanza dal primo verbale.

 

È a due pezzi da novanta del pentitismo che la Procura generale affida le speranze di ribaltare l’esito dell’assoluzione di Mannino

È a due pezzi da novanta del pentitismo, Giovanni Brusca e Francesco Onorato, che la Procura generale affida le speranze di ribaltare l’esito dell’assoluzione di Mannino.

  

La pubblica accusa si sente oppressa, ingabbiata, impossibilitata a trovare una verità che, ad onor del vero, cerca da decenni senza risparmiare in uomini e mezzi, messi a disposizione in maniera illimitata.

 

Come contenere il rischio che venga giù tutto. Chiedendo alla Cassazione di investire la Consulta, i cui tempi di decisione non sarebbero brevi.

 

Mannino è stato scagionato sia in primo che in secondo grado. Un caso di cosiddetta “doppia conforme” di proscioglimento che, sulla base della legge in vigore dal 2017, limita il ricorso in Cassazione del pubblico ministero che può essere proposto solo per “inosservanza o erronea applicazione della legge penale” o “delle norme processuali”. Non si può ricorrere ai supremi giudici per la “mancata assunzione di una prova” o per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione” di assoluzione o proscioglimento.

 

La Procura generale ci prova lo stesso. Scarpinato e i sostituti ritengono di avere le armi spuntate. La legge intaccherebbe il paradigma dell’obbligatorietà dell’azione penale, il mantra del potere-dovere del pubblico ministero che ha alimentato gli eterni “sistemi criminali”, laddove non c’erano prove ma affascinanti sospetti. La pubblica accusa si sente costretta per colpa della legge a tenere una “nuova e decisiva” prova nel cassetto, ad abdicare al compito di cercatrice di verità.

 

Altro che parità fra accusa e difesa, l’accusa soccomberebbe di fronte a una legge “discriminatoria” che favorisce l’imputato.

 

Detta così, senza per forza avventurasi in disquisizioni tecnico giuridiche, di certo suona come una beffa alle orecchie di Calogero Mannino che imputato lo è da un quarto di secolo. Su di lui hanno indagato, in lungo e in largo, una dozzina di pubblici ministeri e si sono pronunciati decine di giudici sempre con un verdetto assolutorio. Vuoi vedere che la prova della colpevolezza stava lì, a portata di mano, nascosta fra migliaia e migliaia di pagine di atti processuali che l’accusa ha accumulato in decenni di indagini?

 

 L’ex ministro ha trascorso una fetta della sua vita a difendersi dalle accuse. Su di lui hanno indagato una dozzina di pubblici ministeri

Mannino ha trascorso una fetta della sua vita a difendersi dall’accusa di essere prima un concorrente esterno dei mafiosi e poi di avere avviato la Trattativa durante la stagione delle stragi. E dire che l’indagine sul presunto patto fra boss e pezzi delle istituzioni è approdata alla fase processuale nel luglio del 2012 quando gli atti – 120 faldoni via via aumentati di numero – furono trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari. Il rinvio a giudizio degli imputati fu deciso il 7 marzo 2013 ed è la data in cui doveva essere emessa una sentenza per l’imputato Mannino che invece sarebbe stato assolo in primo grado solo due anni dopo.

  

E quali sarebbero le prove decisive che la legge, a dire dell’accusa iniqua e sbilanciata in favore della difesa perché mette dei paletti dopo due (2) proscioglimenti, impedisce di produrre in nome della verità? Naturalmente le parole dei due pentiti. Parole il cui significato alla Procura generale appare chiaro ed evidente e che invece si presentano vaghe, fumose.

 

Come quelle pronunciate da Francesco Onorato, killer del gruppo di fuoco a disposizione della commissione provinciale di Cosa Nostra e autore, fra gli altri, dell’omicidio dell’eurodeputato democristiano Salvo Lima.

 

Onorato era stato sentito una prima volta nel 2013 e poi di nuovo nel 2017 dalla Corte di assise nel troncone principale del processo. La Procura generale vorrebbe applicare una sorta di travaso delle prove.

 

Si tralasci pure il fatto che la Corte di appello (presidente Adriana Piras, consigliere a latere Massimo Corleo e relatrice Maria Elena Gamberini) ha stabilito che Mannino doveva morire per il suo impegno antimafia.

 

Si dia per buona l’ipotesi che i giudici di primo e secondo grado siano stati vittima di un clamoroso abbaglio.

 

Ci si concentri, solo ed esclusivamente, su quanto riferito da Onorato. Prima che Salvo Lima venisse trucidato e quando ormai le condanne del maxiprocesso erano divenute definitive l’eurodeputato sarebbe stato convocato dai mafiosi per il redde rationem in un albergo sul mare della provincia palermitana. Lima mangiò la foglia e, ha detto Onorato, “gli diede buca”. I boss avevano convocato anche altri politici, fra cui Mannino ma, ha aggiunto Onorato, “non so se gli altri sono venuti”.

  

Dunque il pentito non sa se ci fu la convocazione e come andò a finire. Oltretutto la sua non era una notizia di prima mano, ma appresa de relato, da un altro mafioso, Salvatore Biondino, factotum di Totò Riina.

  

La Corte ha ritenuto le parole di Onorato “inammissibili perché non oggetto di richiesta di rinnovazione con l’atto d’appello, né aventi ad oggetto prove sopravvenute, giacché già note al pubblico ministero”.

 

Insomma, l’accusa non aveva chiesto che facessero parte della nuova istruttoria dibattimentale e poi, visto che erano vecchie di anni, non si potevano certo spacciare per prove sopravvenute.

  

Altro tema che Scarpinato e i suoi sostituti non hanno gradito è la “mancata convocazione di Giovanni Brusca per chiarire un passaggio delle sue dichiarazioni rese in aula nel maggio 2018”. Allora il boia di San Giuseppe Jato, così soprannominato per il numero di omicidi commessi, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, riferì di non avere saputo da Riina perché volesse uccidere Mannino. “Era in contrasto o non aveva mantenuto l’impegno, questo non glielo so dire”, spiegò Brusca, ammettendo di non sapere. Aggiunse però che l’ex ministro “era stato cercato da parte di Salvatore Riina per aiutarlo tipo ad aggiustare processi o qualche altro favore, per intervenire su qualche cosa”.

 

Generico, troppo generico. Infine aggiunse, la prova nuovissima: “Sapevo che lui (Mannino) era molto amico del notaio Ferrara quindi attraverso costui doveva avvicinare per… sapevo qualche cosa così generica non conoscevo dettagli… che era vicino a questo notaio Ferrara vicino a Messina Matteo Denaro quindi qualche cosa molto generica… credo che l’interesse particolare riguardava il processo Basile”.

 

Un lampo improvviso e confuso nei ricordi di uno che fa il pentito da decenni, ma che per l’accusa avevano il crisma della “assoluta novità ed originalità”, degne quindi di un ulteriore esame. Il collegio di appello non la pensò alla stessa maniera e decise di non riconvocare il boss pentito. Nessuno aveva dato importanza alle sue parole, neppure la pubblica accusa.

 

Cionondiméno, pur rigettando la richiesta di una nuova convocazione di Brusca in aula, nella motivazione più di qualcosa la Corte ha scritto sul punto. Ha ricordato che Brusca, nei tanti processi in cui è stato sentito, anche in quello che ha visto imputato Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa, mai ha parlato di favori resi dal politico alla mafia, né tanto meno dell’aggiustamento del processo per la morte del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, assassinato nel 1980.

 

E neppure ne ha parlato negli anni Novanta, all’inizio della collaborazione quando la memoria era fervida, deponendo al processo al notaio Pietro Ferraro a cui veniva contestato di avere minacciato il presidente della Corte del processo per l’omicidio Basile. Al possibile, ma smentito, ruolo di Mannino nell’aggiustamento del processo Basile era dedicato un intero capitolo della sentenza con cui l’ex ministro fu assolto.

 

Anni di processi, deposizioni e sentenze definitive che, secondo la Procura generale, valgono meno del lampo di memoria di un collaboratore di giustizia che ha taciuto quando era giusto che parlasse . E ha taciuto perché nulla sapeva su Mannino.

 

Per il collegio di appello ce n’era abbastanza per parlare di “grave incostanza del Brusca”, di frasi “a scoppio decisamente ritardato, secondo uno schema di chiamata ad orologeria, per nulla tranquillizzante, pur avendo in passato avuto svariate occasioni per farlo, come ammesso dagli stessi procuratori generali”. Procuratori generali che ora, nel ricorso in Cassazione, definiscono la prova di Brusca “assolutamente necessaria”.

 

Pentiti, vecchi e nuovi, riciclati e per tutte le stagioni servono alla causa della Trattativa. L’eterno ritorno ai sospetti

Come necessaria ritenevano anche l’acquisizione delle recenti dichiarazioni del nuovo pentito, Filippo Bisconti, architetto e capomafia di Balmonte Mezzago, il quale ha detto di avere saputo in carcere da un boss di Corleone, Rosario Lo Bue, che Calogero Mannino era affiliato alla famiglia mafiosa del suo paese di origine, in provincia di Agrigento. Alla Corte di appello è toccato ricordare che, anche volendo prendere per vero il chiacchiericcio carcerario, Mannino è stato processato e assolto dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. Insomma c’è un giudicato che non si può scalfire, costruito su anni di processi seri e non su Radio Carcere .

 

Pentiti, vecchi e nuovi, riciclati e per tutte le stagioni servono alla causa della Trattativa. Le loro dichiarazioni vengono rilanciate anche da chi, come Scarpinato, ad un certo punto tentò di smarcarsi dalla stessa Trattativa. Per ottenere la condanna del generale Mario Mori (definitivamente assolto per la mancata cattura di Bernardo Provenzano) il procuratore aveva suggerito di scavare nel passato del generale, fino a giungere alla P2 di Licio Gelli e a rispolverare i sempiterni sistemi criminali. Era l’eterno ritorno ai sospetti, teorizzati e mai dimostrati.

 

Fu stoppato dai giudici. Andare indietro nel tempo non era utile. Ora però le cose sono cambiate, è il momento di resistere, di ingaggiare l’ultimo duello corpo a corpo, di affidarsi ai vecchi pentiti e sperare che la Corte costituzionale intervenga. Serve (dis)equilibrio fra accusa e difesa.

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