Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931) in una foto del 1996. Oggi ha 88 anni (foto LaPresse)

Il club dei tosti ottantenni, l'incubo dei reverendissimi togati

Giuseppe Sottile

Contrada, Ciancio, Mannino, Subranni e Mori. Ma quanta vita serve a un imputato per ottenere giustizia?

Chi glielo dice ai reverendissimi padri inquisitori che anche l’infedele Bruno Contrada, 89 anni, esce vincitore nella lotta contro l’invincibile sant’uffizio dell’antimafia chiodata? Chi glielo dice ai manettari di ultima generazione che ci sono in Sicilia cinque imputati eccellenti, tutti ottantenni, che resistono indomiti a ogni sopruso, a ogni angheria, a ogni spregiudicatezza della legislazione antimafia? E chi lo dice ad Alfonso Bonafede, ministro Guardasigilli e teorico dei processi senza fine, che quei cinque imputati di mafia stanno appesi al palo della gogna da oltre un quarto di secolo ma non intendono per nessuna ragione al mondo darla vinta ai cosiddetti magistrati coraggiosi? “Loro aspettano che, data l’età, noi moriamo in corso di processo; così non si stabilirà mai se avevamo ragione noi o ragione loro”, confessa Lillo Mannino, l’ex ministro democristiano assolto anche in appello dall’accusa di avere partecipato alla fantomatica trattativa tra alcuni apparati dello Stato e i corleonesi di Totò Riina che, nella feroce stagione delle stragi, seminarono in Sicilia sangue e terrore.

 

 

Mannino, parla senza scongiuri e senza iattanza. Da venticinque anni sale e scende dai tribunali nella speranza di ottenere giustizia. E’ stato per sei mesi rinchiuso nel carcere di Rebibbia e ha collezionato pure cinque assoluzioni: gli sono serviti tre gradi di giudizio per scrollarsi di dosso il concorso esterno in associazione mafiosa e altre due sentenze favorevoli per liberarsi dell’infamante accusa di essere stato tra i registi occulti del patto scellerato con i boss. Ma quando la partita sembrava definitivamente chiusa ecco il ricorso in Cassazione presentato dalla procura generale il cui capo, manco a dirlo, è Roberto Scarpinato il magistrato che molti anni fa, da sostituto procuratore, aveva teorizzato i “sistemi criminali”, un contenitore – poi chiamato per comodità Trattativa – nel quale aveva riversato di tutto, dalla mafia alla P2 di Licio Gelli, dai servizi segreti deviati alle consorterie di innominabili e innominati poteri forti.

 

Un ricorso anomalo quello presentato contro Mannino dai sostituti di Scarpinato: non potendo impugnare la sentenza della Corte d’appello – in presenza di due assoluzioni, primo e secondo grado, la Cassazione, in base a una legge del 2017, deve per forza dichiarare irricevibile il ricorso – gli ostinati accusatori della procura generale chiedono alla Suprema corte di sollevare, addirittura, una questione di legittimità costituzionale: la Corte d’appello aveva rifiutato di ascoltare due pentiti sostenendo che i due ex picciotti di mafia, deponendo più volte nei processi in cui Mannino era stato imputato di concorso esterno, non avevano mai fatto accenno al ruolo dell’ex ministro nella Trattativa. Quindi, che motivo c’era di risentirli? Ma Scarpinato, che non può darla vinta a Mannino, si appiglia a questa decisione per chiedere alla Consulta se, nel giudizio di Palermo, non siano stati violati per caso i diritti dell’accusa. “Lana caprina”, tagliano corto gli avvocati della difesa. E Mannino, 81 anni ad agosto, insiste: “I giovani possono morire e i vecchi devono morire: ecco, dietro il tentativo di allungare oltre ogni limite i tempi c’è la speranza che il passaggio a miglior vita dell’imputato lasci il processo sospeso a mezz’aria, tra verità e teorema, senza vincitori né vinti. E’ una ipotesi malevola, lo ammetto; ma, al punto in cui siamo, sono costretto a farla”.

 

 

Allontanare la fine della partita è un obiettivo vitale per la filiera di magistrati che hanno costruito il monumento giudiziario della Trattativa; e che all’ombra di quel monumento hanno anche tentato ambiziose avventure di gloria e di potere. Immaginate che cosa succederebbe se la Cassazione cestinasse, com’è probabile, il ricorso presentato dagli uomini di Scarpinato. Indirettamente sottoscriverebbe le ragioni dell’assoluzione e la decisione andrebbe a pregiudicare, per forza di cose, il futuro giudizio della Suprema Corte sul secondo filone della Trattativa: quello che si svolge con rito ordinario (Mannino ha scelto il rito abbreviato) e che in primo grado ha già emesso una pesantissima sentenza di condanna, oltre che per i boss, anche per due alti ufficiali dei carabinieri ed ex comandanti del Ros, Mario Mori e Antonio Subranni – 81 anni il primo e 87 anni il secondo – energicamente impegnati, come Mannino, nel rifiuto radicale di ogni accusa. In quell’epoca maledetta, tra il 1992 e il 1993, hanno tentato in tutti i modi di arginare il fiume di sangue; meriterebbero una medaglia d’oro e gli hanno invece scaricato addosso un’infamia per la quale non si riesce ancora a intravedere la fine. Condannati in primo grado a undici anni di carcere, hanno riposto le speranze di uscire indenni nella sentenza d’appello che, coronavirus permettendo, dovrebbe arrivare tra maggio e giugno. Ma dopo l’appello ci sarà comunque la Cassazione. Quanta vita è necessaria, in questo paese, per avere comunque una verità giudiziaria?

 

Al club dei tenaci e audaci ottantenni appartiene anche Mario Ciancio, classe 1933, editore de La Sicilia di Catania, della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e di due tv private. Lo hanno appeso al palo della gogna quindici anni fa, con l’accusa di essere amico dei boss catanesi, non ultimo Nitto Santapaola, alleato dei corleonesi nella scalata alla cupola di Cosa nostra. Il processo per concorso esterno – dopo proscioglimenti, ripensamenti, liti tra giudici e legittime suspicioni – è arrivato finalmente in appello. Ma Mario Ciancio un primo scacco matto all’antimafia chiodata lo ha già dato. Il 20 settembre del 2018 la procura distrettuale aveva tentato di stringere l’editore all’angolo: come se non bastasse il processo penale, lo aveva trascinato anche davanti al tribunale per le misure di prevenzione; e il tribunale gli aveva sequestrato l’intero patrimonio, a cominciare dai due quotidiani, per un valore complessivo di 150 milioni di euro. Le redazioni, con tutti i giornalisti, erano state affidate a due amministratori giudiziari, ma le testate, pur tra mille difficoltà, hanno tenuto il punto. Il 24 marzo scorso il colpo di scena: la Corte di appello, presieduta da Dorotea Quartararo, ha accolto il ricorso della famiglia e ha riconsegnato all’imprenditore tutti beni, specificando che “non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo di Ciancio in favore di Cosa nostra”. La procura, va da sé, ha tentato, con una estrema opposizione, di bloccare “l’esecutività del provvedimento” e ha chiesto formalmente alla Corte di appello di aspettare quantomeno l’esito del processo per concorso esterno. Ma il collegio presieduto dalla dottoressa Quartararo non ha sentito ragioni e l’altro ieri, martedì, ha materialmente riconsegnato alla famiglia Ciancio le chiavi delle aziende. Certo, il calvario per l’editore catanese non si è concluso. Deve ancora arrivare la sentenza d’appello e poi il giudizio finale della Cassazione. Quanto tempo sarà necessario? Quanta vita serve a un imputato di mafia, in Italia e soprattutto in Sicilia, per ottenere giustizia?

 

 

Gli ottantenni non solo combattono ma riescono anche a sopravvivere a dolori e umiliazioni, all’infamia e al carcere. Il vice questore Bruno Contrada, classe 1931, fu arrestato la notte di Natale, giusto quella, del 1992 con la pesantissima accusa di avere messo la divisa di poliziotto al servizio di boss e picciotti. Tra il carcere militare di Forte Boccea e gli arresti domiciliari ha scontato quasi tutta la pena: dieci anni. Tribunali e corti d’appello lo hanno processato e condannato, la Cassazione ha dato pure il suo sigillo di legittimità. Ma nel 2015 la Corte europea per i diritti dell’uomo sparigliò il gioco e decise che la giustizia italiana doveva solo risarcire quel poliziotto: era stato infatti celebrato un processo che non si poteva e non si doveva celebrare; i fatti contestati erano riconducibili agli anni compresi tra il 1979 e il 1988; e a quel tempo il reato di concorso esterno in associazione mafiosa “non era sufficientemente chiaro”; pertanto i tribunali nazionali, con quella condanna, non avevano rispettato i principi di “non retroattività e prevedibilità della legge penale”. Da qui l’invito, ai giudici italiani, di procedere al risarcimento: se non poteva essere né giudicato né condannato, ogni giorno di carcere era stato per Contrada nient’altro che una insopportabile ingiustizia.

 

I reverendissimi togati – primo fra tutti Antonio Ingroia, il sostituto procuratore che aveva avviato l’azione penale – hanno tentato in mille modi di svilire il pronunciamento della Corte europea. E si sono rifugiati dietro il paravento della “giustizia sostanziale”: hanno ricordato colpe e peccati dell’imputato e soprattutto i chiodi con i quali lo hanno crocifisso numerosi pentiti, alcuni dei quali – il caso più eclatante è quello di Gaspare Mutolo – erano stati catturati proprio da Contrada alla fine degli anni Sessanta, quando il poliziotto dirigeva la sezione omicidi della squadra mobile palermitana. Ma la campagna di stampa contro la Corte europea, sostenuta con accenti sacramentali anche da Gian Carlo Caselli – che nel gennaio del 1993 era diventato procuratore capo di Palermo e aveva preso in carico con la sua autorità e la sua autorevolezza il caso Contrada – non è riuscita a fermare il corso del risarcimento. I giudici italiani, chiamati a recepire la sentenza di Strasburgo, si sono mossi con i piedi di piombo, tanto che fretta c’era, ma alla fine hanno deciso: il poliziotto dovrà essere risarcito. Martedì scorso, su istanza dell’avvocato Stefano Giordano, che ha accompagnato Contrada in tutte le stazioni della via crucis, la Corte di appello presieduta da Fabio Marino ha quantificato il danno: 667 mila euro.

 

L’assegno, bisogna dirlo, non sarà staccato subito dal ministero di Giustizia, quello retto dal puro e duro Alfonso Bonafede. La procura generale di Roberto Scarpinato quasi certamente presenterà ricorso in Cassazione. Ma l’ottantanovenne Contrada la soddisfazione morale l’ha già incassata. Per l’assegno purtroppo bisognerà aspettare. Chi vivrà vedrà.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.