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Mannino ci racconta cosa vuol dire sperimentare una gogna infinita

Annalisa Chirico

L'ex ministro ci dice perché la sentenza dimostra che “lo stato non è sceso a patti ma ha sconfitto Cosa nostra”

Roma. Una “cattedrale della giustizia e del diritto”, Calogero Mannino definisce così la sentenza che lo manda assolto in un processo “abbreviato” che è durato sei anni. Finalmente conosciamo le motivazioni della pronuncia con cui, lo scorso luglio, la Corte d’appello di Palermo ha demolito l’architrave della presunta “trattativa” tra pezzi dello stato e Cosa nostra. I giudici non si sono fermati alla lettura delle carte processuali del primo grado ma hanno riaperto l’istruttoria dibattimentale per scandagliare ogni dubbio.

  

L’esito non è cambiato. “La corposità del dispositivo – commenta al Foglio l’ex ministro Dc – è il riflesso della congerie di materiali accumulati dall’accusa allo scopo di seppellire la verità nella confusione delle carte e nel travisamento dei fatti”. Per i magistrati il “fatto non sussiste”: “Non è stato affatto dimostrato – si legge – che il Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo)”; al contrario, egli era “vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘Cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991”. Cade l’accusa di minaccia a corpo politico dello stato, e con essa, prosegue Mannino, “si ribalta il romanzetto raccontato da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia sin dal 1991. Lo stato italiano non è sceso a patti ma ha sconfitto Cosa nostra grazie all’azione mirabile di magistrati del calibro di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rocco Chinnici”.

 

Secondo la Corte d’appello, l’ipotesi del coinvolgimento di Mannino sarebbe “illogica”: “Se davvero, come da contestazione – si legge nelle motivazioni – l’imputato fosse stato così vicino a ‘Cosa nostra’ da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé ‘salvifico’, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino”. Ecco, il ruolo del Ros.

 

Se Mannino incassa una seconda assoluzione, gli ex vertici del raggruppamento speciale Mario Mori e Antonio Subranni sono stati condannati a dodici anni di reclusione nel processo principale. “Anche per loro – replica l’ex ministro – i giudici di secondo grado dovranno comparare le rispettive acquisizioni con gli elementi emersi in questa sentenza approfondita e rigorosa”. Tuttavia la tesi di una “trattativa” condotta dalle forze di polizia in assenza di un avallo politico resta poco credibile. “Ribadisco la mia linea difensiva: non so c’è stata una trattativa, ne dubito, ma in ogni caso ne sono totalmente estraneo”. La mafia si può contrastare senza interloquire con i mafiosi? “L’attività condotta all’epoca da Mori, che si avvalse della collaborazione di Ciancimino, fu un’azione di polizia giudiziaria a tutto tondo. Se penso ai romanzi di Leonardo Sciascia ambientati in Sicilia, il maresciallo dei carabinieri ha sempre un canale di comunicazione con Cosa nostra”. La lotta al crimine organizzato funziona così in ogni parte del mondo. Solo in Italia si imbastiscono i processi. “Dopo ventotto anni trascorsi da imputato, ritengo di conoscere come pochi altri le conseguenze di una giustizia fuori controllo. Mi restano tuttora incomprensibili alcuni elementi, come la fantasia resipiscente di Vincenzo Scotti che ha lasciato credere di essere stato cacciato dal Viminale per via della sua ferma opposizione a una trattativa inesistente. Non ha spiegato però perché da lì si trasferì, il giorno stesso, alla Farnesina diventando ministro degli Esteri”. I giudici d’Appello si soffermano pure sull’“inspiegabile silenzio durato troppi anni” da parte dell’ex presidente della Camera Luciano Violante che, nell’autunno del ’92, fu informato da Mori circa l’intenzione di Ciancimino di avere un colloquio. “Per me resta un rebus. Oggi mi piacerebbe sapere da lui se la volontà del Pci di ‘tagliare’ la Balena bianca, come si diceva all’epoca tra i dirigenti di Botteghe oscure, non si sia rivelata infausta. I comunisti pensavano di conquistare il potere per cinquant'anni ma l’unico vero beneficiario di quella crisi istituzionale e politica fu Silvio Berlusconi”. Nei primi anni Novanta il processo Andreotti, da una parte, e l’inchiesta Mani pulite, dall’altra, hanno l’effetto di decapitare due partiti, Dc e Psi. “L’arco giudiziario Milano-Palermo ha fatto fuori un’intera classe dirigente risparmiando soltanto i comunisti. Sono i casi della storia dietro ai quali si cela poca casualità e molta causalità”. Ricorre il ventennale della scomparsa di Bettino Craxi. “Nella Dc ero tra quelli che con il leader socialista volevano stabilire un rapporto strategico e non di pura necessità. Con lui siamo rimasti amici anche dopo l’esilio, e ho assistito al film ‘Hammamet’ con le lacrime agli occhi”.

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