I testi giudiziari interminabili e complessi rischiano di alterare il senso complessivo delle sentenze, e ciò non giova alla successiva discussione pubblica sugli esiti processuali (foto LaPresse)

Il peso della giustizia ingiusta

Giovanni Fiandaca

Le sentenze lunghe migliaia di pagine non aiutano la ricerca della verità. Un appello contro il gigantismo scrittorio-giudiziario e la deriva mafiologica. Il caso Mannino

È il caso di affrontare un tema che, forse, non ha finora ricevuto sufficiente attenzione. Alludo al fenomeno dei provvedimenti giudiziari (sentenze, ordinanze, ecc.) di enorme mole, mastodontiche, fatte di migliaia e migliaia di pagine distribuite in più volumi o tomi. Simili, più che a cicli romanzeschi, a opere enciclopediche. Di questo gigantismo scrittorio-giudiziario, di questa elefantiasi motivazionale rinveniamo esemplificazioni emblematiche, in particolare, nell’ambito dei grandi processi di criminalità politico-terroristica o di criminalità mafiosa. Ad esempio, la sentenza di condanna in primo grado sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia, emessa nel 2018 e di cui più volte si è parlato su questo giornale, constava di oltre 5.200 pagine, mentre ammonta a circa 1.150 quella recentissima che ha scagionato per la seconda volta da responsabilità penale connessa sempre alla Trattativa Calogero Mannino, che in primo grado si era fatto processare con rito abbreviato (su questa seconda assoluzione di Mannino, cfr. i due articoli di Giuseppe Sottile e Annalisa Chirico sul Foglio del 16 gennaio scorso). Ora, mille pagine non sono cinquemila, ma risultano comunque abbondanti considerata la concentrazione del giudizio sulla sola posizione dell’ex ministro democristiano. 


La sentenza di condanna in primo grado sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia constava di oltre 5.200 pagine


 

È intuibile che le sentenze mastodontiche presentano inconvenienti e sollevano problemi di varia natura. Cominciamo da una domanda ovvia: chi ha voglia, interesse, risorse intellettuali e tempo sufficiente per imbarcarsi con attenzione vigile e tensione critica costante, senza perdere mai il filo e senza stancarsi o peggio annoiarsi, nella lettura di chilometri di fatti ed episodi, di ricostruzioni di contesti, di descrizioni di fenomeni o ambienti criminali, di interpretazioni di norme e disquisizioni giuridiche di vario genere, il tutto per di più fittamente intrecciato con dichiarazioni di pentiti, deposizioni testimoniali o analisi di documenti non di rado inserite entro parentesi all’interno di lunghe frasi, a loro volta scritte in maniera non sempre perspicua e con prevalente stile burocratico? Certo, dovranno sobbarcarsi questo ingrato compito gli addetti ai lavori, tra cui alcuni studiosi accademici interessati a studiare i materiali giurisprudenziali per scrivere le cosiddette note a sentenza. Ma, come mi è capitato di constatare da giurista avvezzo ad analizzare giurisprudenza, le sentenze straripanti non sono un problema soltanto per chi deve studiarle. Lo sono, ancor prima, per il giudice che le deve scrivere, e non solo per la fatica di farlo. Il magistrato impegnato a stendere su una stessa vicenda migliaia e migliaia di pagine, infatti, si imbatte anche in una difficoltà tutt’altro che trascurabile: come fa a mantenere un rigoroso e perdurante controllo intellettuale sulla complessiva tenuta logica e sulla coerenza di argomenti e ragionamenti disseminati in tantissimi rivoli? Siccome non è facile, appunto diventa elevato il rischio di incorrere in contraddizioni, incoerenze e carenze motivazionali. Inoltre, lo studio delle sentenze mastodontiche mette in evidenza come, in non pochi casi, la quantità delle circostanze, delle dichiarazioni testimoniali, dei documenti, ecc. richiamati sia direttamente proporzionale alla mancanza o all’insufficienza di elementi probatori certi e univoci. 


L’impostazione accusatoria della procura palermitana ha finora trovato sia conferme sia smentite da parte di giudici diversi


 

Insomma, all’assenza di vere prove si cerca di sopperire con una accumulazione a valanga di dati a possibile valenza indiziante. Ma l’ammasso quantitativo non può mai equivalere a verifica processuale al di là di ogni ragionevole dubbio. Non a caso, in certi processi molto complessi (su eventi stragistici, trame eversive, collusioni politico-mafiose e simili), nei quali l’accertamento giudiziario non è riuscito a conseguire la prova della responsabilità penale di singoli e ben individuati colpevoli, si è assistito a una sorta di riconversione del processo penale in strumento di prevalente ricostruzione storiografica: con la connessa propensione a distinguere tra verità “processuale” da un lato, e verità “storica” dall’altro (questa distinzione è, ad esempio, ripetutamente esplicitata nel recente saggio collettivo “L’Italia delle stragi”, Donzelli 2019, curato dallo storico Angelo Ventrone, e contenente scritti di alcuni magistrati protagonisti delle inchieste sulle trame eversive rievocate). Ma è davvero possibile differenziare le due verità? E fino a che punto il processo può fungere da valido strumento ricostruttivo di eventi storico-politici? Si tratta di interrogativi che andrebbero adeguatamente approfonditi in sedi specialistiche.

 

Ci sono aspetti negativi delle sentenze mastodontiche che, invece, riguardano più da vicino i cittadini in genere perché si riflettono sulla comunicazione mediatica, riproponendo il problema dei rapporti tra giustizia e informazione; problema che, nel caso di processi di rilievo sociale o politico, incide altresì sul dibattito pubblico. Per esemplificare, torniamo al processo o meglio ai processi sulla Trattativa, in particolare a quello principale sfociato in primo grado nella sentenza di cinquemila pagine. Se si prescinde dagli addetti a vario titolo ai lavori, solo pochissimi patiti di mafiologia potranno essersi avventurati nella defatigante impresa di sorbirsi parola per parola un testo così voluminoso. La stragrande maggioranza dei cittadini ne avrà avuto una conoscenza superficiale e approssimativa attraverso i brevi resoconti fatti sui giornali o in televisione. Ma, per gli eventuali interessati a saperne di più, ecco che sono presto spuntati gli ennesimi libri divulgativi, preparati in fretta e furia da solerti giornalisti filomagistratuali “senza se e senza ma”, e talvolta in collaborazione compiacente con qualche magistrato protagonista delle indagini. Questi sunti libreschi, che hanno forse come unico pregio di essere redatti in un italiano più leggibile, tendono a selezionare e a ridurre i contenuti delle fluviali motivazioni giudiziarie secondo preferenze preconcette: finendo talora col contrabbandare per verità inconfutabili ipotesi ricostruttive che gli stessi giudici prospettano come possibili perché prive di prova certa. E’ evidente che così viene alterato il senso complessivo delle sentenze, e ciò ovviamente non giova alla successiva discussione pubblica sugli esiti processuali, specie quando si tratta di processi che hanno riflessi ad ampio raggio. 


All’assenza di vere prove si cerca di sopperire con una accumulazione a valanga di dati a possibile valenza indiziante


 

La tormentata vicenda giudiziaria della Trattativa appare emblematica, non ultimo, per il fatto ben noto che l’impostazione accusatoria della procura palermitana ha finora trovato sia conferme sia smentite da parte di giudici diversi. L’ipotesi dei pubblici ministeri, avallata dalla Corte d’assise di Palermo con la menzionata sentenza del 2018 (in atto pende il giudizio d’appello), è stata invece contestata in termini abbastanza decisi dalle due sopra accennate sentenze di assoluzione dell’ex ministro Mannino. E non è priva di rilievo, proprio dal punto di vista dei rapporti tra giustizia e informazione, la circostanza che la corposa motivazione del giudizio di secondo grado, depositata pochi giorni fa, sia stata ignorata da grandi giornali come Repubblica e Corriere. Dobbiamo sospettare una disattenzione pregiudiziale e voluta, considerato che specie un giornale come Repubblica si è sempre contraddistinto per una tendenziale condivisione delle tesi dell’accusa? O la cosa è spiegabile col fatto che il tema della Trattativa si considera ormai privo di interesse nazionale, essendosi in ogni caso consolidato in buona parte della gente – anche per effetto di un bombardamento mediatico fino a poco tempo fa molto insistito – il pregiudizio che un turpe patto tra la mafia e lo stato ci sia stato davvero, per cui non sarebbe più il caso di rimettere in discussione questa supposta verità? 


Arrischierei l’idea che anche una sentenza su vicende complesse potrebbe essere contenuta in un centinaio di pagine 


Comunque sia, sarebbe in teoria auspicabile uno studio rigoroso e approfondito di queste decisioni giudiziarie in conflitto, per confrontarne il rispettivo percorso logico-motivazionale. Questa messa a confronto critico risulterebbe certo più agevole, anche per chi è esperto di materiali giurisprudenziali, se ci si trovasse in presenza di sentenze dalle proporzioni ben più contenute e se i giudici estensori, sottraendosi alla tentazione (affiorante in particolare nella sentenza di condanna della Corte d’assise) di fare storiografia politica e mafiologia, concentrassero le loro risorse intellettuali soprattutto sui fatti penalmente rilevanti e sui profili probatori. Se ciò avvenisse, avremmo un modello di motivazione giudiziaria più essenziale e compatta, senza ridondanze confusive e frammentazioni dispersive. Arrischierei, a questo punto, l’idea (provocatoria?) che anche una sentenza su vicende complesse potrebbe in teoria essere contenuta in un centinaio di pagine, se si facesse con puntualità rinvio per la consultazione dell’insieme degli elementi probatori ad apposite parti allegate, ma distinte dal corpo della motivazione in senso stretto. Chi si preoccupa di additare ai magistrati, specie nei corsi di formazione destinati ai più giovani, modelli di sentenze penali idonei a consentirne la lettura non solo da parte degli esperti, ma anche di cerchie più ampie di cittadini potenzialmente interessati?

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