L'arresto di Giovanni Brusca il 20 maggio del 1996 (foto LaPresse)

Il killer caro all'antimafia

Riccardo Lo Verso

Storia di Brusca. I suoi delitti non si contano, ma ai magistrati piace. E’ un pentito buono per tutte le stagioni

Non ci sono solo gli orrori di Cosa Nostra, ma anche le acrobazie della memoria, i ricordi che si accendono all’improvviso dopo anni di silenzi, persino le bugie. I professionisti dell’antimafia erano disposti a perdonare ogni colpa a Giovanni Brusca. Anche quelle commesse da collaboratore di giustizia. Mica si è comportato come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Brusca è diverso dai padrini corleonesi marciti in galera senza rinnegare il proprio passato fino alla fine dei loro giorni. Brusca si è pentito e avrebbe meritato, così sostenevano alla Direzione nazionale antimafia, un nuovo premio – gli arresti domiciliari – per il suo “contributo eccezionale alle indagini”.

 

La spaccatura è stata netta. Da una parte i favorevoli alla detenzione in casa, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e l’ex magistrato, oggi senatore, Pietro Grasso. Dall’altra i contrari, i parenti delle vittime, come Maria Falcone, sorella del giudice assassinato, e Tina Montinaro, vedova di Antonio, il capo scorta del giudice, morto assieme a lui nel ’92. Il tema è divisivo. Non potrebbe essere altrimenti, quando si è di fronte a uno dei carnefici più spietati di Cosa Nostra. Il dolore è eterno, ma nella guerra alla mafia si è deciso, ormai decenni fa, di usare l’arma dei pentiti anche a costo di dovere concedere dei benefici a chi non li merita.

 

Ciò che stride nel parere favorevole espresso dalla Dna alla scarcerazione di Brusca è l’assenza di critiche al suo percorso collaborativo che resta pieno di ombre. Alcuni magistrati le hanno fatto notare, le ombre, mentre altri ci sono passati sopra. Troppo importante la sua collaborazione per sacrificarla sull’altare dei dubbi. Dubbi che però restano lì, nelle trascrizioni dei verbali e delle udienze, nelle parole pronunciate dallo stesso boia di San Giuseppe Jato. Brusca, a cui la Cassazione alla fine ha respinto la richiesta di potere finire di scontare la pena ai domiciliari, ha poco di cui lamentarsi. Lo Stato con lui è stato magnanimo alzando al massimo l’asticella della premialità. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che finirà di scontare nel 2021 (a conti fatti gli anni di detenzione saranno venticinque) e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa.


A un certo punto si è deciso di usare l’arma dei pentiti anche a costo di dovere concedere dei benefici a chi non li meritava


 

Come avvenne in occasione del Capodanno di tre anni fa. Brusca riabbracciò la sua famiglia, mentre un’altra famiglia, quella del piccolo Di Matteo, piangeva per il più macabro degli anniversari. L’11 gennaio 1996 Giuseppe veniva strangolato dopo 779 giorni di prigionia e il suo corpo sciolto nell’acido. Avrebbe compiuto quindici anni otto giorni dopo. Brusca fece in tempo, quell’anno, a rientrare a Rebibbia per partecipare in videoconferenza a un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia dove i pubblici ministeri di Palermo lo attendevano a braccia aperte.

 

Secondo i giudici, per ultimi quelli della Cassazione, che gli hanno più volte negato la richiesta dei domiciliari, Brusca non ha mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Eppure è proprio la sua storia processuale che mostra evidenti crepe. Il ravvedimento morale in quanto intimo resta imperscrutabile. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Ieri come oggi. Nel processo al generale Mario Mori, nel quale l’ufficiale fu assolto per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, ad esempio Brusca fu ondivago sulla storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avanzarono allo Stato per fermare le bombe e che anni dopo sarebbe diventato il cuore del processo sulla trattativa fra lo Stato e la mafia. All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea. Era il 2011 e il legale di Mori, l’avvocato Basilio Milio, gli fece notare l’incongruenza. Pochi mesi dopo Brusca scrisse una lettera al Tribunale. Chiese di essere riconvocato perché si era ricordato di alcune cose importanti. Ad esempio il fatto di avere appreso dell’esistenza del papello a cavallo delle stragi, quindi dopo Capaci e prima di via D’Amelio. Che, guarda caso, è il canovaccio della pubblica accusa che vede nella Trattativa il motivo dell’accelerazione della strage in cui furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca.


I pentiti sono strumenti di scena necessari per quei pm che tendono a trasformare i processi in spettacoli buoni per i talk-show

 

 

Per rafforzare la nuova collocazione temporale il collaboratore citava alcune riunioni di mafia. Si perse nel tentativo di rendersi credibile, tanto che Mario Fontana, il presidente del Tribunale che assolse Mario Mori in primo grado (la sentenza è ormai definitiva), a un certo punto perse la pazienza. “Ora glielo contesto io”, disse senza troppi giri di parole il magistrato. Che cristallizzò le giravolte di Brusca nelle motivazioni della sentenza. “E’ perfino superfluo osservare che nella ricostruzione di Brusca emergono molte oscillazioni – scrisse – che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio (soprattutto temporali) da lui fornite”. Non lo aveva convinto affatto la giustificazione di Brusca del tanto tempo trascorso che metteva a dura prova la sua memoria e richiedeva una faticosa “rimeditazione della sequenza dei fatti”. Anzi non si poteva escludere una “possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”. Insomma, Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava.

La richiesta di perdono tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato, e le contraddizioni dei suoi racconti

 

 

Milio è l’avvocato di Mori, l’ufficiale delle nefandezze di Stato, il carabiniere che trattò con i sanguinari corleonesi. Fontana è il magistrato eretico che ha dissentito dall’impostazione accusatoria divenuta dominante su giornali e libri, nelle fiction e nei dibattiti televisivi. Sono voci critiche che si disperdono quando a fare da contraltare c’è un movimento antimafia, il quale trova linfa nella convinzione che ha ragione chi fa più chiasso. Per di più chi si nutre della fideistica accettazione del postulato della colpevolezza ha potuto innalzare il vessillo della vittoria, e cioè le durissime condanne al processo di primo grado sulla Trattativa. Una sentenza ritenuta da sola sufficiente per silenziare ogni tentativo di dibattito sul processo. Un processo, al termine del quale, a farla franca è stato proprio il solo Brusca. Reato prescritto, come chiesto dai pubblici ministeri, grazie al riconoscimento della speciale attenuante riservata ai collaboratori di giustizia. La Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, che aveva a disposizione anche i verbali di Brusca resi al processo in cui Mori è stato assolto, lo ha giudicato “complessivamente” attendibile pur sottolineando i passaggi critici di alcune sue ricostruzioni.

 

Brusca è diventato fondamentale per la pubblica accusa, specie dopo che sono state smascherate le panzane di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Ciancimino jr al processo sulla Trattativa è stato condannato per calunnia. E’ rimasto Brusca, però, a reggere il peso del ruolo di testimone chiave. Destini incrociati, i loro. Di Trattativa e papello si era già parlato in un’inchiesta aperta nel 2000 e archiviata nel 2004. Nel 2008 ecco irrompere sulla scena Ciancimino, “la quasi icona antimafia”, come lo definì l’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia che coordinava il pool dei pm della Trattativa. Sulle dichiarazioni di Ciancimino si innestarono quelle di Brusca “da una certa data in poi”. Il boss di San Giuseppe Jato, infatti, a distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione iniziò a raccontare degli “indicibili accordi”, facendo i nomi di Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Per anni, così si giustificò, era rimasto in silenzio per paura. La motivazione della sentenza sulla Trattativa è diventata il Verbo con cui spazzare via le valutazione negativa di altri giudici sul conto di Brusca.

 

Non solo Fontana, ma pure Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione confermata anche in appello), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”. Parole pesantissime che, a ben vedere, non si discostano da quelle pronunciate dallo stesso Brusca ancora una volta sul papello: “C’è stata tutta una serie di contestazioni che mi venivano fatte dagli organi competenti, di magistrati in particolar modo, per collocare meglio il tempo e sollecitare i miei ricordi. E allora, a forza di ricordare e collocare i punti, io ho potuto collocare la storia del papello e quant’altro”.

 

Queste ultime frasi sono state pronunciate poche settimane fa, al processo d’appello sulla Trattativa, e confermano che le criticità sono una costante nel percorso dichiarativo di Brusca. È inevitabile che si torni a discutere del ruolo di Mannino. Nell’ex ministro democristiano, infatti, l’impianto accusatorio individua colui che avviò la Trattativa temendo di essere ammazzato. Ed è parlando di Mannino che si registra la più recente delle acrobazie di Brusca. Totò Riina, così ha raccontato in aula lo scorso settembre, voleva ammazzare il politico “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”.

 

Il pentito lo aveva saputo da Totò ‘u curtu, ma “era una situazione un po’ comune in Cosa Nostra di questa circostanza, non era solo mia la conoscenza”. Il capo dei capi si fece in quattro per risolvere la faccenda. Brusca ne descrive i rabbiosi tentativi: “Perseguì tutte le strade immaginabili e possibili, dalle perizie, agganciare la Corte a cominciare dal presidente, i giudici a latere e i giudici popolari. Tentò pure di agganciare i pubblici ministeri per avere una requisitoria diversa. Si tentarono tutte le vie immaginabili e possibili”. Per arrivare a Mannino si rivolsero pure a Matteo Messina Denaro. Niente da fare: “L’ultima fase andò negativa”, ha detto Brusca. Il processo non fu aggiustato.

 

Il primo a sorprendersi per il racconto del pentito è stato il presidente della Corte di assise di appello, Angelo Pellino. Ed ecco i dubbi che ha rivolto a Brusca: “In particolare nel processo Mannino, quando le è stato chiesto se fosse a conoscenza di interventi specifici, di iniziative, di favori fatti dall’onorevole Mannino a vantaggio di Cosa Nostra, lei ha detto che non le risultava nulla di specifico… del nome di Mannino assolutamente non c’è traccia in questo racconto”. Magari è uno dei tanti ricordi rimasti sepolti nella memoria e balzato fuori all’improvviso nel chiuso di una cella. Il botta e risposta in aula merita di essere trascritto in maniera letterale. “Lei è certo che di questo presunto tentativo di interessare Mannino – l’interrogativo del giudice è più che legittimo – per aggiustare il processo per l’omicidio Basile lei ha saputo all’epoca dei fatti o è frutto di reminiscenze, di conoscenze negli anni successivi?”.

Brusca diventa fondamentale per la pubblica accusa. Resta da solo a reggere il ruolo di testimone chiave della Trattativa

 

“E’ un frutto di ricordo vecchio, non successivamente suggestionato. Assolutamente no. Non mi sarei mai permesso, non l’ho mai fatto nella mia vita, non lo farò mai”, ha tagliato corto Brusca, auto-assolvendosi per la dimenticanza. E’ stato un peccatuccio, “un mio difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”. Non era importante ricordare di avere saputo che Riina voleva ammazzare Mannino. Non era importante ricordare che un ministro della Repubblica e fosse stato incaricato dalla mafia di aggiustare un processo. Non era importante che, non essendo riuscito a sistemare la faccenda giudiziaria, Mannino fosse stato condannato a morte da Riina. Strano metro di valutazione quello di Brusca. Che però, fosse dipeso dai professionisti dell’antimafia, a quest’ora si troverebbe a casa, a scontare gli ultimi due anni di pena ai domiciliari. Perdonato nonostante il sangue versato. Perdonato nonostante le ombre che in molti continuano a scegliere di non vedere. E chissà magari lo avremmo ammirato in tv. I pentiti sanno anche essere strumenti di scena necessari per quei pm che tendono a trasformare i processi in spettacoli buoni per i talk-show.

 

Tutto rinviato perché Brusca finirà di scontare in carcere la sua pena. Nel frattempo potrà sempre sperare in uno dei tanti permessi premio che ha ottenuto negli anni dal Tribunale di Sorveglianza di Roma per la sua buona condotta carceraria. Per anni ogni due mesi circa, i numeri sono ufficiosi vista la riservatezza della faccenda, si è potuto allontanare dal carcere. Solo per un periodo ha subito uno stop forzato, quando i carabinieri dissero che Brusca avrebbe approfittato delle finestre di libertà per gestire alcuni beni. Ne scaturì un processo che si è chiuso con l’assoluzione di Brusca dall’accusa derubricata da estorsione in tentativo di violenza privata. In fase di indagini preliminari era stata invece dichiarata prescritta l’ipotesi che avesse intestato fittiziamente dei beni a dei prestanome. Di sicuro qualcosa nei controlli sul “detenuto Brusca in permesso premio” non funzionò a dovere se è vero, come è vero, che fu poi scovata una lettera dai toni minacciosi. Brusca, affrontando il tema di un immobile con un suo favoreggiatore, si diceva “disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali”. Anche allora si diceva che Brusca si era ormai ravveduto.