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Ucciardone dreaming

Giuseppe Sottile

Trasformare l’Italia in un grande carcere: è il sogno di grillini e manettari. S’avanza il “diritto della paura”

Diciamolo. Legge dopo legge, comma dopo comma, decreto dopo decreto, l’Italia rischia di diventare un immenso Ucciardone. Stanno tutti lì a invocare il carcere duro e l’ergastolo ostativo, ad apparecchiare manette per corrotti e corruttori, a inasprire le pene per ogni reato contro la Pubblica amministrazione, a cancellare ogni clemenza per i detenuti che si siano macchiati di peculato o di concussione, di abuso di ufficio o di malversazione. Tutti in galera dovranno marcire. Basta con gli arresti domiciliari o con l’affidamento ai servizi sociali; basta con le licenze concesse per un’ultima visita al padre che muore o per un ultimo bacio alla mamma che non vedrai mai più; basta con la riduzione delle pene per buona condotta. E basta soprattutto con i permessi premio: i benefici carcerari possono essere concessi solo a chi si pente. A Giovanni Brusca, per esempio, il sanguinario corleonese che ha premuto il telecomando per massacrare, con l’attentato di Capaci, il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i ragazzi della scorta; che ha sciolto nell’acido un ragazzino di tredici anni; che non ricorda più nemmeno quanti omicidi ha commesso durante la scalata di Totò Riina alla cupola palermitana di Michele Greco, detto “il papa” e di Stefano Bontade, detto “il Principino”.

 

Cento, centoventi, centocinquanta: quanti poveri cristi ha steso al suolo il killer Giovanni Brusca? A chi amministra la legge queste cifre e questi dettagli non importano poi tanto. Anzi, più omicidi confessa e più il pentimento del malacarne appare genuino. A loro, ai giudici e ai pubblici ministeri che gli hanno concesso ottanta permessi premio – non uno, ma ottanta – non importa sapere nemmeno se le rivelazioni di Brusca siano state autentiche, fasulle o, addirittura, suggerite da un magistrato più che mai deciso ad affermare la propria linea d’accusa e ad aprirsi i varchi per una inarrestabile carriera. E’ la legge, bellezza! Così replicano giureconsulti e avvocati a quanti provano ancora scandalo per il trattamento di velluto riservato dagli organi dello Stato nei confronti del pentito Brusca.

 


Stanno tutti lì a invocare il carcere duro: basta con le licenze, basta con la riduzione delle pene. Basta con i permessi premio. Il trattamento di velluto degli organi dello Stato nei confronti del pentito Brusca. Il caso di Totò Cuffaro. Il giustizialismo a 5 stelle


 

La legge che prevede per lo stesso reato due regimi carcerari distinti – da un lato gli ostinati che non si pentono; dall’altro quelli che comunque dichiarano di volere collaborare con la giustizia – è concentrata nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Fu approvata e codificata in un momento di emergenza: quando c’era da contrastare l’arroganza con la quale la mafia seminava sangue e terrore; quando c’era da scoraggiare la deriva stragista delle forze eversive e c’erano, come sempre, da punire in maniera esemplare reati ignobili e infamanti contro la persona, a cominciare dai bambini. Nasce con l’articolo 4 bis l’ergastolo ostativo: fine pena mai. E si collega pure a quell’articolo il carcere duro per i mafiosi, dove sono stati murati vivi boss dal curriculum scellerato come Totò Riina o Bernardo Provenzano, come Pippo Calò o Leoluca Bagarella. Poi però, in un crescendo inarrestabile e non sempre dettato dalla stessa emergenza, il 4 bis è stato esteso ad altri reati e oggi basta un semplice odore di mafia perché al condannato vengano negati tutti i benefici previsti per i detenuti normali. Ricordate Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione siciliana? Era imputato di favoreggiamento e il reato stava per cadere in prescrizione. Ma i giudici d’appello, ricordando che Totò “vasa vasa” aveva messo in guardia dalle intercettazioni un medico vicino a Cosa Nostra, gli combinarono l’aggravante mafiosa. E per Cuffaro fu la fine: si raddoppiarono i tempi della prescrizione, e al condannato non fu concessa nessuna alternativa al carcere: gli negarono persino il permesso di partecipare ai funerali del padre, in quel di Raffadali, provincia di Agrigento. E’ la legge, bellezza! Così fu detto a coloro che si indignarono per la mancata pietà; a quanti, in quei giorni, si affannavano a citare San Tommaso d’Aquino: “La giustizia senza castigo è un’utopia, il castigo senza misericordia è crudeltà”.

 

Ma la storia di Cuffaro, con quel suo traccheggio sulle tariffe della sanità, maleodorava di mafia. E di fronte alla mafia non c’è misericordia che tenga. Solo che il rigore previsto dall’articolo 4 bis, quest’anno è stato applicato, con furore sanguigno e demagogico, anche a reati che con la mafia non hanno nulla a che vedere. E’ diventato, per esempio, il cardine del decreto con il quale ha debuttato, sul piano legislativo, il giustizialismo dei Cinque stelle e in particolare del ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede: lo “Spazzacorrotti”. Ricordate Roberto Formigoni, l’ex presidente della Lombardia finito pure lui sotto processo per avere maneggiato e intascato sottobanco soldi da alcuni spregiudicati manager della sanità privata? Condannato a 5 anni e dieci mesi per corruzione è finito al carcere di Bollate con i rigori del 4 bis. Senza il decreto tenacemente voluto da Bonafede avrebbe potuto chiedere i domiciliari o l’assegnazione ai servizi sociali. Invece no: manette e galera. Alla stregua di Cuffaro. Al pari di un qualunque picciotto di mafia. Il Celeste – così veniva chiamato negli anni dello splendore l’ex presidente della Lombardia – avrebbe potuto accedere ai benefici solo con il pentimento: bastava che si presentasse al giudice di sorveglianza, che dichiarasse la propria volontà di collaborare e stendesse il primo verbale con le rivelazioni utili per incriminare altri delinquenti, complici o innocenti: a sua scelta.

 

La settimana scorsa, quando la Corte europea per i diritti dell’uomo ha invitato l’Italia a riconsiderare l’articolo 4 bis, il fronte giustizialista, con in testa i più sguaiati professionisti dell’antimafia, ha gridato allo scandalo e ha paventato il pericolo che da lì a qualche giorno sarebbero stati scarcerati tutti i boss condannati all’ergastolo ostativo, quello del fine pena mai. Una bugia. I giudici di Strasburgo invece si sono limitati a sollevare dubbi e perplessità: sarà poi la giurisprudenza italiana e in particolare la Corte costituzionale a stabilire se quell’articolo dell’ordinamento penitenziario dovrà sopravvivere o meno; se la distinzione tra un carcere morbido per i pentiti e un carcere più duro per gli ostinati risponde a un principio di uguaglianza; se il diritto alla redenzione e al reinserimento nella società, previsto dalla Costituzione, spetta solo a chi collabora con i giudici e non a tutti gli altri.

 

Ma Bonafede – impegnato com’è a costruire altre celle e altre sbarre: arriverà il carcere anche per gli evasori fiscali – non vuole sentire ragioni. Di fatto ha trasferito le norme create negli ultimi trent’anni per fronteggiare l’emergenza mafiosa in un decreto che mira a colpire non solo i corrotti ma chiunque – maneggiando soldi dello Stato, di una regione o di un comune – contravvenga al principio di onestà-tà-tà, tanto caro ai grillini, ai manettari, ai forcaioli di ogni genere e grado. E’ la deriva inquisitoria: in giro non ci sono innocenti ma colpevoli ancora da scoprire. E’ la cultura del sospetto. Ci sono reati – e quelli contro la Pubblica amministrazione rientrano tra questi – per i quali le garanzie sono state di colpo ristrette se non annullate. Reati, per i quali non basta più una condanna. Ne servono due: quella che assegna gli anni di carcere e quella che infligge la qualità della detenzione.

 


L’interdittiva antimafia, un provvedimento d’emergenza che crea quello che Franco Frattini chiama il “diritto della paura”. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha invitato l’Italia a riconsiderare l’articolo 4 bis. Uno scandalo, per il fronte giustizialista


 

E’ il “diritto della paura”: la definizione è tratta da una sentenza scritta da Franco Frattini, presidente di sezione del Consiglio di Stato, in risposta a un ricorso presentato da un’impresa colpita da interdittiva antimafia; cioè da una misura emergenziale che la legge ha affidato non alla magistratura ma ai prefetti; e che come tutti i provvedimenti amministrativi può essere impugnata davanti al Tar e, in secondo grado, davanti al Consiglio di Stato.

 

L’interdittiva è stata inserita nel codice antimafia del 2011 come strumento di prevenzione. E, trattandosi di prevenzione, il metro del giudizio non è, come nel diritto penale, la prova; ma il pericolo che qualcosa di brutto possa accadere. Il prefetto non esamina, come i tribunali, testimonianze, documenti e fatti concreti. Si limita a valutare la probabilità che un’azienda possa essere condizionata, nelle proprie scelte, da eventuali infiltrazioni mafiose. Siamo, come si vede, nella vaghezza dei timori, delle preoccupazioni, del sospetto. A quale criterio deve ispirarsi un prefetto prima di colpire a morte un’impresa? Il codice antimafia gli fornisce un principio di giustizia surreale: il rischio di un inquinamento mafioso gli deve apparire, così prescrive la norma, “più probabile che non”. E qui si inserisce l’annotazione di Frattini. Il pericolo di una infiltrazione – scrive nella sentenza pubblicata un mese fa – “non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della Pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, a un diritto della paura; ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali”. Un appello alla concretezza; o, quantomeno, a una maggiore solidità del sospetto.

 

L’interdittiva scatta nel momento stesso in cui il prefetto notifica la sua decisione; e non prevede alcuna attenuante: la contiguità di un’impresa con la mafia – specifica la legge – può essere compiacente ma anche “soggiacente”: l’azienda cioè può essere complice del boss ma anche vittima. Non solo. La collusione può anche estendersi “per contagio”. Tu, imprenditore del Nord pulito e immacolato, vieni in Sicilia per realizzare un’opera pubblica e ti associ con un’impresa locale, magari credendo che bisogna sempre valorizzare le energie espresse dal territorio. Ma poi devi stare molto attento: perché se un’eventuale interdittiva finirà per colpire il tuo socio, le conseguenze le pagherai irrimediabilmente anche tu.

 

E non sono conseguenze di poco conto. Ti decade automaticamente ogni appalto, anche quello che tu avevi vinto qualche anno prima in Piemonte o in Emilia o in Toscana; e la Pubblica amministrazione è autorizzata a revocarti tutti i pagamenti: anche quelli in corso, anche quelli dovuti e certificati. Per una impresa, grande o piccola, è la rovina. E’ la morte civile. Meglio il carcere, meglio l’Ucciardone. Davanti al quale i grillini dell’onestà-tà-tà sembrano provare come gli innamorati un irresistibile, soave delirio.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.