La corte europea diritti umani (foto LaPresse)

Quella sull'ergastolo ostativo è una sentenza giusta

Giovanni Fiandaca

L’Europa fa bene a ricordare che ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo

Il tema dell’ergastolo cosiddetto ostativo pone sul tappeto questioni complesse e controverse, rispetto alle quali le opinioni si contrappongono non solo nell’orizzonte politico e nella pubblica opinione, ma persino all’interno della stessa magistratura. E’ giustificato o no che i condannati all’ergastolo per gravi reati di criminalità organizzata (politica o terroristica) possano accedere ai benefici penitenziari, e infine alla liberazione condizionale, soltanto a condizione che collaborino con la giustizia? Un interrogativo come questo, oltre a riguardare l’interpretazione delle norme costituzionali e convenzionali a tutela dei diritti umani, coinvolge la grande questione del senso e degli scopi della pena nella realtà contemporanea. Una questione a sua volta assai complessa e non poco divisiva, che nel dibattito corrente viene di solito lambita in termini superficiali e alquanto emotivi, ma che per fortuna riceve ben altro approfondimento da parte dei giuristi e dei giudici più illuminati. Sicché, oggi forse ancor più di ieri si avverte l’esigenza di rendere accessibili e comprensibili alla gente comune i discorsi sulla pena sviluppati dalla dottrina e dalla giurisprudenza più evolute.

 

 

Invero, per contestare la legittimità dell’ergastolo ostativo si può fare a meno di iniziare col citare la ormai nota sentenza della Corte di Strasburgo sul caso del capocosca Francesco Viola (resa lo scorso 13 giugno e divenuta definitiva l’8 ottobre in seguito alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso del governo italiano da parte della Grande camera), sulla quale comunque tornerò. Piuttosto, basterebbe prendere le mosse dalla Costituzione italiana, il riferimento ai cui princìpi – se letti senza preconcette limitazioni o eccessive timidezze – potrebbe risultare già sufficiente allo scopo. A cominciare dal principio del finalismo rieducativo della pena e dal connesso divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (entrambi sanciti dall’art. 27, comma 3), che insieme estendono al settore penale quella duplice istanza personalistica e solidaristica che più in generale connota una Costituzione come la nostra. Da qui, un duplice messaggio rivolto agli stessi cittadini. Primo: anche il delinquente (a prescindere dal tipo di reato commesso e dal livello di pericolosità) è titolare di una dignità umana inalienabile, che va il più possibile protetta pure durante l’esecuzione della pena. Secondo: nessun uomo è perduto per sempre, e quindi anche ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo. La Costituzione, dunque, rispecchia una visione antropologica non pessimistica, ma aperta per ogni essere umano alla speranza di possibili miglioramenti futuri.

 

 

Ora, sviluppando queste premesse con coerenza e rigore, si può giungere al punto di considerare poco compatibile con la Costituzione non solo l’ergastolo ostativo, ma più radicalmente l’ergastolo in ogni sua forma. Una conclusione, questa, tutt’altro che assurda o bizzarra specie se si considera che la pena perpetua è stata abolita in non pochi ordinamenti contemporanei, e le relative società mostrano ciononostante di continuare a ben sopravvivere. Se così è, c’è allora da chiedersi come abbia fatto la nostra Corte costituzionale a salvare finora l’ergastolo dalle eccezioni di costituzionalità più volte sollevate, e ciò a dispetto sia del suo sicuro contrasto col principio di rieducazione (la quale va infatti intesa come acquisizione della capacità di rispettare le leggi tornando a vivere nella realtà esterna, e non già come mero ravvedimento interiore nel chiuso di un carcere), sia della sua plausibile qualificazione in termini di trattamento contrario al senso di umanità (una pena senza fine, privando di ogni speranza la prospettiva esistenziale del condannato e rinnegando la possibilità di una sua risocializzazione, può infatti – alla stregua dell’evoluzione della sensibilità collettiva – essere percepita come offensiva della dignità umana). In estrema sintesi, questo salvataggio è stato operato sulla base di argomenti non irresistibili, che possiamo riassumere in forma semplificata così. Per un verso, la presa d’atto della progressiva erosione del carattere perpetuo dell’ergastolo per effetto della sua inclusione legislativa prima nell’area di applicazione della liberazione condizionale (sin dal 1962), e successivamente dei vari benefici previsti dalle leggi di riforma dell’ordinamento penitenziario (lavoro all’esterno, permessi-premio, semilibertà) e concedibili sulla base dei progressi compiuti dal condannato nell’ambito del percorso rieducativo intrapreso durante la detenzione. 

 

 

Per altro verso, facendo leva sulla tradizionale concezione polifunzionale della pena, che valorizza la finalità rieducativa senza assegnarle un ruolo preminente, ma considerando scopi altrettanto importanti della punizione la difesa della società dalla delinquenza e altresì la repressione dei reati in chiave retributiva. Solo che l’evoluzione più recente della giurisprudenza costituzionale tende in verità a superare la concezione suddetta, riconoscendo alla rieducazione un rango decisamente prioritario come si desume, da ultimo, dalla affermazione del “principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (emblematica in questo senso la sent. n. 149/2018).

 

Passiamo, a questo punto, dal problema generale dell’ergastolo in sé a quella forma più specifica di ergastolo definito “ostativo”, previsto nel 1992 dopo l’assassinio di Giovanni Falcone per i mafiosi e i terroristi (ma poi irragionevolmente esteso ad autori di reati disomogenei di altra natura!) e la cui particolarità – come già detto – consiste in questo: la sua perpetuità non si interrompe (come nel caso dell’ergastolo comune) grazie ai soli progressi compiuti dal condannato sulla strada del ravvedimento, ma necessita di un presupposto ulteriore costituito appunto dalla collaborazione giudiziaria. Perché? Ciò si spiega con la preoccupazione emergenziale, successiva alla strage di Capaci, di contrastare la contingente escalation della criminalità mafiosa con strumenti repressivi drastici e il più possibile funzionali alla prevenzione generale e alla difesa sociale. Ecco che, proprio allo scopo ultimo di scompaginare le organizzazioni mafiose, il legislatore ha preteso che i mafiosi ergastolani per vedersi aprire le porte del carcere non possono limitarsi a una dissociazione psicologica dalla mafia, ma devono altresì collaborare con lo Stato rendendo dichiarazioni utili alla repressione giudiziaria delle mafie. Così, l’ergastolano viene sottoposto a una pressione psicologica finalizzata allo smantellamento delle associazioni criminali: egli si trova cioè di fronte all’alternativa di rimanere a vita in carcere serbando il silenzio, o di potere in prospettiva riconquistare la libertà denunciando i reati di altri mafiosi. E’ legittimo questo meccanismo di ricatto psicologico? I magistrati antimafia ne rivendicano con forza la legittimità, insieme a una parte significativa delle attuali forze di governo, continuando a elevare a obiettivo prioritario l’efficacia della lotta contro il fenomeno mafioso. In aggiunta, le vittime di mafia avvertono come ingiusto, sul piano di una giustizia retributiva, che un mafioso possa sottrarsi all’ergastolo senza scampo pur rifiutando la collaborazione giudiziaria.

 

Sennonché, la lotta contro le mafie non può essere assolutizzata come interesse supremo, addirittura sino al punto di bollare come teoria astratta o preoccupazione di “anime belle” il rispetto di princìpi e diritti che il costituzionalismo nazionale ed europeo oggi impone di tutelare in misura maggiore che in passato. Quanto poi ai sentimenti delle vittime, non sarà certo l’estremo rigore di una pena congegnata per favorire la collaborazione o declinata in chiave fortemente retributiva a sanarne davvero i traumi e le ferite. Gli studi di psicologia della vittima attestano che essa ha bisogno di ben altro per elaborare il lutto delle ingiustizie sofferte.

 

A ben vedere, l’ergastolo ostativo va incontro a più obiezioni per le seguenti ragioni. Esso, ancor più dell’ergastolo comune, contrasta col principio rieducativo: la indisponibilità a collaborare con la giustizia non è infatti un indicatore certo e univoco di mancato ravvedimento; il mafioso può rifiutare di collaborare per il timore di esporre se stesso o propri famigliari al pericolo di ritorsioni o per la indisponibilità morale a scambiare la propria libertà con quella di altri. Ma vìola, altresì, il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) proprio perché la scelta tra collaborare e non collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi. Ancora, si profila un contrasto col diritto di difesa sotto forma di diritto al silenzio. E, infine, si può contestare la compatibilità col principio costituzionale di umanità della pena (per approfondimenti cfr. il recente e importante volume collettivo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, 2019). Dal canto suo, la Corte di Strasburgo ha bocciato l’ergastolo ostativo in base alla prevalente motivazione che esso contrasta con l’art. 3 della Convenzione europea (divieto di trattamenti inumani e degradanti), dal momento che “limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena”. Una conclusione condivisibile, questa, che non potrà non incidere sulla presa di posizione della nostra Corte costituzionale nel caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro attesa il prossimo 22 ottobre.