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Le intercettazioni intermittenti tra Scarantino e i pm che indagavano su Via D'Amelio

Ermes Antonucci

Gli stop alle registrazioni dei colloqui tra i giudici e il presunto pentito chiave di Cosa Nostra non sembrano interessare molto agli organi di informazione, che preferiscono adeguarsi al copione complottista della “trattativa”

Roma. “Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Vincenzo Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati”. A fare la clamorosa rivelazione è stato l’ispettore Giampiero Valenti, interrogato come teste a Caltanissetta nel processo sul depistaggio della strage di Via D’Amelio, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Il processo vede come imputati i poliziotti Mario Bò, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di avere depistato le indagini imbeccando diversi falsi pentiti, tra cui Scarantino, portando alla condanna all’ergastolo di sette innocenti, poi annullata.

I magistrati a cui si riferisce Valenti sono quelli che nel 1992 prestavano servizio a Caltanissetta e si occuparono delle indagini sulla strage di Via D’Amelio raccogliendo le finte “rivelazioni” di Scarantino: Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo e l’allora capo della procura Giovanni Tinebra (poi deceduto). Palma e Petralia sono ora indagati a Messina con l’accusa di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra, proprio in relazione alle imbeccate che sarebbero state date ai falsi pentiti per dare vita a ciò che 25 anni dopo è stata definita dalla Cassazione “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.

 

Di Matteo, poi divenuto simbolo antimafia (grazie al processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia) e recentemente consigliere del Csm, non è indagato, ma lo scorso marzo è stata proprio l’ex moglie di Scarantino, Rosalia Basile, a rivelare nel processo in corso a Caltanissetta che l’ex marito aveva stretti contatti con i pm, incluso Di Matteo: “Ho trovato a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm, all’epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono”. “Qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare perché una volta mi aveva telefonato e un’altra mi aveva lasciato otto messaggi in segreteria telefonica”, rispose Di Matteo, cercando di spiegare i contatti con il falso pentito, ma non i motivi che lo spinsero, insieme ai colleghi dell’epoca, a considerare un picciotto semi-analfabeta e di bassissimo rango mafioso (quale era Scarantino) come un personaggio chiave della strage organizzata da Cosa Nostra contro Borsellino (a differenza, ad esempio, di Ilda Boccassini che, a quel tempo distaccata a Caltanissetta, si accorse subito dell’inattendibilità del falso pentito, anche se poi fu ignorata dai colleghi). Di Matteo ritenne attendibili le rivelazioni di Scarantino persino quando quest’ultimo nel 1998 decise di ritrattare denunciando le pressioni dei poliziotti. In una requisitoria, il pm antimafia affermò infatti che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”, sostenendo che il passo indietro del falso pentito fosse dovuto alla mafia.

La rivelazione di Valenti sulle intercettazioni interrotte tra Scarantino e i pm aggiunge ora un nuovo tassello al mistero del depistaggio, rompendo per la prima volta il muro di omertà che circonda la vicenda. “Fu il collega Di Gangi, mio superiore, a dirmi che dovevamo staccare l’apparecchio. Quando poi smise di parlare coi magistrati, mi disse di riavviare”, ha spiegato Valenti, che tra il 1994 e il 1995 svolse attività di protezione della famiglia Scarantino durante il periodo di detenzione domiciliare del falso pentito. “Quando finì l’attività di intercettazione ci chiesero di firmare dei brogliacci. Riconosco la mia firma, ma nego di conoscere quella che è l’attività di intercettazione. Sono stato uno stupido io, perché non avevo alcuna esperienza. Non capisco perché questo verbale non lo firmò chi gestiva l’attività e lo hanno fatto firmare all’ultima ruota del carro”, ha aggiunto Valenti in aula prima di scoppiare in lacrime.

Il verbale d’udienza sarà trasmesso ora alla procura di Messina che indaga sulle eventuali responsabilità dei magistrati che si occuparono dell’inchiesta, anche sulla base delle conversazioni tra Scarantino e i pm contenute in 19 bobine ritrovate nei mesi scorsi dai pm nisseni. Stando alle rivelazioni di Valenti, però, alcuni dialoghi chiave tra Scarantino e i magistrati potrebbero non essere mai stati ascoltati e trascritti.

La ricerca della verità sulla morte di Borsellino non sembra interessare molto agli organi di informazione, che preferiscono adeguarsi al copione complottista della “trattativa” persino in questo caso. Ne è un esempio lo speciale di Andrea Purgatori sulla strage di Via D’Amelio andato in onda mercoledì scorso in prima serata su La7. Due ore e mezza di dietrologie finalizzate a rappresentare un paese in mano alla mafia, grazie a un patto stabile tra Cosa nostra e i vertici della politica (da Andreotti a Berlusconi). A spiegarlo, intervistati, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia e persino il pataccaro Massimo Ciancimino (ritenuto inattendibile dai giudici di Palermo e condannato più volte per calunnia), cioè proprio i fautori della tesi giudiziaria della “trattativa” stato-mafia. Ampio spazio a quella che costituirebbe la prova del patto: il “papello di Totò Riina” consegnato da Ciancimino agli investigatori, cioè un documento che persino i giudici che hanno accolto la tesi della trattativa hanno concluso essere completamente falso.