Luca Palamara (foto LaPresse)

Toghe senza controlli

Giuseppe Sottile

Il caso del Csm non è un’isola, ma acqua nell’infinito oceano della malagiustizia italiana. Storie ed esempi da ricordare

I professori sono fatti così: tu gli chiedi che ne pensa della palude nella quale sprofonda giorno dopo giorno la magistratura e lui, Aristide Carabillò, maestro di giurisprudenza negli anni in cui lo stato di diritto contava qualcosa, parte inevitabilmente dal filosofo Ludwig Wittgenstein. Per spiegarti che l’isoletta dentro la quale i puri e i purissimi dell’onestà vorrebbero circoscrivere lo scandalo di Luca Palamara, l’ex membro del Csm indagato per corruzione, in realtà contiene l’infinito oceano della giustizia e della malagiustizia. Un oceano senza fondo e senza confini. Dove le storture della giustizia penale – quella dei potentissimi procuratori che con un avviso di garanzia sono in grado di paralizzare un governo o di svuotare un parlamento – vengono a galla più facilmente. Sono le storture che di più affliggono la politica e che hanno provocato tali e tanti dibattiti da appannare gli abissi chiari della giustizia civile o dei tribunali amministrativi o del Consiglio di stato o della Corte dei conti. Luoghi geometrici della giurisdizione dove si ritrovano acque ancora più oscure e nebbiose, ancora più opache e insidiose.

 

L’emerito professore Carabillò non ha dubbi: “Altro che Palamara, altro che gli incontri notturni tra i capicorrente della magistratura per decidere nomine e promozioni, altro che riunioni sottobanco con i politici per discutere la separazione dei magistrati tra amici e nemici. Nei bassifondi della giustizia amministrativa la collusione con la politica è la regola, non l’eccezione: andate a vedere quanti di questi magistrati sono negli uffici di gabinetto dei ministeri, negli uffici legislativi e legali. Da quelle parti la terzietà del giudice è una miserabile utopia da strappare e buttare in un cestino”.

 

 

E chi può dargli torto? C’è in Italia un tribunale amministrativo, meglio conosciuto come Tar del Lazio, che di fatto è diventato, dopo Palazzo Madama e Montecitorio, la terza camera legislativa. Se c’è qualcuno a cui non piace una legge, un decreto o un provvedimento emanato da un qualunque ufficio del potere politico basta un ricorso al Tar del Lazio. Che puntualmente sospende o revoca, accelera o rallenta l’applicazione della norma. In piena autonomia, ci mancherebbe altro; ma senza alcun controllo. Lì – e nel grado superiore, cioè nel Consiglio di stato – si ritrovano i grossi intoppi che bloccano gli appalti; lì si decidono le sorti dei gruppi industriali che si contendono proventi miliardari; lì presenta il ricorso la multinazionale colta in fallo dall’Antitrust; lì si giocano le partite più sostanziose, più lucrose, più danarose.

 

“E’ la magistratura gialla, bellezza!”, ironizza il professore Carabillò. E per gialla si intende una cosa sola: che quella magistratura sfugge a ogni controllo e a tutti i riflettori. “Avete mai visto sui giornali la foto di un giudice del Tar? Tutte persone per bene, non c’è dubbio”, insiste Carabillò. “Ma se in quegli uffici un processo si trasforma in un’asta dove tra i due contendenti vince chi paga di più, chi è più abile a corrompere, quale altro potere interviene? Chi controlla, chi tira fuori lo scandalo dal venticello caldo che lo avvolge, dal quieto vivere che sconsiglia comunque chiacchiere e clamori?”.

 

 

Già, chi controlla? Negli abissi chiari della giustizia, quelli che nessun sommozzatore si è mai sognato di scandagliare, ci ritrovi anche un’altra magistratura: quella contabile, meglio conosciuta come Corte dei conti. Alla quale viene demandato il compito di verificare se i bilanci dello stato o delle regioni sono “conformi alle scritture”. Un compito che teoricamente – molto teoricamente – dovrebbe mettere l’amministrazione al riparo da ruberie, da spese clientelari, da sprechi e malversazioni; ma che puntualmente arriva sempre ex post, quando dalla stalla sono scappati sia i buoi che i delinquenti. Qui la vicinanza con il potere politico è, come direbbero i teologi, consustanziale; e la procedura è così evanescente che, per vedere una sanzione o un errore della politica segnato in blu, bisogna aspettare i tempi lunghi, quando le verifiche di bilancio diranno che i fondi stanziati per una cosa sono stati utilizzati per un’altra cosa: solo a quel punto il procuratore della Corte avvierà un procedimento per il recupero delle somme. 

 

Si celebrerà un processo di primo grado e poi uno di secondo grado e alla fine della giostra chi vivrà vedrà.

 

Succede però – e arriviamo a un caso sollevato dal professore Carabillò – che se c’è un furto in atto la Corte dei conti non è tenuta ad accorgersene. Nella Sicilia, dove ogni avventuriero trova sempre un complice o un consulente che gli spiana la strada, la regione ha versato 91 milioni, estero su estero e in un paradiso fiscale, a una misteriosa società con sede in Lussemburgo per un censimento di beni immobili che nessuno ha mai visto. Alla testa del clan c’era e c’è un imprenditore piemontese, Enzo Bigotti, appena arrestato per corruzione in atti giudiziari dalla procura di Messina. Bene. Esistono i bonifici, tutti in fila e documentati; esiste la mappa degli incastri societari, ma non esiste il censimento a fronte del quale quella poderosa somma è stata versata. E’ lo scandalo dell’anno, l’ultimo dei tanti. E tu ti aspetteresti che la Corte dei conti, sensibile allo spreco anche di cento o mille euro, ci metta mano; che chieda conto e ragione di quello scempio, che si chieda perché la Regione paghi 91 milioni in un paradiso fiscale. Invece gli abissi chiari della giustizia gialla inghiottono di colpo dubbi e domande. “Noi seguiamo la nostra procedura”, rispondono i vertici degli uffici inquirenti e dei collegi giudicanti.

 

E chi può obiettare nulla? Il segreto che abitualmente circonda e custodisce l’attività delle magistrature non sempre è un segreto doveroso e necessario; o una riservatezza funzionale al lavoro dell’ufficio. Spesso è la via di fuga per respingere ogni tentativo di trasparenza. Si pensi al segreto istruttorio che, per definizione, è quello che poi deve essere violato: altrimenti non camperebbero i giornali e certi pm non farebbero le folgoranti carriere che invece fanno. E’ il segreto del potere. Il professore Carabillò, che ne sa sempre una in più del diavolo, arriva a sostenere che il mistero non a caso è lo strumento che Baltasar Gracián, un grande gesuita del Seicento mistico e miscredente, consigliava ai regnanti del suo tempo per avvolgere la propria immagine in un manto di venerazione, quasi in un corpo mistico da incuneare tra il tempo e l’eternità.

 

 

Sante parole. Provate a chiedere a un procuratore della Repubblica perché tra dieci fascicoli che si sono accumulati sul suo tavolo lui sceglie di istruire il numero sette e non il numero quattro, o viceversa: “Ragioni di giustizia”, vi risponderà. Oppure provate a chiedergli perché si è fatto il giro di tutte le carceri per trovare un pentito che accusasse quel signore e non quell’altro: “Ragioni di giustizia”, continuerà a rispondere con spocchia e sufficienza.

 

Tanto, chi lo controlla? E se poi passate dal penale al civile la musica non cambia. Se vi accorgete, per esempio, che alla “fallimentare” c’è un giudice maneggione che traccheggia con gli immobili dei povericristi costretti a svendere dopo una bancarotta; e se vi accorgete che una di quelle case, magari la più bella, è finita per quattro lire nelle mani del suo più caro amico; voi, ingenui e insolenti, non andate lì a chiedere come mai. Perché la risposta è e sarà sempre una e una sola: “Ragioni di giustizia”.

 

Ragioni imperscrutabili, indicibili, insormontabili. La giustizia ha un cuore di tenebra, c’è poco da fare. E dentro queste tenebre alligna non solo la discrezionalità ma spesso, molto spesso anche l’arbitrio. Prendete ad esempio i tribunali antimafia, ai quali le leggi d’emergenza hanno consegnato il potere straordinario di amministrare il sospetto. Basta niente, un fumus, e all’imprenditore sotto tiro viene sequestrato il patrimonio: beni mobili e immobili, case e aziende, terreni e conti correnti, pacchetti azionari e titoli di credito. Sotto l’occhio vigile e spietato della sezione misure di prevenzione, tutto quel ben di Dio viene automaticamente trasferito nelle mani degli amministratori giudiziari. Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva creato nel Palazzo di giustizia di Palermo una confraternita di consulenti, di commercialisti e avvocaticchi, tutti a lei devoti, che all’improvviso si sono trovati a gestire fortune immense, a incassare consulenze, a liquidare parcelle da capogiro. C’erano tutti nel cerchio magico di Silvana Saguto: amici e parenti di magistrati. E se le chiedevi perché mai avesse assegnato il boccone più ambito al fratello di un sostituto procuratore anziché al figlio del presidente della Corte di appello rispondeva anche lei così: “Ragioni di giustizia”.

 

Certo, Silvana Saguto è finita sotto processo, incastrata da una intercettazione involontaria; e questo potrebbe far dire a qualcuno che in fondo anche i magistrati pagano per le loro malefatte un prezzo di infamia e di mascariamento. Potrebbe anche spingere i puri e i purissimi a sostenere che in fondo esistono solo delle isole: quella intestata a Palamara e quella della Saguto, o di qualche altro disgraziato sparso qua e là nel mare magnum della corruzione e dell’abuso. Ma il cuore di tenebra non risiede solo nella nebbia delle misure di prevenzione. Recentemente, per esempio, i magistrati che, dopo 27 anni, ancora cercano di fare luce sui mandanti della strage di Capaci – quella dove furono massacrati Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta – hanno risvegliato un pentito della prima ora, tale Maurizio Avola, catanese. Il quale, dopo un quarto di secolo, si è ricordato che il tritolo necessario per l’attentatuni fu addirittura inviato dall’America: da John Gotti, il boss dei boss. Nientemeno. E tu, ascoltando questa colossale scempiaggine, ti chiedi: ma non c’era una legge che imponeva ai pentiti di dire tutto quello che sapevano in un arco massimo di centottanta giorni? E perché ci sono magistrati che, dopo 27 anni, inseguono un pataccaro come Maurizio Avola e gli permettono di dire nel 2019 cose che avrebbe dovuto dire da almeno un quarto di secolo? E perché c’è una giustizia che consente a un balordo di spacciare dentro i tribunali quattro scemenze per ottenere in cambio il diritto di vivere ancora a spese dello stato? Domande inutili. Perché dagli oscuri meandri dell’antimafia ti risponderanno che ci sono solide ma inafferrabili “ragioni di giustizia”.

 

Mamma mia, quante voragini. Basterà una riformicchia, come quella che propongono i tecnici del ministro Alfonso Bonafede – e puntualmente affidata al principio della delazione o della telefonata anonima – per ripulire di tutto il marcio che si è accumulato negli anni non questa o quell’isoletta ma l’infinito oceano della giustizia italiana? Basterà una riformicchia, come quella che vorrebbe puntellare un Csm ormai sputtanato, per ridare ai cittadini la certezza che lo stato di diritto è in mano alla legge e non ai capricci dei magistrati? Joseph Conrad nel suo libro più superbo, “Cuore di tenebra” appunto, ricorda che per diradare la nebbia appiccicosa dei mari del sud non bastano i venti; occorre “un fremito vasto di tamburi lontani”. Tamburi di guerra. Non i tamburi di latta presi in prestito da questo governo per ritmare gli slogan dell’onestà-tà-tà.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.