Luca Palamara. Foto LaPresse

Viaggio al termine del Csm

Salvatore Merlo

La fine di ideologie e culture, la trasformazione delle correnti in lobby di potere. Le radici dello scandalo Palamara affondano negli anni 90. Parlano Maddalena, Colombo e Fassone

Le correnti si sono trasformate in gruppi di potere per il potere, il carrierismo che si è inoculato come un virus nella magistratura sembra interferire pericolosamente con il principio dell’iniziativa penale, e il Consiglio superiore della magistratura in queste ore periclita, investito da fatti che quando non sono reati rivelano tuttavia meccanismi ben poco trasparenti e di natura inquietante. Meccanismi di degenerazione che si conoscevano, e che però sembrano aver raggiunto la loro fase terminale, putrescente. Ieri si è dimesso un altro togato del Csm, Antonio Lepre, poco prima si era dimesso Gianluigi Morlini, e circa una settimana fa Luigi Spina. Resistono Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, che si sono autosospesi. Tutti coinvolti nell’inchiesta di Perugia che sta indagando per corruzione Luca Palamara e ha reso di pubblico dominio un sistema di potere, che manovra le nomine dei dirigenti dei nostri uffici giudiziari. Dal cellulare di Palamara, infatti, continuano a venir fuori conversazioni e dettagli imbarazzanti, che coinvolgono altri togati, forse altri componenti del Csm, e politici, un impressionante numero di conversazioni telefoniche ricevute dai colleghi o amici per caldeggiare i più disparati incarichi direttivi a favore di se stessi o di altri. La faccenda è su un piano inclinato. “L’autosospensione è un istituto giuridico che non esiste. O resti o ti dimetti. E se non ti dimetti non si capisce perché ti autosospendi”, dice Marcello Maddalena, settantasette anni, una delle figure più rispettate della magistratura italiana, ex procuratore della Repubblica di Torino, fondatore di Magistratura indipendente, la destra delle toghe. “Che alcuni componenti del Consiglio superiore andassero a discutere su chi nominare al vertice di una procura con un politico che è indagato da quella stessa procura è un fatto inaccettabile e intollerabile. Ma non soltanto per i magistrati”, aggiunge il dottor Maddalena. “E’ intollerabile anche per il partito che esprime quel politico. Non credo che in altri momenti della storia d’Italia una cosa del genere sarebbe mai potuta accadere. Guardi, un magistrato non vive solo di imparzialità. Ma vive anche di un’immagine imparziale. Se questa immagine viene compromessa è un problema gravissimo”. Il mercato delle nomine, la spartizione, la scelta negli incarichi direttivi di magistrati considerati – a torto o a ragione – più malleabili. O affidabili.

      

La magistratura s’interroga al suo interno in queste ore su un’ipotesi di autoriforma che però stenta a prendere forma, tra ipocrisie e torpori. La politica apparentemente scalpita, ma lancia messaggi incoerenti, ad alzo zero – compresa quella di sottoporre i magistrati a test psicologici – mossa com’è da insopprimibili e permanenti esigenze di propaganda elettorale. E tutto questo però si verifica mentre un’intera istituzione viene sempre più avvolta dal sospetto e dal discredito. “Ma non è sempre stato così. Le correnti hanno avuto un senso, e credo possano anche tornare ad averlo”, dice Elvio Fassone, ottantun’anni, ex presidente della Corte d’assise di Torino, già componente del Csm, due volte senatore dell’Ulivo, autore di un libro di struggente umanità che raccoglie una corrispondenza lunga trent’anni con un uomo che Fassone aveva condannato all’ergastolo (“Fine pena: ora”, Sellerio).

    

Quello della degenerazione correntizia è stato un fenomeno lento, ma graduale, che probabilmente dalla fine degli anni Settanta, raccontano i magistrati di maggiore esperienza, ha progressivamente infettato l’intero sistema con il quale la magistratura si autogoverna, e sceglie i suoi dirigenti nei tribunali e nelle procure. Negli anni Cinquanta il magistrato viveva dal punto di vista ideale come isolato in una torre eburnea, legato a un’idea persino eccessiva d’imparzialità che lo spingeva a un rapporto quasi burocratico con il diritto e la sua applicazione nel quale comunque era sostanzialmente scontato evitare di guardare nei cassetti del potere.

    

Poi vennero gli anni Sessanta e la “denuncia del carattere mistificatorio della natura meramente tecnica dell’attività giurisdizionale” (così scrive Livio Pepino in “Appunti per una storia di Magistratura democratica”), cambiò la società e cambiò anche la concezione stessa della magistratura intesa come “luogo istituzionale di legittimo e necessario pluralismo ideale e politico” (sempre Pepino) e dunque nacquero le correnti, gli orizzonti ideali e ideologici. Nacque insomma Md, magistratura democratica. Il raggruppamento secondo cui la funzione giudiziaria, possedendo secondo questi magistrati di orientamento marcatamente di sinistra una indubbia valenza politica, doveva anche essere ideologicamente orientata e impegnata (specificamente a sinistra). “Così, per reazione a quell’impostazione ideologica, per reazione a Md nacque anche Magistratura indipendente, cioè Mi”, dice Marcello Maddalena, che Mi l’ha fondata. E insomma per decenni le correnti si distinguevano per ragioni di carattere culturale, ideologico, di orizzonte: la produttività, le garanzie, il principio gerarchico… “Ma a cominciare dagli anni Novanta le correnti si trasformano quasi definitivamente in rappresentanze sindacali. Progressivamente sempre più prive di riferimenti di tipo culturale e ideale”, spiega Gherardo Colombo, settantadue anni, il pm del processo alla P2, delle indagini su Michele Sindona e sul delitto Ambrosoli, di Mani pulite, del lodo Mondadori.

     

“Sono fenomeni di cui si fatica ad accorgersi, quando ci sei dentro. Ma si vedono guardandosi alle spalle, in prospettiva. E’ così che è andata. A un certo punto le correnti diventano anche, e qualcuna forse soprattutto, degli strumenti di gestione e distribuzione del potere interno”. E inizia così la degenerazione della degenerazione. Che differenza c’è oggi tra Mi e Unicost? Tra Area e Alternativa indipendente? Spiegarlo a volte richiede argomentazioni anche troppo articolate.

   

Il progressivo laicizzarsi delle correnti, racconta Colombo, è infatti coinciso con il crollo del Muro di Berlino, il tramonto dei partiti, e delle ideologie che li distinguevano, il Pci e la Dc, il Psi e il Pli: che differenza c’è oggi in Parlamento tra la Lega e Fratelli d’Italia? E le correnti della magistratura, non dissimilmente, sono diventati – chi più chi meno – contenitori, gruppi di potere che si autoperpetuano, difendono i loro iscritti, li promuovono in una sofistica di accordi para-lobbistici non illegali ma certo inestetici, poco limpidi, e che troppo spesso – come hanno rivelato in questi giorni anche le intercettazioni del famoso e radioattivo cellulare di Luca Palamara – talvolta prescindono dal curriculum e dal merito personale dei magistrati che vengono chiamati a ricoprire ruoli direttivi o addirittura semidirettivi negli uffici giudiziari. “Consultarsi non è un peccato. Persino segnalare chi è meritevole e chi no”, dice Fassone. “E’ fisiologico”, aggiunge. “Quello che non è fisiologico ma patologico è il mercimonio”.

    

Fa eco Maddalena: “Fino a un certo momento per l’assegnazione degli incarichi direttivi valeva il principio dell’anzianità. Era un meccanismo accettato, che spegneva la conflittualità tra colleghi e tra le correnti. Si sceglieva il più vecchio. E via. Poi, venuto meno questo principio, si sono accese le rivalità e la competizione. Sempre di più. E così anche le correnti sono diventate sempre più importanti. Decisive. Bisogna però dire che tutto questo non era mai stato così torbido come adesso. Finché l’accordo tra correnti riguardava comunque persone che certamente erano le migliori, seppur individuate all’interno del loro gruppo di appartenenza, questa logica all’incirca funzionava. Non era il massimo, ma era accettabile”. Poi però si è sempre più diffusa l’idea che per fare carriera bisognasse frequentare, chiedere, rendersi affidabili nei confronti della corrente e dei suoi capi. “Si sono rafforzati i ‘collegamenti’ tra i singoli magistrati e i vertici dell’associazionismo, e poi addirittura tra i magistrati e i politici”, dice Maddalena. “Così di fatto si è finito con il preferire probabilmente non il candidato migliore ma il candidato che era in grado di offrire maggiore affidabilità correntizia”. Con un risultato che è quello di oggi. Sotto gli occhi di tutti. Gli accordi, le alleanze e anche gli agguati sono oggi più complessi e indecifrabili, e spesso riflettono convergenze di magistrati di opposto orientamento ideologico. L’unica cosa che rimane è la spartizione secondo rigidi criteri correntizi.

    

“Da un certo punto di vista siamo tornati indietro di quarant’anni”, incalza Colombo. “Perché quarant’anni fa, bene o male, i capi degli uffici giudiziari importanti si sceglievano proprio in questo modo. C’era una grande comunicazione tra il Csm e altre sedi che stavano fuori dal Consiglio. Con la politica. Quarant’anni fa ai vertici di alcuni uffici giudiziari importantissimi c’erano magistrati che non vedevano i reati. Roma era chiamata non a caso ‘il porto delle nebbie’. C’era un blocco di potere unitario. Oggi perlomeno queste cose saltano fuori, perché la magistratura è molto più variegata. Oggi il presidente della Anm, che è iscritto a Mi, si è dimesso. C’è stata una reazione fortissima di Unicost. C’è stata la reazione nell’Associazione nazionale magistrati nel suo complesso. Ed è stata sempre la magistratura stessa, con le sue indagini, a Perugia, a far emergere tutto”.

    

E a questo punto Colombo introduce un nuovo dirompente argomento. E cioè che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sarebbe ormai una specie di favola per bambini ingenui. “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” reciterebbe l’art. 112 della Costituzione, secondo il quale, insomma, il pubblico ministero sarebbe tenuto a mettere in moto l’attività di indagine ogni qual volta venga a conoscenza di una notizia di reato e in qualsiasi modo gli derivi questa conoscenza. In verità di fatto prevale ormai l’opposto. Il principio contrario al dettato normativo della discrezionalità dell’azione penale, che è in vigore in molti paesi europei e del mondo con la semplice – e gravida di conseguenze – differenza che in Italia tale principio non riceve nessuna disciplina normativa, ma è governato dagli umori dei pubblici ministeri. “Credo che l’obbligatorietà sia saltata da tempo. E’ andata a pallino. Ed è un male perché l’obbligatorietà dell’azione penale è la prima garanzia di una magistratura autonoma”, dice Colombo. In una magistratura in cui tutti capiscono che per fare carriera sono necessari rapporti con i vertici e con la politica, è evidente, quasi naturale, che l’iniziativa penale possa finire per essere gestita con meccanismi che poco hanno a che vedere con l’obbligatorietà. “E conseguentemente può succedere che i magistrati scelgano loro, discrezionalmente, cosa perseguire e cosa no”, spiega Colombo. Ma non solo. C’è di peggio. Qualcosa di più subdolo, se vogliamo. Ovvero il sospetto che talora l’azione penale possa essere gestita nelle procure italiane seguendo criteri di pubblicità. Ovvero l’esigenza di segnalarsi e di accreditarsi spingerebbe alcuni magistrati verso inchieste roboanti, di grande impatto mediatico, che puntano i riflettori della notorietà sul magistrato stesso. E sempre l’esigenza di segnalarsi, di accreditarsi, potrebbe spingere alcuni pm a inseguire ipotesi di reato ben viste da una parte politica, indagini che per esempio accarezzano per il verso giusto l’opinione pubblica dominante, lo spirito del tempo.

   

“Che ci sia un pericolo e che il magistrato sia esposto al vento che tira è vero”, precisa Maddalena. “Ed è un pericolo che c’è sempre”, aggiunge l’ex procuratore della Repubblica di Torino, non del tutto convinto com’è che il carrierismo esasperato abbia fatto saltare, o meglio abbia “corrotto” dall’interno il principio di obbligatorietà dell’azione penale. “E’ innegabile che nel sistema ci sia chi ritiene decisivi i rapporti con i vertici della magistratura organizzata e con la politica”, spiega Maddalena. “Ma questo non vale per tutti. E non si può generalizzare”.

   

Eppure il problema delle indagini orientate discrezionalmente a finalità carrieristiche è parte integrante delle cronache di questi giorni. E’ serio. Ed è esploso con drammatica evidenza per effetto della ormai famosa indagine della procura di Perugia. E allora che fare? “Bisogna svuotare il Csm dall’interno. Indebolire il correntismo”, dice Elvio Fassone. “Bisognerebbe fare come la siringa nell’arancia: gli tiriamo via il sugo cattivo. E credo che un nuovo sistema elettorale per il Csm che freni lo strapotere delle correnti sia il sistema più acconcio”. L’attuale sistema elettorale venne approvato all’inizio degli anni 2000 dal governo Berlusconi. Racconta Maddalena: “Dissi subito che questo sistema avrebbe reso le correnti ancora più forti di quello che erano. E infatti io e Maurizio Laudi, che allora faceva il segretario di Mi, andammo a parlarne con il sottosegretario alla Giustizia Michele Vietti. Il governo di centrodestra voleva rendere meno forte magistratura democratica e di conseguenza anche le altre correnti. In realtà, spiegammo a Vietti, che avrebbero tenuto l’obiettivo opposto. Così presentammo una proposta diversa che prevedeva dei collegi molto piccoli, dove i magistrati conoscono i candidati e quindi non votano soltanto per appartenenza correntizia. Inoltre suggerimmo un doppio turno elettorale, utile a impedire ulteriori accordi tra le correnti. E Vietti ci ascoltò, ci capì, era d’accordo e ci disse che ne avrebbe parlato con Gaetano Pecorella. Passato un mese, rividi Vietti. E lui mi riferì che Pecorella aveva detto così: ‘Questo sistema non si può fare. Non piace alle correnti’”. Maddalena ride. Poi: “Ma certo che non piaceva alle correnti! Guardi qui c’è una grave colpa della politica. La politica non deve fare così. La politica deve essere capace di vincere i condizionamenti”. E invece sulla politica – che sembra soltanto capace di urlare – ricade la colpa principale di una debolezza supina e di una rassegnazione codarda nei confronti della magistratura. Dice Maddalena: “Ma non ci sono segnali di resipiscenza. Anzi. Sembra stiano scadendo nel senso opposto. Adesso parlano di sorteggiare i membri del Csm. Una cosa che fa ridere. O piangere, fate voi”.

   

Eppure il ministro Alfonso Bonafede punta proprio sul sorteggio, lo ha pure illustrato al presidente della Repubblica. Dice Fassone, impietoso: “Il sorteggio poteva andare bene nell’antica Atene. Io sono affezionato all’etimologia. ‘Eligere’ vuol dire scegliere il meglio. Nel corso della mia esperienza al Csm ho visto anche la parte ‘fangosa’ della magistratura. E per fangosa non intendo soltanto maneggiona, ma pigra, mediocre… Ecco, sorteggiare un po’ di quelle persone mi inquieta”. Anche Colombo è contrario al sorteggio: “E’ l’opposto della democrazia, la democrazia è scelta consapevole”. E allora? “E allora vanno adottati dei rimedi”, dice Maddalena. “Nella vita non esiste mai un rimedio perfetto. Ma esiste il minor danno. L’umanità è fatta così d’altra parte”. E allora il dottor Maddalena spiega che per prima cosa andrebbe impedito che gli incarichi, nelle procure, vengano fatti “a pacchetto”. Cioè tutti in una volta, dividendosi le poltrone. “Quando il mio collega Antonio Patrono era al Csm frenò questo meccanismo pernicioso. Stabilì che i procuratori venissero nominati in ordine cronologico: si libera un ufficio, si fa la nomina. Ed è quello che mi sembra dica oggi anche il presidente della Repubblica. Suggerimento molto, molto opportuno. Poi bisognerebbe essere meno ipocriti. Cioè: nominare il procuratore della Repubblica di Roma non è come nominare il presidente di una sezione di tribunale a Canicattì. Se il secondo incarico lo si può selezionare con metodi anche burocratici, il primo va invece sottoposto a una vera e serissima istruttoria: sulla carriera del magistrato, su come ha lavorato, sulle sentenze che ha scritto… Noi invece adesso ci comportiamo in maniera uguale per tutti. E poi però si parla di meritocrazia. Quando invece prevale la più assoluta discrezionalità”. E infine un nuovo sistema elettorale per il Csm, tarato contro il correntismo. “Collegi piccoli e doppio turno”, come il dottor Maddalena aveva già proposto – inascoltato – circa dodici anni fa. “O un sistema che preveda in corsa per il Csm una quota di magistrati non appartenenti alle correnti”, dice Fassone, che una legge di questo tipo l’aveva proposta nel 2001.

    

“Un’idea è anche quella di ricalcare il meccanismo d’elezione dei membri della Corte costituzionale”, suggerisce invece Colombo. “Vengono designato a turno. In momenti diversi. E questa meccanica differita potrebbe forse scardinare gli accordi sotterranei. Ma il problema secondo me è soprattutto culturale. Puoi anche cambiare le regole, ma se non cambiano la cultura e la mentalità all’interno della magistratura alla fine le cose rischiano di continuare così”. Vasto programma, viene da obiettare. Come si fa? “Investendo moltissimo nella professionalità dei magistrati. Dovrebbe esistere una grande scuola di formazione che non si occupi solo dei tecnicismi, ma della preparazione generale, persino deontologica”. Chissà. E’ esattamente quello che suggerisce anche Fassone: “Una volta, nel mondo politico, quando era una cosa seria, esistevano posti come le Frattocchie e la Camilluccia. Scuole che, bene o male, una classe dirigente capace ce l’avevano data per quarant’anni. Perché non è possibile fare qualcosa di simile nella magistratura?”.

     

E, insomma, riforma o autoriforma? Questo è il problema della magistratura, mentre il cellulare di Luca Palamara restituisce l’immagine di magistrati e componenti del Csm che si riferiscono ad altri magistrati con espressioni da mercato, volgarità e turpiloquio padronale. Che autoriforma può venire fuori da un Csm composto in questa maniera? Insomma che autoriforma può uscire fuori da un organo delegittimato e paradossalmente anche poco rappresentativo? Il sospetto è infatti che tutti, o quasi, siano rimasti impigliati nelle trattative con il gruppo di Palamara. Persino Pericamillo Davigo, e il gruppo di Ai, che pure non appare in nessuna intercettazione, aveva votato il candidato di Palamara alla procura di Roma. Abbastanza da far apparire delegittimato l’intero Consiglio. Sulle mailing list dei magistrati c’è anche chi chiede lo scioglimento, ovvero le dimissioni di tutti i consiglieri. Anche se questa non è la posizione dell’Anm, e nessun magistrato di rilievo è d’accordo. Per adesso. Nemmeno Maddalena, né Colombo, né Fassone. Ma come ripartire altrimenti, come tracciare una linea, cancellare, riformare e non perpetuare lo scandalo della spartizione?

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.