Il presidente Mattarella alla cerimonia d’insediamento del Csm il 25 settembre scorso (LaPresse)

Contro il metodo del sospetto

Alessandro Barbano

Il caos al Csm ricorda cosa si rischia quando il processo mediatico prevale su quello penale

Il disdoro dei complottisti del Csm non fa più male alla democrazia del moralismo di quanti, tra politici, intellettuali e giornalisti, si stracciano le vesti gridando, come fa Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, “all’immagine devastante che esce dalle inchieste”. Tutti concentrati sul dito puntato contro lo scandalo, che sia la vendetta tra due magistrati rivali o piuttosto le pressioni e i ricatti tra le loro correnti politicizzate, ignorando però l’abisso che si apre di fronte a una società che fa sua per intero la grammatica del sospetto. Tutti apostoli più o meno consapevoli di una barbarie che sta cambiando il nostro modo di vivere e di raccontarci, e di cui non si avverte il pericolo. Il suo simbolo, come ha ben scritto sul Foglio Giuseppe Sottile, è il Trojan, il captatore informatico che consente di intercettare a telefono spento e che il decreto “Spazzacorrotti” del ministro Alfonso Bonafede ha esteso a un uso indiscriminato.

 

Ma è tanto facile censurare i magistrati quanto riduttivo prendersela con la tecnologia investigativa. Che pure è invasiva oltre ogni limite. Non solo perché ignora qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iper-pubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riduce la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolge la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione.

 

 

Caso Palamara e non solo. Anche tra i magistrati ci si sta accorgendo che il reato sta uscendo dal radar della giustizia per far posto al reo

Quando il magistrato Luca Palamara trama per pilotare la nomina del procuratore di Perugia e per sfregiare la reputazione del suo collega rivale romano Paolo Ielo, mette in atto un piano o piuttosto annuncia un’intenzione, o ancora manifesta un desiderio, o invece confessa un’emozione? Forse non lo sapremo mai. Il virus informatico seziona l’ordito di relazioni umane più o meno riservate che s’intrecciano nella sagrestia di uno spazio pubblico caotico. Dove l’assenza di presidi ufficiali, che siano partiti o sindacati, è surrogata dall’azione di cordate volatili di interessi. Che non hanno più pensieri forti o ragioni condivise, ma solo grumi di motivi individuali. Il carrierismo, la rivincita personale, quando non proprio la vendetta. Il fotogramma che se ne ricava è netto come la curva anomala di un elettrocardiogramma durante un infarto. In pochi secondi di registrazione c’è il chiodo a cui appendere una ricostruzione diagnostica, investigativa, o giornalistica. Senonché nella trascrizione dell’intercettazione la plasticità di una relazione umana fatta di parole, pause, toni e ritmi sfuma nella piattezza di un resoconto sbobinato. Per ricostruirla non ci resta che interpretarne la sintassi. C’è Luca Palamara che parla con il collega Cesare Sirignano, pm della Direzione nazionale antimafia e suo compagno della corrente di Unicost. “L’argomento – scrive sul Corriere della Sera Fiorenza Sarzanini, virgolettando in modo testuale un’informativa della polizia giudiziaria – è l’individuazione di un candidato da appoggiare per l’incarico di procuratore a Perugia. ‘Ma io non c’ho nessuno a Perugia… zero’, esclama Palamara che s’informa su uno dei tanti candidati”. Sirignano “risponde che Palamara non avrebbe alternative (per problemi e logiche di correnti) se non appoggiare il candidato di cui parlano, e a quel punto Palamara chiede: chi glielo dice che deve fare quella cosa lì”. E a seguito dei chiarimenti richiesti da Sirignano – scrive ancora la Sarzanini – “Palamara aggiunge: deve aprire un procedimento penale su Ielo, cioè stiamo a parla’ di questo… non lo farà mai”.

 

 

  

E’ un reato? C’è una volontà precisa di colpire il collega rivale con un’indagine indebita fondata su accuse costruite ad arte? C’è la sostanza o almeno la parvenza di azioni concrete e dirette a ledere il bene giuridico protetto da una norma penale? C’è l’organizzazione propria di un progetto criminale condiviso da più persone? Nella sezione “radiografica” dell’intercettazione si può cogliere il proposito di condizionare la nomina di un magistrato, attività che potrebbe perfino definirsi “istituzionale” rispetto al ruolo assunto dalle correnti in un sistema, quello del Csm, politicamente orientato. Ma c’è anche la presa d’atto di una pregiudiziale inadeguatezza tra fini e mezzi dell’azione proposta, quando Palamara dice: “Ma io non c’ho nessuno a Perugia… zero”. La stessa idea di chiedere al futuro procuratore del capoluogo umbro l’apertura di un procedimento penale contro il rivale di Palamara a Roma, Paolo Ielo, è espressa, in negativo, come irrealizzabile, quando Palamara ammette: “Chi glielo dice che deve fare quella cosa lì”. E ancora: “Deve aprire un procedimento penale su Ielo, cioè stiamo a parla’ di questo… non lo farà mai”. Di fronte alla constatazione di queste difficoltà operative, l’intenzione del magistrato degrada nella confidenza di un desiderio non legittimato. Il processo penale non può che arretrare di fronte all’irrilevanza di questo frammento di tecnologia investigativa, constatandone tutta la sua limitata efficacia probatoria. Non a caso Palamara è indagato per un’ipotesi di corruzione riferibile a fatti e soggetti che con il collega romano e con la nomina del procuratore di Perugia non hanno nulla a che vedere.

 

Ma ciò che è “non pertinente” e “irrilevante” nel processo penale diventa “essenziale” e “decisivo” nel processo mediatico. Qui l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. E’ in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni umane politicamente organizzate.

 

Ma non è certo a causa della tecnologia informatica se il processo mediatico prevale sul processo penale, e se un metodo, che non fa onore a chi scrive definire “giornalistico”, tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. E’ in atto uno slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni. Il reato sta uscendo dal suo radar per far posto al reo.

 

La confusione non opera solo, come nel caso del Csm, sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. Ci sono casi in cui il fenomeno è più ampio, integra uno scambio di paradigmi, per cui i criteri operativi con cui il giornalismo interpreta la notiziabilità e il senso della sua contrapposizione ai poteri sembrano riflettersi sul processo. E’ la sostituzione dell’illiceità penale con una generica ingiustizia. L’effetto è una dilatazione di alcune fattispecie, come la corruzione, oltre i do ut des di una patrimonialità in cui tradizionalmente si esprimeva la concreta lesione dell’imparzialità pubblica tutelata dalla norma penale. La nuova forma che la corruzione assume è atipica e giuridicamente inoffensiva, anche se moralmente riprovevole.

 

In un processo aperto a Firenze sul concorso nazionale di idoneità per i professori di Diritto tributario, l’ipotesi di corruzione si fonda sul presunto scambio transattivo tra le aspettative di candidati che si riconoscono in due scuole accademiche culturalmente alternative, i cui rappresentanti sedevano nella commissione giudicatrice. E’ evidente che ciascuna delle due scuole è custode di un patrimonio di saperi e di idee diversamente orientati, e perciò tende a promuovere il proprio profilo ideologico. Possiamo anche definire questi processi corporativi e vischiosi, come effetto di un’angustia accademica. Ma scambiare la mazzetta con l’orgoglio di un docente per aver fatto avanzare un proprio allievo significa criminalizzare il funzionamento delle istituzioni civili. E’ quanto sta accadendo in Italia nell’inconsapevolezza pubblica.

 

Ciò che è “non pertinente” nel processo penale diventa “essenziale” nel processo mediatico. Ora lo scoprono anche i pm

Lo scandalo di Palazzo dei Marescialli è figlio dello stesso strabismo che assegna al diritto penale il compito abnorme di raccontare la democrazia e di discriminarla con le sue categorie. Lo sdegno ipocrita che si solleva dal fumo delle intercettazioni è l’altra faccia di un’amnesia populista: consiste nella difficoltà di riconoscere, legittimare e bilanciare la funzione del potere nei processi democratici. La politica ha perso molte occasioni per depoliticizzare il Csm, mettendo mano a una riforma dell’ordinamento giudiziario, più volte annunciata e mai compiuta, e ridefinendo i confini di un’indipendenza che ha fin qui impedito l’adozione di regole e principi di efficienza organizzativa. Oggi il Csm è un organo politico-corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una scala dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Se metti un Trojan in un simile sistema, non puoi stupirti di riscontrare, nell’arco temporale di un’intercettazione autorizzata, ambiguità, pressioni, corvi, minacce, intese trasversali non sempre onorevoli. Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. Ci si può stupire se un ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati sgomita oltre il dovuto per cercare uno strapuntino professionale?

 

Due grandi ipocrisie collettive raccontano e accompagnano, nello spazio pubblico, lo scandalo. La prima è ritenere la pervasività delle correnti il cancro della magistratura. E’ vero l’esatto contrario. E’ la loro attuale debolezza la causa di uno smottamento della democrazia giudiziaria. Le correnti soffrono la fragilità ideologica, la non riferibilità a scuole di pensiero e a leadership carismatiche e riconosciute, l’incapacità di promuovere valori e responsabilità facendo sintesi tra gli interessi e gli appetiti individuali. Un sistema politico si governa su base ideologica e programmatica attraverso corpi intermedi, o piuttosto degrada in una giungla abitata da satrapi in lotta o, peggio, di pretoriani senza satrapi.

 

La seconda ipocrisia è ritenere che i vizi si correggano riducendo la discrezionalità delle decisioni. Questa convinzione esprime contraddittoriamente la critica alla politicizzazione del sistema e la sua stessa difesa: perché la stretta delle procedure su nomine e carriere serve solo a rendere più marginali il merito e l’autorevolezza di chi è chiamato a valutarlo, più sordo e più violento lo scontro tra la diverse fazioni, più artificiosi i sotterfugi per eludere le regole, più ambigui gli accordi nelle liti. E soprattutto, più distante il sapere dal potere.

 

Il divorzio del sapere dal potere è la misura della crisi della democrazia. Si è prodotto negli anni come effetto di una sostituzione di ogni residua forma di autorità con una burocratizzazione che, a conti fatti, si è rivelata un rimedio peggiore del male. Poi è arrivato il populismo, la sua riduzione della democrazia al voto come fonte unica di legittimazione del potere. Ma la disintermediazione di ogni sapere e ogni autorità non riconducibile all’esercizio della sovranità popolare, accompagnata dalla demagogia anti casta, ci ha consegnato la peggiore classe dirigente della storia repubblicana. E’ singolare che questa pericolosa suggestione torni nel pensiero di intellettuali che dicono di aver compreso – sia pure tardivamente – i pericoli del populismo. E che però invocano, come fa ancora Ernesto Galli della Loggia, l’elettività della magistratura come rimedio contro la sua politicizzazione e l’estensione delle giurie popolari come garanzia di giustizia. Ma la democrazia ridotta a un plebiscito sul potere, e processata in una pubblica piazza senza l’ausilio del sapere, sarebbe, ancora, una democrazia?

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